Di Oscar Sanguinetti da Cultura&Identità. Rivista di studi conservatori, anno XII, nuova serie, n. 27, 31 marzo
2020, pp. 4-7
A distanza di pochi giorni dal più giovane Roger Scruton (1944-2020), un altro maestro del pensiero conservatore, Giovanni “Gianni” Cantoni, ci ha lasciato. Nelle prime ore di sabato 18 gennaio 2020 la Vergine è venuta a prendere, come da antica promessa ai congregati carmelitani — il cosiddetto “privilegio sabatino” —, l’anima del suo devoto. Come al sottoscritto, anch’egli presente, nel turno di esercizi ignaziani — uno dei primi — organizzati da Alleanza Cattolica nell’estate 1975 a Firenze gli era stato imposto da padre Ludovic-Marie Barrielle C.P.C.R. (1897-1983) lo scapolare della Confraternita della Beata Vergine del Monte Carmelo che appunto conferisce tale privilegio. Cantoni, molti anni dopo, al termine di un altro turno di esercizi, aveva fatto offerta della propria vita per la Chiesa e il Signore nel 2013, al termine di una nuova settimana di esercizi, ha voluto esaudirlo, facendogli vivere un lungo periodo di purificazione attraverso la sofferenza fisica e morale e, infine, chiamandolo a sé per sempre.
Giovanni Cantoni è stato il fondatore — con l’amico Agostino Sanfratello —, nonché per decenni il Reggente Nazionale e l’animatore di Alleanza Cattolica, associazione laicale di apostolato culturale con particolare riferimento alla dottrina sociale della Chiesa. Cantoni era nato al tempo dei fasci littori, aveva attraversato la guerra mondiale, aveva vent’anni alla morte di Pio XII (1939-1958) e trenta quando l’ondata rivoluzionaria passata sotto il nome di “Sessantotto” raggiungeva il suo culmine: ne aveva cinquanta quando l’“impero del male” iniziava la sua inattesa e rapida agonia. Cantoni ha cioè vissuto in pieno l’epoca di drammatici eventi che ha cambiato il volto del mondo e della nostra Italia — già profondamente “alterato” dal Risorgimento e dalla tragedia delle guerre mondiali — nel breve volgere di qualche decennio.
Ma non è stato spettatore passivo di questo convulso processo di mutamento, anzi ha lottato con tutte le sue energie per evitare che la nostra collettività nazionale finisse per assumere il volto tristemente invecchiato e deturpato che oggi presenta. Tradurre in parole l’impressione che questa scomparsa dalla scena del mondo di un personaggio che tanto spazio ha avuto nella mia vita intellettuale e spirituale, come pure in quella di tanti amici fraterni, mi riesce davvero arduo. Anche se, dopo sette lunghi anni di malattia progressivamente inabilitante che ne ha colpito il corpo, ridotto le facoltà intellettuali e inaridita la parola, ero ed eravamo — i familiari e noi amici — preparati a questo exitus, la notizia mi ha colto di sorpresa e riempito di sgomento.
Chi sia stato Giovanni Cantoni saranno in tanti a scriverlo: limitandosi alla vita pubblica — cui tanto sacrificava di quella privata —, lo si può definire un raffinato pensatore; un acuto analista e prognostico della politica alla luce di una filosofia e di una teologia della storia cristiane da lui assimilate in maniera non comune; un uomo dalla perspicacia straordinaria nel cogliere le mosse e le metamorfosi della Rivoluzione e capitalizzare tutto ciò che di giovevole alla causa della Contro-Rivoluzione si fosse presentato; un acribioso e talora arcigno filologo; uno scrittore asciutto e spesso difficile; un uomo di azione permanentemente “sul pezzo”; un credente ordinario e ardente; un amante della liturgia gregoriana e della Messa tridentina, pur senza farne una pregiudiziale; il fedele discepolo e apostolo del Magistero dei papi e della dottrina sociale della Chiesa; infine — e in sintesi — l’innamorato e il paladino instancabile della Vergine Maria. Nel ricordarlo con tutto il mio affetto, aggiungo che ho perso un maestro — in altra occasione l’ho definito un “nocchiere” — e un amico, un uomo che, in certa misura e mutatis mutandis, per non pochi aspetti ha surrogato quella figura paterna che mi è venuta a mancare precocemente. Anche in tanti frangenti esistenziali — almeno a due riprese, agl’inizi della mia carriera professionale, quando si adoperò anch’egli per cercarmi un impiego, e poi, molti anni dopo, quando questa carriera inaspettatamente si bloccò, per farmi sostenere dall’Associazione —, è stato per me un forte e caldo sostegno.
Almeno dal 1972 ho avuto modo di ascoltarlo con regolarità in decine occasioni: in conversazioni private — che elargiva con generosità a chiunque degli amici lo chiedesse, a casa sua o intorno al tavolo di un ristorante —; durante i ritiri periodici di Alleanza Cattolica lombarda, cui interveniva non appena poteva — soprattutto amava chiacchierare sottobraccio con i singoli amici durante gl’intervalli fra i vari interventi —; praticamente poi l’ho visto ogni mese lungo almeno trent’anni, in occasione delle riunioni nazionali e generali di Alleanza Cattolica; l’ho ascoltato nelle conferenze pubbliche, nei convegni, nelle audiocassette — un amico ricordava di averlo conosciuto prima dalla voce registrata e poi de visu — ascoltate viaggiando in automobile. Come ho detto, ho pure avuto l’onore di frequentare — per me era la prima volta — al suo fianco uno dei primi corsi di esercizi spirituali associativi, di cui è stato l’animatore laico. Non dimenticherò mai — a volte si ricordano i frammenti piuttosto che il tutto — il suo intervento prima della promessa conclusiva di combattere per Gesù Cristo Re e Maria Regina fino alla morte ricordo che ci disse all’incirca: “adesso, signori, smettiamo le braghette corte e indossiamo quelle lunghe…”. Oltre ad averlo ascoltato, posso dire di aver letto praticamente tutto quanto uscito dalla sua penna, a datare dalle introduzioni ai volumi da lui tradotti nel corso degli anni 1960 e 1970 e ai primi articoli apparsi su periodici della destra culturale: volumi, articoli, dispense, ciclostilati, circolari interne.
Tutto ciò premesso, posso dire che a lui debbo in sostanza tutto il poco che so in campo filosofico e storico e che a lui e all’associazione da lui fondata — cui mi onoro di appartenere — debbo anche l’impulso originario e costantemente ribadito a rimettere la mia vita spirituale e morale sul giusto binario e a spenderla “in modo giusto”. Ho imparato da lui, attraverso i canali istituzionali dell’associazione come pure vis-á-vis, quanto conosco di questo e di quell’argomento, come si legge un testo, leggere in lingue straniere, fare ricerca, scrivere, parlare — per il poco che mi riesce. Il suo insegnamento e il percorso formativo da lui costruito mi hanno aiutato a superare i tanti “complessi” di una educazione intellettuale storicistica e risorgimentalistica assorbita — con crescendo peggiorativo — nelle scuole e nell’università. Da lui ho imparato, per esempio, la grande lezione della fisiologia sociale, secondo cui le istituzioni politiche devono ricalcare quelle organiche umane e naturali. Ricordo — altro esempio — l’apertura di orizzonte che provocò in me quando ci fu esposta — prima da Agostino Sanfratello, poi da lui — la dottrina delle forze segrete della Rivoluzione, oppure l’importanza dello Stato moderno come strumento della Rivoluzione e in relazione alla formazione della nazione. A lui debbo la scoperta di tanti maestri intellettuali, da Joseph de Maistre a Gustave Thibon, da Plinio Corrêa de Oliveira a Jean Ousset, da Gonzague de Reynold a Marcel de Corte, da Nicolás Gómez Dávila a Francisco Elías de Tejada, da Eric Voegelin a Russell Amos Kirk e a tanti altri… Maestri intellettuali, ma anche maestri spirituali, da sant’Ignazio di Loyola a Pio Bruno Lanteri, da san Luigi Maria Grignion de Montfort a Raoul Plus, da dom Jean-Baptiste Chautard a dom François de Sales Pollien.
Oltre a come esprimere il pensiero in forma articolata e coinvolgente, Giovanni Cantoni educava ad ascoltare. Ricordo la straordinaria e meditabonda attenzione con la quale seguiva le relazioni a convegno, soprattutto quando a esporre erano amici o discepoli: non perdeva letteralmente una sillaba… E così avveniva pure nel colloquio a quattr’occhi: nulla gli sfuggiva di quanto l’interlocutore, magari con approssimazione di contenuto e di stile, gli diceva.
Collaborando al suo fianco a libri e ad articoli, ho assorbito il suo gusto per l’onestà intellettuale, che si esprimeva nella fedeltà delle citazioni altrui, nell’informare su soggetti, luoghi ed eventi riferiti dai miei scritti — non dando per scontato mai niente e praticando la carità intellettuale di mettere il lettore in grado di capire che cosa si voleva trasmettergli —; nell’utilizzare sempre le fonti di appoggio scientificamente migliori e più recenti. In altri termini ho appreso da lui un metodo, forse il metodo, con cui comunicare per iscritto con il prossimo. Tutte cose, quelle che ho menzionato, che, nel clima di sempre più accentuata decadenza anche formale in cui viveva la cultura tardo novecentesca, lo facevano definire un pignolo, un acribioso — egli stesso si autodefiniva un “macigno filologico” —, un pedante, ma che hanno fatto sì che, se qualcuno ha osato definirlo “nazista” per iscritto — perdendo poi il processo per calunnia —, non vi sia mai stato alcuno che abbia potuto attaccare una sola virgola di quanto da lui e dai suoi messo nero su bianco. Credo che proprio il metodo sia il lascito più efficace e provvidenziale che egli ci ha trasmesso sul piano operativo. Non un libro — sebbene quelli da lui proposti siano innumerevoli —, non un manuale — anche se abbiamo le sue accurate edizioni di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, autentica guida per l’azione dell’apostolo sociale —, ma una mentalità, un modo organizzato per capire e per agire con efficacia sia — come per i veri maestri — il frutto più genuino e prezioso della sua azione educativa.
In particolare, a lui debbo di essere stato instradato all’inizio degli anni 1970 su un filone di studi allora noto a pochi — ma che egli aveva già approfondito in maniera egregia —, quello delle resistenze popolari contro la Rivoluzione francese e il regime napoleonico. Un filone che poi coltivai prioritariamente per decenni, dando vita con amici a iniziative di ricerca e di diffusione intellettuale e civile di qualche momento.
Credo tuttavia che uno dei magis — in senso ignaziano — più sostanzioso e schietto, anche se meno evidente, di cui Giovanni Cantoni ci ha fatto dono, oltre all’amore per la Vergine e per gli Esercizi spirituali, è la sua visione della vita, il suo stile umano impregnato di realismo e di bontà: una bontà che non era pura cortesia, ma reale interesse per il prossimo — in primis per gli amici che veniva raccogliendo in sempre crescente numero negli anni — e per i suoi problemi. Uno stile marcatamente “provinciale”, emiliano e piacentino, nel senso migliore del termine. Uno stile che conosco per avuto modo di vivere e studiare per alcuni anni nella vicina Parma, uno stile, almeno alla fine del Novecento, in cui sopravvivevano ampie “sacche” di buoni costumi, di bonomia e di buon senso antico. Una visione di suo — anche se Piacenza fu la culla delle avanguardie neo-comuniste sessantottine — tendenzialmente conservatrice e tradizionalista, impregnata di religione e di saggezza popolare, nutrita di proverbi — provata verba —, espressione del buon senso di tante generazioni padane vissute per secoli in orgogliosa autonomia e in un sano conservatorismo di costumi e di usanze. Ricordo in particolare con quanta frequenza Cantoni evocava le “zie”, sue e di tutti: quelle zie, sposate e nubili, sempre con il rosario in mano, che nelle famiglie ancora solide e “larghe” del suo tempo rappresentavano una realtà di primo piano. E ricordo altresì quanto si prodigò per loro quando divennero anziane e inferme e necessitavano di ogni aiuto.
Il buon senso assimilato dall’ambiente si traduceva allora, ricordo, in esigenza di precisione e di compiutezza. Quando andavo a scuola — ho fatto a Parma quarta e quinta elementare, le tre medie e la prima liceo — una linea retta doveva essere davvero retta, una pagina bianca davvero bianca, una figurina di carta ritagliata davvero senza bordi, un colore applicato senza sbavature o uscire dai contorni, un calcolo esatto e non approssimato, e così via in tante minuzie di stile che, messe assieme, formano quel micro-capitale che distingue sempre più l’uomo civile dal barbaro, il vir dall’homo. E che oggi, post 1968, ahimè è stato drammaticamente dilapidato… Tutto questo, tutta l’acribia dei miei insegnanti emiliani, ritrovavo nella cura che Giovanni Cantoni metteva nel “porgere” un soggetto o nell’affrontare un problema. Ricordo anche con gratitudine gli incisi di carattere morale-pratico che disseminava nei suoi interventi anche a tema politico e che spaziavano dalla scelta della fidanzata — “guarda sua madre…” —, al matrimonio — “è come andare in guerra…” — ai rapporti coniugali, a tante altre piccole cose — “succede ai vivi…” —, all’apologia del bon ton: tutti dettagli che l’interruzione della tradizione verificatosi grosso modo nel Sessantotto impediva di ricevere, quei dettagli che possono fare il successo o l’insuccesso di una vita.
Quelle piccole cose che la vita quotidiana in un tessuto metropolitano ricco di comodità, ma anche infarcito di innumerevoli stimoli dispersivi soffocava, creando personalità “spaesate” o disorientate, prone a subire la ventata rivoluzionaria che soffiava allora potente. Lo stile comunicativo di Cantoni — serio ma sempre intriso di un gradevole sense of humour, quell’umorismo che nasce dal culto della realtà — era in grado di modulare registri diversi: elevatissimi in pubblico, ma semplice — spogliandosi machiavellianamente dei “panni curiali” e scendendo di livello, accentuando la “cordialità” — nella dialettica da persona a persona. Il suo eloquio passava dall’uso del latino — frequente — e del francese a quello del dialetto piacentino, fatto che testimoniava il suo amore, di principio e di fatto, al “mondo piccolo” e alla “piccola patria” che il mondo moderno stava condannando a sparire. Né evitava di quando in quando il linguaggio colorito e virile per mettere più a suo agio l’interlocutore o per rafforzare i concetti. Recentemente sosteneva che parlando di cose gravi e oggettivamente sgradevoli — un aborto, per esempio, o un atto omosessuale —, che stanno diventando realtà non più nascosta ma ostentata, per rompere la barriera del gergo “politicamente corretto”, ci si dovesse esimere dall’usare solo i termini suggeriti dalla buona educazione.
Il linguaggio del corpo, il modo di vestire, allo stesso tempo demodé e odoroso di libertà e di signorilità, il gestire, il modo di assistere alle cerimonie religiose e alla Santa Messa, l’ambiente stesso in cui viveva — la casa antica nel cuore della sua città, austeramente, ma sapientemente arredata —: tutto contribuiva a far percepire a chi veniva in contatto con lui l’altezza della causa che egli aveva indossato e la possibilità di vivere in maniera davvero “alternativa” e controcorrente anche in tempi di tanto ostentata vita “al naturale”, in realtà di degrado del costume e di Rivoluzione culturale galoppante come i primi anni 1970.
Il suo stile confermava lo sforzo esemplare che erogava, della vita al limite dell’impossibile che conduceva, conciliando le esigenze dello studio, della propaganda, del governo di un’associazione sempre più numerosa e ramificata con doveri di stato sempre più stringenti: un lavoro talora tutt’altro che lieve e sempre poco remunerativo; una sposa e quattro figli; il vuoto lasciato dal padre scomparso ancora giovane; una madre amata, ma esigente; una famiglia materna e paterna non poco estesa. Il suo esempio diceva ai noi giovani ancora incerti che volendo si poteva, che le alternative — studio, lavoro, carriera, famiglia — all’apostolato erano false alternative…. Non era uomo da digiuni e da cilicio abituali — anche se non possiamo escludere che abbia praticato entrambe le cose all’occorrenza —: amava la buona tavola e il vino della sua terra; non era un nico-dipendente, ma un buon cigarillo dopo cena o in momenti di tensione se lo permetteva generosamente; conosceva la musica moderna, anche se il suo slogan era “dopo Mozart, solo marce militari”, intendendo che dopo la struttura della composizione adottata genialmente dal salisburghese, ossia conforme ai canoni classici, la Rivoluzione aveva vinto anche nel modo di fare musica.
Proprio questa sintesi umana ben riuscita — pur, credo, con tutte le tensioni che la vita moderna genera anche negli animi più raffinati — faceva di lui, per me e per molti, un oggetto di ammirazione e di imitatio in temporalibus.
La sua scomparsa lascia un grande vuoto: anche se da anni era inabilitato a svolgere qualsiasi attività, il fatto solo di saperlo fra noi, pur se confinato in un letto di ospedale, era un elemento importante di continuità e di coesione. Anche se la sua “scuola” vanta personaggi di alto profilo nelle varie discipline da lui coltivate, dal diritto alla storia, da oggi sentiremo la mancanza di un soggetto così capace di reducere ad unum i vari ambiti e dei suoi sagaci orientamenti così preziosi per proseguire con efficacia l’azione contro-rivoluzionaria nel nostro Paese. Il suo amore sconfinato per la Chiesa e per il Papa ci confortano e ci fanno credere che comunque, anche in sua assenza, pur dovendo servirsi di pedine di assai minor valore, la Provvidenza farà sì che i cattivi non praevalebunt.