di Leonardo Gallotta
Definire filosoficamente l’anima sarebbe cosa «quasi divina» e lunga, mentre dire «a che cosa assomigli è proprio di un’esposizione più umana e più breve» (Fedro, 246 a). È dopo queste parole di Platone (428/27-348/47 a.C.) che inizia la descrizione di uno dei più famosi e suggestivi miti elaborati dal filosofo greco, quello dell’anima paragonata a una biga alata. Tale biga è guidata da un auriga che rappresenta l’elemento razionale e trainata da due cavalli, uno bianco e uno nero. Il bianco è buono, ubbidiente e capace, mentre il nero è recalcitrante, incapace e tende a ribellarsi all’auriga. Questo secondo cavallo nero rappresenta le passioni più basse, legate ai desideri del corpo, mentre il primo, quello bianco, simboleggia le tendenze più elevate e sublimi. Esistono anche le anime degli dèi, ma i cavalli delle loro bighe sono entrambi bianchi. Gli dèi immortali abitano il cielo e di quando in quando si recano oltre la sua sommità, così che le loro bighe arrivano alla Pianura della Verità nell’Iperuranio, il luogo dove dimorano le Idee eterne e immutabili. Aggiunge Platone che a occupare quel luogo è «l’essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall’intelletto timoniere dell’anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza» (Fedro, 247 c).
Ogni anima umana con le ali integre tende per propria natura verso l’alto, in viaggio verso il cielo ove abita la stirpe degli dèi in modo da partecipare del divino «che è bello, sapiente e buono» (Fedro, 246 c). Da tali qualità le ali dell’anima sono nutrite e rinforzate. Esiste tuttavia anche il cavallo nero che vuole invece volare verso il basso, contrastato da quello bianco. A causa degli ingorghi causati dalle varie bighe che vorrebbero tutte tendere alla stessa méta, spesso le ali si spezzano e le bighe precipitano sulla terra. Si ha così la reincarnazione. A proposito di questo, Platone dice che, reincarnatesi in corpi umani, le anime hanno la possibilità di elevarsi, ma se non lo fanno sono giudicate da tre figli di Zeus e vanno nei luoghi di espiazione sottoterra a scontare la pena e un’anima umana «potrebbe addirittura finire in una vita animale» (Fedro, 249 b).Occorre aggiungere ancora che secondo Platone nella vita prenatale l’anima ha vissuto una dimensione metafisica. Di questa non si ricorda però più, pur avendone in qualche modo nostalgia.
Due sono per l’uomo le vie per tentare di raggiungere lo splendido mondo delle Idee di cui il mondo sensibile è solo ombra: la prima è quella della filosofia, che consente di cogliere con il pensiero le verità contemplate nella vita prenatale. La seconda è costituita dalla Bellezza. Platone dice che «la Bellezza splendeva tra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più vivida delle sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo […]. Solamente la Bellezza ricevette questa sorte, di essere ciò che [in questo mondo] è più manifesto e più amabile» (Fedro, 250 d). Va rammentato che la Bellezza, assieme al Sommo Bene e alla Giustizia, fa parte della triade superiore nella gerarchia delle Idee. E dall’amore per la bellezza terrena si può iniziare un cammino che, senza volgersi indietro, condurrà alla Bellezza metafisica.
Sono tante le suggestioni che Platone propone. La méta è importante ed entusiasmante: giungere un giorno alla Pianura della Verità. Farsi allora trainare dal cavallo bianco o da quello nero? Si è liberi di scegliere. Ma quante ancora le suggestioni che tanto affascinano sant’Agostino (354-430) e che gli fanno dire che a Platone sarebbe bastato cambiare poche cose nella parte metafisica della sua filosofia per scoprirsi cristiano.
È vero che per molti aspetti si è di fronte a concezioni non accettabili per un cattolico ed è anche vero, come recita un detto, variamente attribuito, che «Amicus Plato sed magis amica Veritas». Ma ecco avanzare un’altra suggestione. Nella Repubblica Platone prende in esame e mette a confronto la figura dell’uomo ingiusto, che riesce a mostrare tutte le apparenze dell’uomo giusto, e quella dell’uomo giusto e desideroso non di sembrarlo, bensì di esserlo veramente. Ebbene, gli uomini iniqui, dice Platone, lo spoglieranno di tutto e faranno in modo che, senza che abbia commesso ingiustizia alcuna, sia ritenuto sommamente ingiusto. Tale uomo non si lascerà piegare dalla fama cattiva e dalle sue conseguenze, e resterà irremovibile fino alla morte. Sarà «frustato, flagellato, imprigionato, accecato con ferro rovente e alla fine, dopo aver subito ogni genere di mali, sarà crocifisso» (Platone, Repubblica, II, 361 e, 362 a). Sarà pure solo una suggestione. Ma come si fa a rimanere indifferenti di fronte a tali parole?
Sabato, 17 novembre 2018