di Marco Invernizzi
«La civiltà in cui viviamo rende la preghiera difficile», scrive un grande cardinale gesuita, Jean Daniélou (1905-1974), in un capitolo di un libro da rileggermi per cercare di riflettere sulla situazione attuale: L’orazione, problema politico (trad. it., Arkeios, Roma 1993, p. 25).
Che cosa c’entra l’emergenza sanitaria con il rapporto tra la preghiera e la politica? Il fatto è che la prima cosa che balza agli occhi a chi abbia un minimo di sensibilità religiosa oggi è la quasi totale assenza della religione dalla scena pubblica, intendendo quest’ultima nel suo aspetto mediatico e, in generale, pubblico. Se si volessero conferme sul fatto che si viva in una società profondamente scristianizzata, basta vedere come i media affrontano il tema coronavirus. La dimensione religiosa, relativa alla vita eterna ma anche a quella terrena, semplicemente non esiste, quasi come se fosse di cattivo gusto evocarla. A partire dall’Illuminismo, l’Europa è diventata progressivamente un mondo che ha cercato di fare a meno di Dio, affidandosi prima alle ideologie e poi al nulla del relativismo, un nulla terribile per le conseguenze che ha provocato e che continua a produrre sul corpo sociale. Una politica, come bene spiega il card. Daniélou, senza dimensione religiosa, senza orazione, non può assicurare il bene comune (cfr. pp. 30-31).
Certamente è anche un po’ colpa nostra, che abbiamo dato l’impressione di ritirarci nelle chiese come all’interno di fortini assediati e per di più dove non si può neppure partecipare alla santa Messa quando viene celebrata. I cattolici, attraverso i pastori, hanno comunicato in modo inadeguato un senso forte e importante di responsabilità nell’andare incontro alle direttive del governo, progressivamente sempre più adeguate alla pericolosità dell’epidemia. Per cui succede che nella realtà delle singole diocesi, molti tra vescovi e sacerdoti sono realmente accanto alla gente in questo momento doloroso, ma pochi lo sanno. In ogni caso bisogna reagire a questa percezione, un po’ perché è sbagliata, un po’ perché può indurre molti tra preti e laici a ritenere di aver fatto il proprio dovere semplicemente “restando a casa”.
In questa situazione bisogna invece “uscire”: non basta più aspettare i fedeli in chiesa per aiutarli rispondendo alle loro richieste. Mai come adesso appare chiaro il significato delle indicazioni presenti nei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II (1953-1965) e soprattutto nel discorso di apertura di san Giovanni XXIII (1958-1963), l’11 ottobre 1962, quando il Papa invitava a prendere atto che se gli uomini non si rivolgono più alla Chiesa (e si pensi a cosa è successo in questo senso da allora) la Chiesa deve andare a cercarli dove essi vivono e lavorano.
Tradotto nella situazione attuale significa che i cattolici devono farsi vedere dai cittadini impauriti, rinchiusi nelle proprie case, prigionieri della propria tristezza che potrebbe facilmente diventare depressione. Il Santo Padre ha detto il 13 marzo: «In questi giorni ci uniamo agli ammalati, alle famiglie, che soffrono questa pandemia. E vorrei anche pregare oggi per i pastori che devono accompagnare il popolo di Dio in questa crisi: che il Signore gli dia la forza e anche la capacità di scegliere i migliori mezzi per aiutare. Le misure drastiche non sempre sono buone, per questo preghiamo: perché lo Spirito Santo dia ai pastori la capacità e il discernimento pastorale affinché provvedano misure che non lascino da solo il santo popolo fedele di Dio. Che il popolo di Dio si senta accompagnato dai pastori e dal conforto della Parola di Dio, dei sacramenti e della preghiera» (Vatican news).
Sono parole importanti. Ognuno le faccia sue e cerchi di tradurle in pratica secondo la sua condizione di vescovo o di parroco. Noi assicuriamo la nostra piccola preghiera.
Venerdì, 13 marzo 2020