Da Avvenire del 30/12/2021
È di fronte a un dilemma irrisolvibile l’Occidente: è davvero disposto a «morire per Taipei», come fece a suo tempo per Danzica? Molti analisti, supportati dai comandi supremi americani, ritengono che la Cina avrà il “necessario” per invadere Taiwan entro il 2025. A quella data, saranno pronte le sei portaelicotteri da assalto anfibio e i marine d’oriente potranno contare su 100mila uomini circa. I jet militari di Pechino stanno già provocando l’isola “ribelle” come mai visto prima. Nel 2021, sono penetrati più di 800 volte nella zona d’identificazione aerea taiwanese. L’escalation verbale e le minacce si stanno intensificando. Xi Jinping si mostra più nazionalista del solito, forse perché il quadro interno cinese è in deterioramento: l’economia non cresce come in passato e la vicenda Evergrande ha sollevato molti interrogativi sulla bolla immobiliare che potrebbe abbattersi sul Paese.
Una guerra con Taiwan servirebbe a distogliere l’opinione pubblica cinese, cementandola intorno alla sua leadership. Il presidente perde terreno. Non è un sovrano assoluto. Non tutto il Politburo lo segue. Voci critiche si levano contro la sua gestione della pandemia e contro i costi esorbitanti delle nuove vie della seta. Per sopire il malcontento serpeggiante, Xi potrebbe essere costretto a fare “concessioni” alle frange più conservatrici, le più militariste, propense allo scontro con Taiwan. Potrebbe temporeggiare ancora per un po’, ma per quanto?
Tutte le linee di comunicazione marittime cinesi e il 90% dell’import di materie prime lambiscono l’isola, che si erge come un istrice difensivo di fronte alle ambizioni di Pechino sui mari. La Cina sente il cappio delle alleanze anti-siniche stringersi sempre di più: gli Stati Uniti stanno coalizzando nuovi partner in tutto lo scacchiere asiatico e pacifico, sciorinano toni bellicosi e promettono sostegno a Taiwan in caso di aggressione. L’alleanza quadrilaterale Quad che federa intorno a Washington, il Giappone, l’Australia e l’India si delinea come un potente strumento di deterrenza nei confronti di Pechino. Gli americani hanno istruttori militari a Taiwan e più di 54mila uomini in Giappone. Stanno cooptando gli alleati occidentali storici nel contenimento della Cina.
Il gruppo da battaglia della portaerei britannica Queen Elizabeth era in Giappone, lo scorso ottobre. Londra e Tokyo hanno siglato un’alleanza militare e il Giappone è pronto a mobilitarsi in caso di attacco cinese all’isola. I tedeschi si mostrano sempre meno accondiscendenti. Hanno spedito una fregata nello stretto di Formosa, mentre i francesi si sono dotati di una dottrina d’intervento per lo scacchiere estremo-orientale. Le loro navi incrociano stabilmente nell’area, tutta puntellata di avamposti e navi occidentali. La base di Yokosuka, che si affaccia sulla baia di Tokyo, ospita le unità della settima flotta americana, comprese le portaerei nucleari Nimitz. Sasebo è l’altro perno dell’antemurale anti-comunista eretto da Washington in Giappone. Vi bazzicano le navi da assalto anfibio America, dotate ognuna di un intero reparto di F-35 a decollo verticale. Cacciabombardieri dei marine sono pronti al decollo anche da Iwakuni. In caso di blitz cinese a Taiwan entrerebbero in guerra? Il Taiwan Relations Act del 1979, che sancisce un’alleanza di fatto fra Taipei e Washington è ambiguo. Taiwan è un simbolo di democrazia per Biden e per l’Occidente, ma non ci sono automatismi né obblighi di intervento. La decisione spetta all’esecutivo americano: a Washington, come a Pechino e a Taipei, tutti sanno che un conflitto generalizzato avrebbe conseguenze devastanti per ciascuno. Il nodo di Taiwan è come un rebus irrisolvibile. Siamo già al limite della guerra di nervi, con retoriche molto aggressive.
La settimana scorsa, il Pentagono e il ministero della Difesa nipponico hanno avviato un “gruppo di riflessione” che elaborerà un piano di azione congiunto anticinese: sarà una sorta di casus foederis se Taiwan fosse aggredita. Tra i punti in agenda figura l’installazione di una base militare temporanea per i marine nelle isole Nansei. Il Giappone è molto chiaro e soprattutto non vede l’ora di rimostrare i muscoli con un suo esercito «vietato» per decenni dalla Costituzione scritta dagli Usa dopo la guerra: sa che se cadesse Taipei, la prossima vittima sacrificale sarebbero le sue isole, rivendicate da Pechino. C’è però qualche margine di speranza: la storia insegna che la tensione intorno a Taiwan è ricorrente. Al di là dei toni bellicosi, 2 milioni di taiwanesi risiedono permanentemente in Cina e ne fanno girare buona parte dell’economia. Taiwan è essenziale per la Cina, che considera i suoi abitanti come fratelli di sangue. La guerra sarebbe un gioco senza vincitori. L’isola è difficilmente espugnabile senza un bagno di sangue. Solo poche porzioni del litorale orientale sono assaltabili dal mare. Pechino sarebbe costretta a bombardamenti missilistici. Le vittime sarebbero migliaia e sarebbe difficile presentare la riunificazione come una vittoria. I cinesi della «madrepatria » si alienerebbero per sempre i taiwanesi. Un barlume di speranza è anche lo status quo attuale, di pace semi-bellicosa: conviene a tutti.