Da Avvenire del 07/12/2021
Due condanne, per istigazione contro i militari e per mancata osservanza delle regole imposte per contrastare la pandemia da Covid-19, per complessivi quattro anni di reclusione, poi dimezzati dalla giunta, secondo la tv di Stato del Myanmar. Una sentenza, quella contro la 76enne Aung San Suu Kyi, che è la prima per una serie di reati di varia gravità tra cui corruzione e violazione di segreti di Stato che potrebbero aggiungere complessivamente 120 anni di reclusione al suo curriculum di prigioniera e perseguitata dalla dittatura. Alla stessa pena è stato condannato l’ex presidente Win Myint. Un’ondata di rinvii a giudizio sta colpendo la leadership politica esautorata dal golpe del primo febbraio, in maggioranza sotto custodia, in parte impegnata in clandestinità a dare consistenza e legittimità al Governo di unità nazionale. La nuova Commissione elettorale che sostituisce quella designata dal governo civile che aveva organizzato il voto del novembre 2020 risultato fortemente punitivo per i partiti filo-militari ha comunicato di avere avviato procedimenti penali contro 16 personalità politiche, tra cui Win Myint e Aung San Suu Kyi. Il presidente della decaduta Commissione elettorale Hla Thein e due membri della stessa Commissione, Myint Naing e Than Htay sono già in carcere nella capitale Nayipidaw, mentre gli altri accusati si trovano agli arresti in località ignote e vi resteranno fino al termine dei procedimenti penali che coinvolgono anche il sindaco di Nayipidaw, Myo Aung, e il premier del governo locale di Mandalay, seconda città del Paese, Zaw Myint Maung. Quest’ultimo, che sta lottando contro la leucemia, rischia tre anni di reclusione per frode elettorale. Nei giorni scorsi una leader della minoranza Karen, esponente della Lega, è stata condannata a 75 anni di carcere e a 90 sono toccati – per la stessa accusa di corruzione –a uno stretto collaboratore di Aung San Suu Kyi.
L’inconsistenza delle prove, l’irrilevanza dei reati, l’accanimento verso Aung San Suu Kyi sono evidenziati dagli osservatori internazionali e ammessi da quasi tutte diplomazie regionali. Tutto concorre a mostrare la volontà della giunta militare, che il primo febbraio si è sostituita con un colpo di Stato alla giovane democrazia parlamentare, di chiudere la partita con la Premio Nobel per la Pace 1991 e con il partito da lei co-fondato, la Lega nazionale per la democrazia che ha dominato le uniche elezioni democratiche dal 1960, quelle del 2015 e del 2020. Il segretario di Stato Usa, Anthony Blinken ha condannato la sentenza, segnalato il sostegno statunitense «al popolo birmano nelle sua aspirazioni alla libertà e alla democrazia» e esortato la giunta a «ripristinare la transizione democratica in Myanmar ». Da parte sua, Pechino, alleato del regime, ha chiamato al dialogo tra le parti per evitare ulteriori violenze.
L’Alto Rappresentante per la Politica estera dell’Unione Europea, Josep Borell, ha indicato come la sentenza «rappresenta un altro passo verso lo smantellamento dello stato di diritto e un’ulteriore palese violazione dei diritti umani » e ribadito gli urgenti appelli «per il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri politici».
L’Onu aveva già condannato l’uccisione di cinque manifestanti falciati domenica da un automezzo dell’esercito lanciato sulla folla a Yangon e ieri l’Alto Commissario per i Diritti umani, Michelle Bachelet, ha definito la pena inflitta a Aung San Suu Kyi «motivata politicamente», risultato di «un processo-farsa tenuto in segreto davanti a un tribunale controllato dai militari».