Di Paolo Affatato da L’Osservatore Romano del 06/03/2020
È apparsa in pubblico con un volto disteso e perfino sorridente. Ha pronunciato parole che mostrano serenità e fede, dopo la travagliata esperienza vissuta in nove anni di carcere e l’incubo di una condanna morte. Asia Bibi, la donna pakistana cristiana condannata a morte per blasfemia in Pakistan, e poi assolta dalla Corte suprema nel 2018 e, infine, fuggita in Canada, ha scelto la Francia per la sua prima uscita pubblica, per mostrarsi al mondo, per parlare. A Parigi, ospite del sindaco Ana María Hidalgo e poi ricevuta dal presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, Asia nei giorni scorsi è stata accolta dalle autorità civili e religiose presenti, giunte per assistere alla consegna ufficiale della cittadinanza onoraria della capitale francese. «Sono onorato di aver potuto dare ad Asia Bibi l’assicurazione della preghiera dei cattolici di Francia. Lei chiede l’aiuto di tutti per coloro che sono attualmente in prigione per motivi calunniosi o per presunta blasfemia», ha detto l’arcivescovo di Reims. Éric de Moulins-Beaufort, presidente della Conferenza episcopale francese.
Asia ha chiesto asilo politico in Francia, ricevendo piena disponibilità dal governo d’oltralpe, anche se un suo trasferimento definitivo in Europa non appare imminente, dato che la donna vorrà prima consultarsi con la sua famiglia. Accanto a lei la giornalista televisiva francese Anne-Isabelle Tollet che, negli anni scorsi, aveva dato vita a un Comitato internazionale per la liberazione della donna, e che ha raccontato la sua tormentata esperienza nel volume Enfin Libre! (“Finalmente libera”), uscito in Francia e presto tradotto in altri Paesi europei. Il testo è simbolicamente dedicato «a tutti coloro che sono accusati di blasfemia e ancora imprigionati». Perché Asia Bibi oggi, benché abbia trascorso tutti quegli anni in carcere e possa oggi ricordare la sua sofferenza, ma anche gioire per la sua salvezza, non pensa a se stessa, ma a tutte le persone che in Pakistan sono ancora vittime della legge di blasfemia.
La controversa normativa, composta da alcuni articoli del codice penale, punisce con l’ergastolo o la pena di morte il vilipendio al profeta Maometto, al Corano e all’islam. Queste vittime in Pakistan sono ancora tante: donne e uomini che, come lei, sperimentano la punizione di un carcere da innocenti. Grazie a complotti o a vendette private, sono colpite ricorrendo al facile mezzo di una falsa accusa di blasfemia, comodo escamotage perché l’attuale procedura, relativa all’applicazione della legge, permette di convalidare l’arresto grazie a due testimoni, anche senza prove evidenti.
Il punto è che, come è accaduto ad Asia Bibi, queste persone in Pakistan vengono irrimediabilmente condannate dall’opinione pubblica, prima del processo, etichettate come blasfeme e relegate a marcire in prigione. Così Asia ricorda la sua dolorosa esperienza: «Ci sono giorni che non si dimenticano. Come il 14 giugno 2010. Prima del tramonto, sono arrivata per la prima volta al centro di detenzione di Sheikhupura, dove ho passato tre anni prima di cambiare prigione Non ero stata ancora giudicata, ma secondo tutti ero già colpevole. Mi ricordo di questa giornata come se fosse ieri e quando chiudo gli occhi, rivivo ogni istante».
Nel primo capitolo del nuovo libro, la donna racconta le condizioni disumane della detenzione: «I miei polsi bruciano, non riesco quasi a respirare. Il mio collo è compresso in un collare di ferro che la guardia può stringere a piacimento con un enorme dado. Una lunga catena si trascina sul terreno sporco, collega la mia gola alla mano ammanettata della guardia che mi tira come un cane al guinzaglio. Nel profondo di me, una sorda paura mi attira nelle profondità dell’oscurità. Una paura assillante che non mi lascerà mai. In questo preciso momento, avrei voluto sfuggire alla durezza di questo mondo». A quella sofferenza fisica si aggiungevano le vessazioni verbali e il disprezzo di altri detenuti e dei secondini: «Sei peggio di un maiale. Dovrò sporcarmi al tuo contatto, sorbirmi il tuo marciume, ma non durerà a lungo».
Nel corso di una trasmissione radiofonica, cui Asia ha preso parte, la giornalista Tollet ha spiegato: «Asia Bibi è triste per aver lasciato il Pakistan, ma vuole continuare a essere portavoce per tutte le persone ingiustamente accusate di blasfemia, soprattutto i cristiani». Per questo la sua vita futura potrebbe essere in Europa, dove potrà svolgere il ruolo di “ambasciatrice” per sensibilizzare sulle storture e sulle immani sofferenze generate ancora oggi dalla controversa normativa.
«Liberata Asia, bisogna ricordare tutti coloro che sono ancora in carcere, come i coniugi cristiani Shagufta Kausar e suo marito Shafqat Emmanuel, vittime innocenti di false accuse per blasfemia, e oggi nel braccio della morte. È urgente che lo stato prenda adeguati provvedimenti per fermare l’abuso della legge», spiega a «L’Osservatore Romano» il domenicano padre James Channan, direttore del Peace Center a Lahore, impegnato per il dialogo islamo-cristiano in Pakistan.
Padre Channan illustra il caso raccontando che Shafqat Emmanuel e Shagufta Kausar, due coniugi con quattro figli, hanno ricevuto una condanna a morte nel 2014, per l’invio di messaggi di testo telefonici ritenuti blasfemi, dopo un processo iniziato nel 2013. I messaggi sms sono stati scritti in inglese, ma entrambi gli imputati sono poveri e analfabeti, non sanno scrivere in urdu, tantomeno in inglese. Il giudice in primo grado, come accaduto anche nel caso di Asi Bibi, «ha ceduto alle pressioni islamiste e ha emesso la sentenza di morte», hanno detto gli avvocati. L’intero processo si è svolto all’interno della prigione a causa di timori per la sicurezza della coppia. Il ricorso presentato alla Corte di appello di Lahore, dopo una lunga attesa, è nella fase decisiva, con l’udienza fissata per l’8 aprile prossimo: «Non ci sono prove sostanziali a carico degli imputati e dunque il giudice dovrebbe dare l’assoluzione», rileva Khalil Tahir Sandhu, avvocato cattolico che, nella sua carriera ha difeso e fatto assolvere oltre quaranta casi di cristiani ingiustamente accusati di blasfemia. Attualmente, sono oltre venticinque i cristiani condannati e detenuti per false accuse: tutte vittime che, rileva l’avvocato, «sono più sicure all’interno di un carcere piuttosto che al di fuori, dove sarebbero esposte alle vendette dei radicali islamici, che vorrebbero giustiziare quanti sono bollati come blasfemi, prima che se ne accertino le responsabilità», spiega il legale. Shagufta conosceva Asia perché, nell’ultima fase della detenzione di quest’ultima, le due erano vicine di cella. Hanno condiviso attese, parole, speranze, lacrime. Ora Asia potrà cercare di aiutare la sua compagna di sventura. Con la speranza che possa ottenere la meritata liberazione.
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