di Michele Brambilla
I fedeli di rito ambrosiano anticipano a domenica 5 novembre, per loro solennità di Cristo Re, la Giornata mondiale dei poveri, poiché la festa coincide da alcuni decenni con la Giornata diocesana della Caritas. Una scelta che espone al pericolo latente di una lettura unilaterale della Regalità sociale, fortunatamente intuito ed evitato dal respiro quasi “ignaziano” dei testi liturgici del giorno. Si dice, per esempio, nell’orazione ad Crucem delle Lodi: «noi che ci gloriamo di militare sotto i vessilli di Cristo, nostro Re, fa, o Dio nostro, che possiamo regnare in cielo per sempre con Lui, che vive e regna nei secoli dei secoli».
Avendo già parlato dei poveri la domenica precedente, Papa Francesco si sofferma, nell’Angelus di quella che per il rito romano è la XXXI domenica del Tempo ordinario, a evidenziare la violenta requisitoria contro il fariseismo che si ricava dalla pericope evangelica del giorno (Mt 23,1-12). «Fratelli e sorelle, un difetto frequente in quanti hanno un’autorità, sia autorità civile sia ecclesiastica, è quello di esigere dagli altri cose, anche giuste, che però loro non mettono in pratica in prima persona». Costoro, secondo il Papa, «fanno la doppia vita», e la doppiezza è uno dei grandi mali della nostra contemporaneità.
Il rischio di una vita scissa si annida in tutti i credenti, tentati dal giudicare spietatamente le pagliuzze del fratello ignorando le travi nei propri occhi. Il fatto che il mondo civile si basi su valori spesso diametralmente opposti alla Dottrina sociale della Chiesa Cattolica aumenta e non diminuisce il pericolo, poiché, come le sirene, la Rivoluzione attira su di sé l’attenzione e insinua i propri costumie i propri modi di pensare. Molti assumono così stili di vita in cui ufficialmente non credono, mettendosi persino a giudicare gli altri sulla base della loro “apertura” al mondo, oppure reagiscono agli attacchi misurando minuziosamente l’adesione alla morale cattolica dei fratelli, senza sorvegliare rigorosamente la propria fedeltà personale.
Francesco ammonisce che «da una parte Gesù rivolge critiche severe agli scribi e ai farisei, dall’altra lascia importanti consegne ai cristiani di tutti i tempi, quindi anche a noi», prima tra tutte «[…] una tentazione che corrisponde alla superbia umana e che non è sempre facile vincere. È l’atteggiamento di vivere solo per l’apparenza». Un virus che infetta anche molti cattolici “impegnati”, attratti dal “piacere” di possedere un ruolo di “comando” che li rende influenti e riveriti.
Il Papa richiama in proposito i versetti dall’8 all’11 del Vangelo del giorno secondo san Matteo: «Non fatevi chiamare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. […] E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo». I cristiani protestanti hanno spesso estrapolato queste parole per contestare l’esistenza della gerarchia ecclesiastica tout-court, non semplicemente i “papaveri rossi”, termine dispregiativo con il quale erano bollati i cardinali più vanitosi.
La gerarchia, invece, nella Chiesa serve eccome, ed è d’istituzione divina. Tuttavia, come ricorda Francesco, c’è modo e modo di farla valere. «Noi discepoli di Gesù […] non dobbiamo in nessun modo sopraffare gli altri e guardarli dall’alto in basso», poiché è Uno solo che giudica e conosce veramente l’interiorità di ciascuno. È, in fin dei conti, un appello a spalancare le porte ad una regalità effettiva di Cristo nei nostri cuori, lasciandole permeare ogni aspetto della nostra esistenza.