Nella recente COP28, la “Conferenza delle Parti” svoltasi a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 12 dicembre, i principali leader politici mondiali hanno riconfermato la presunta necessità e l’urgenza di proseguire nella “transizione dai combustibili fossili” verso le energie rinnovabili
di Maurizio Milano
L’incontro sembrava arenarsi in una situazione di impasse: ai Paesi arabi produttori di petrolio non piaceva, per ovvi motivi, l’espressione proposta «phase out» oppure «phase down», con riferimento all’abbandono dei combustibili fossili. Dopo lunghe mediazioni si è così giunti a un accordo all’unanimità per utilizzare, con riferimento agli idrocarburi, l’espressione più vaga «transitioning away», riconfermando il solito «obiettivo di raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050». Tanto è bastato per parlare di «accordo storico» che ha «il potenziale di ridefinire le nostre economie». Molto rumore per nulla, insomma.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali occorre evidenziare alcuni punti fermi. La transizione energetica è un’illusione, un’illusione particolarmente pericolosa e costosa, soprattutto per quei Paesi che la perseguono per motivi ideologici: in primis gli USA, che pur dispongono di imponenti riserve di idrocarburi, e quindi l’Europa, che non ha né idrocarburi né quei materiali necessari alla realizzazione delle batterie per accumulare l’energia prodotta dal solare e dall’eolico. Come ben evidenziato da Mark P. Mills, esperto di energia e tecnologia e senior fellow del Manhattan Institute, nel suo studio «Illusione della “Transizione Energetica”: un Reset della Realtà», anche se i governi occidentali perseguiranno con pervicacia l’abbandono dei combustibili fossili dovranno prendere atto che ciò non è possibile, si scontreranno con i limiti fisici dei materiali. Per contro, il rischio è quello di de-industrializzare i sistemi economici occidentali, a tutto vantaggio della Cina che continuerebbe a lucrare sulla transizione verso le energie rinnovabili, continuando peraltro ad utilizzare pesantemente i combustibili fossili, carbone compreso. A parole la Cina accetta l’idea della “transizione energetica”, perché le conviene, poi fa quello che vuole.
Un ulteriore paradosso della transizione è l’incremento nell’utilizzo di idrocarburi per avere l’energia necessaria a realizzare i nuovi impianti green e in particolare le batterie. L’evoluzione verso l’eolico e il solare, con accumulo a mezzo di batterie, la cosiddetta tecnologia SWB (Solar, Wind, Batteries) non è così pulita come sembra: considerando l’intero ciclo di vita delle fonti rinnovabili si deve prendere atto che anch’esse comportano emissioni, tutt’altro che trascurabili. Basti pensare alla quantità di materiali che occorre scavare nelle miniere e poi lavorare e trasportare per realizzare le batterie: batterie che andranno poi smaltite o comunque rigenerate; lo stesso dicasi per gli impianti eolici e solari. Detto in altri termini: occorre aprire miniere di carbone per dotarsi dell’energia necessaria per scavare, lavorare e movimentare i materiali necessari alla produzione di tecnologie green, un bel paradosso. Entrando nello specifico, sui veicoli elettrici, a titolo di esempio, la realtà sta già presentando il conto: non hanno mercato, e senza i contributi pubbliciai produttori e agli acquirenti (fatti pagare ai contribuenti privati, spesso neppure in modo trasparente) sono destinati a contrarsi; per non parlare dei limiti evidenti nel loro utilizzo e i sempre più evidenti rischi per la sicurezza.
I Paesi produttori di petrolio, assai più pragmatici del mondo liberal occidentale, potranno accettare a parole impegni di massima, come accaduto nella Cop28, ma li subordineranno sempre e comunque ai propri interessi nazionali. I Paesi poveri continueranno a cercare di crescere a tutti i costi, chiedendo a titolo di compensazione dai Paesi sviluppati finanziamenti a fondo perduto per coprire le “perdite e danni” che sarebbero provocati dal cambiamento climatico (si parla a tal proposito di fondi loss and damage). L’ultimo slogan alla moda si chiama infatti giustizia climatica, che serve anche a scaricare la responsabilità di chi è chiamato a gestire i rischi del proprio territorio imputando le conseguenze di qualsiasi evento avverso su fenomeni considerati incontrollabili, legati appunto al cambiamento climatico; di cui sarebbero responsabili, alla fine dei conti, proprio i Paesi più sviluppati.
Ci troviamo immersi in una grande narrazione, che parla più alle emozioni e ai sentimenti che non alla ragione, e come tale è particolarmente insidiosa. Il rischio di indirizzare gli investimenti in un’unica direzione, con una vera e propria pianificazione statalistica e addirittura sovranazionale, è quello di sprecare risorse, perdere opportunità di investimenti più produttivi, scoraggiare la ricerca e l’innovazione per rendere sempre più efficienti e pulite le tecnologie tradizionali. Alla fine il conto lo pagheranno (anzi, lo stanno già pagando) i contribuenti, i consumatori, le industrie danneggiate e alla fine, probabilmente, lo stesso ambiente. I vantaggi andranno invece alle industrie sovvenzionate, alla finanza sostenibile, ai Paesi produttori di quei minerali necessari per la produzione delle batterie e dei pannelli solari, in particolar modo la Cina, con evidenti rischi di tipo geopolitico. Se non si vuole mettere in discussione la tenuta del sistema economico occidentale, le legittime aspettative di miglioramento di vita dei Paesi meno sviluppati e più in generale le esigenze della popolazione mondiale, l’energia dovrà essere considerata sempre più un bene primario e strategico: disporre di energia affidabile, a basso prezzo e con un ampio mix di fonti e di fornitori di approvvigionamento deve quindi considerarsi prioritario per la sicurezza e il benessere nazionale di ogni Paese e per preservare la civiltà per come la conosciamo.Il futuro non sta nella decrescita o nelle tecnologie SWB, che potranno giocare un ruolo, certamente, ma comunque marginale. L’unica prospettiva realistica è mantenere un’adeguata produzione di idrocarburi, investire nel miglioramento dell’efficienza energetica e nel contrasto dell’inquinamento. La crescita economica va preservata anche perché grazie agli sviluppi della tecnologia si potrà produrre di più, consumando e inquinando di meno, aumentando allo stesso tempo la capacità di convivere e gestire situazioni climatiche a volte difficili. Se ci sarà un’energia pulita nel futuro non sarà l’eolico o il solare, ma il nucleare, che continua invece ad essere avversato per pregiudizi ideologici. Si tratta di una semplice constatazione della realtà dei fatti. E la realtà, alla fine, si impone sempre: basta attendere.
Giovedì, 28 dicembre 2023