Importanti indicazioni sul “che fare?” dopo la sentenza della Corte da don Roberto Colombo. L’obiezione di coscienza è importante ma non basta, occorre ricostruire una cultura della vita nei diversi ambienti, anche ecclesiali, superando la falsa affermazione che circola nei nostri ambienti secondo la quale difendere la vita e la famiglia sia divisivo.
Di Roberto Colombo da Avvenire del 27/09/2019. Foto redazionale
Il giorno dopo la sentenza della Corte costituzione sulla depenalizzazione del suicidio medicalmente assistito, in caso di «patologia irreversibile» e segnata da sofferenze ritenute «intollerabili », richiesto tramite il Servizio Sanitario Nazionale da una persona «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», la domanda è: ‘E adesso che cosa facciamo?’. Una domanda che circola tra medici, infermieri, parenti che da anni curano con amore i loro cari malati e disabili, e tra tanti, tantissimi semplici cittadini (credenti e non credenti). Una domanda provocatoria per la ragione e la fede, oltre che per l’amore alla vita propria e altrui e per la responsabilità civile di ognuno, che non può rimanere senza risposta.
Al momento – salvo migliore giudizio – si prospettano tre strade percorribili e doverose, almeno fino a che esse non vengano interrotte da frane legislative, valanghe culturali o intemperie sociali e politiche. Potremmo chiamarle la via della garanzia di legge, la via dell’educazione culturale ed ecclesiale, e la via della testimonianza di cura incondizionata.
Sul fronte ecclesiale italiano il cardinale Bassetti, presidente della Cei, e su quello professionale medico il dottor Anelli, a nome della Fnomceo, hanno chiesto con decisione – insieme a numerosi altri soggetti e associazioni – che il Parlamento, chiamato nuovamente a intervenire sul ‘fine vita’ dopo la decisione della Consulta, riconosca il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario nei confronti di richieste di eutanasia e assistenza al suicidio. È, questo, il minimo che si possa chiedere al legislatore per tutelare la libertà di coscienza dei ‘camici bianchi’ che si riconoscono nell’etica medica ippocratica e della millenaria storia cristiana e laica d’Europa. L’istituto giuridico dell’obiezione è l’ultima diga che si possa ergere in una società democratica per contenere una possibile imposizione legislativa contro il diritto inalienabile di un cittadino di obbedire alla propria coscienza (e, per il credente, a Dio) prima che allo Stato.
L’obiezione di coscienza è necessaria, in quanto una lex iniusta non obligat. Ma non è sufficiente per resistere alla deriva eutanasica. Occorre ricostruire una cultura della vita e dell’amore alla vita che sappia esibire e difendere con forza intellettuale – anche in un contradditorio serrato, pubblico, ma sempre leale – i dati della realtà umana, clinica, familiare e sociale e le evidenze della ragione antropologica, medica, giuridica e politica. E di robusto realismo critico, condivisibile ragionevolezza e autentica moralità, la cultura della vita e della cura ne ha da offrire a tutti.
Occorre superare la falsa obiezione che affrontare questi temi nelle famiglie, nella scuola, in parrocchia, nelle accademie, nei centri culturali e nei meeting pubblici sia fonte di ‘divisione’, e il trattarli deve essere evitato. La ‘divisione’ già è stata posta dalla legislazione e dalle sentenze sul ‘fine vita’: esse, di fatto, non raccolgono il consenso di tutta la comunità civile ed ecclesiale. Al contrario, il confronto ed il dialogo – anche quando è vivace, deciso, appassionato, ma sempre rispettoso – è indispensabile strumento per (ri)costruire un’unità di giudizio culturale condiviso nella comunità ecclesiale e nella società.
Infine, ma non certo ultima per incisività personale e sociale nella costruzione di una civiltà della vita e dell’amore alla vita, si apre la via della testimonianza di una dedizione incondizionata di genitori, figli, fratelli e sorelle, personale sanitario, comunità e associazioni di volontari alla cura degli ‘ultimi’ tra i malati e i sofferenti, quelli di cui una medicina e una società fondata sull’efficienza della donna e dell’uomo e sul consumismo delle loro vite, scartate quando ritenute ‘inutili’, inclina in diversi modi a disfarsi. Una testimonianza silenziosa che grida più forte delle voci della ‘cultura della morte’ o dello ‘scarto’, come ci ha insegnato a chiamarla papa Francesco, e dice: l’amore è più tenace della morte e riaccende la speranza nella vita. Sempre. Anche quando le speranze umane sembrano esaurite, fiorisce il miracolo dell’accoglienza della propria vita come un dono e di quella dell’altro come una risorsa per tutti.