
Un giornalista di vaglia, un gran conservatore, un cattolico serio: ecco a voi l’uomo che scriveva i discorsi per Ronald Reagan. Oggi ci accompagna in un viaggio vasto e variegato
di Marco Respinti
Scripta manent. Forse potrebbe essere questo l’epitaffio più adatto per Anthony Rossi Dolan (1948-2025), per tutti ovviamente semplicemente «Tony», scomparso l’11 marzo a 76 anni nella bella Alexandria, in Virginia, un “pezzo” di Nordamerica coloniale ancora lì, oggi, in bella mostra, ai bordi meridionali della capitale federale Washington.
Nato a Norwalk, in Connecticut, Dolan era un giornalista di razza, come si diceva un tempo e se il tribalismo woke permette ancora di dire con un termine che non è razzialistico o razzista, ma che significa di ottima fatta. Ovvero merce sempre più rara. Laurea in Filosofia e Storia a Yale, specialista di quarto grado dell’esercito degli Stati Uniti, persino cantante folk prima di dedicarsi al giornalismo, nel 1978 Dolan ha vinto il Premio Pulitzer per quelle sue inchieste sul crimine organizzato e la corruzione pubblica nel suo natio Connecticut che lo hanno reso celebre e in seguito mobilitato la Casa Bianca a creare strumenti di intervento ad hocper quel problema a livello nazionale.
Era anche un conservatore, Dolan, integro e integrale, esempio di un conservatorismo che anch’esso è divenuto merce sempre più rara.
Dolan era pure cattolico, cattolico devoto, pio, serio, integrale. Il ricordarlo non è qui spirito di parte o un inutile fuori tema. Dolan è infatti stato lo speech-writer del presidente Ronald Reagan (1911-2004) dal marzo 1981 fino alla fine del secondo terminedell’ex governatore della California, il 20 gennaio 1989. Non intendo con questo suggerire in modo pedestre che Dolan abbia indirizzato e catechizzato, magari persino sabotato e distorto i discorsi del presidente Reagan, che era protestante presbiteriano, non fosse altro perché Reagan non era esattamente uomo da farsi indirizzare e catechizzare, sabotare e distorcere. L’interessante è infatti il contrario. Ovvero che un uomo della tempra di Reagan abbia scelto un cattolico tutto d’un pezzo come Dolan per farsi scrivere i discorsi.
Ovviamente Reagan, com’è giusto e logico, avrà cercato un professionista specchiato, un uomo integerrimo di cui fidarsi, malleabile da un lato e schiena diritta dall’altro in un insieme bastevole a farne persona che sa proporre e al contempo obbedire. Uno, insomma, che sa qual è il posto che gli compete, senza essere mai lacchè e comunque libero senza essere guastatore. Che quella figura sia stata un cattolico vero a certuni, fra cui il sottoscritto, fa riflettere una volta in più su tanti argomenti profondi: il legame intimo fra essere una persona brava e buona e l’essere cattolico, la necessità ma non la sufficienza di essere la prima per cominciare a esser un po’ anche la seconda, la serietà che il cattolico porta nel mondo anche profano se è serio con la propria fede, il senso dell’essere un vir bonus e per di più ‒ sempre, ma nel caso di Dolan, specificamente ‒ dicendi peritus, di un dicĕre però la veritas, eppoi ancora il senso del mondo conservatore autentico in relazione al cattolicesimo, il rapporto di quello strano e complesso Paese che sono gli Stati Uniti con la fede cattolica, e via di questo passo.
L’arma più potente di tutte
A Dolan si debbono dunque i discorsi maggiori e più importanti di Reagan. Tanti, molti. Per esempio il discorso pronunciato il 17 maggio 1981 per l’inaugurazione dell’anno accademico nell’Università Notre Dame, di South Bend, in Indiana, ateneo cattolico, conteneva la frase, scritta da Dolan, dove Reagan dice: «È tempo che il mondo sappia che i nostri valori intellettuali e spirituali sono radicati nella fonte di ogni forza: la fede in un Essere Supremo e una legge superiore alla nostra».
Con il discorso svolto l’8 giugno 1982 nel parlamento britannico a Londra Dolan scrisse e Reagan disse: «Quel che sto descrivendo ora sono un piano e una speranza per il lungo periodo: la marcia della libertà e della democrazia che lascerà il marxismo-leninismo nel mucchio di cenere della storia, così come ha lasciato altre tirannie che soffocano la libertà e tappano la bocca all’autodeterminazione del popolo».
E nel discorso tenuto il 9 maggio 1985 nell’Assemblea della repubblica di Lisbona, in Portogallo, ancora Dolan scrisse e ancora Reagan disse: «Quando ho incontrato Papa Giovanni Paolo II un anno fa in Alaska, l’ho ringraziato per la sua vita e per il suo apostolato. E ho osato suggerirgli che nell’esempio di uomini come lui e nelle preghiere delle persone semplici ovunque, persone semplici come i fanciulli di Fatima, vi è più potere che in tutti i grandi eserciti e in tutti gli statisti del mondo».
L’ultimo giorno del proprio mandato presidenziale, Reagan lasciò un biglietto di ringraziamento a Dolan definendolo il «Custode della Fiamma».
Oggi l’amica Fran Griffin, presidente della Fitzgerald Griffin Foundation a Vienna, in Virginia, editrice e salvaguardia di tante memorie del conservatorismo e del cattolicesimo statunitensi, mi segnala un bell’articolo in memoria di Dolan pubblicato su The American Spectator da Paul Kengor, ottimo biografo di Reagan e autore pure del bel libro God and Ronald Reagan: A Spiritual Life(HarperCollins, New York 2005). In quel ricordo, Kengor sottolinea la grande devozione che Dolan aveva per la Vergine Maria. Quando suo fratello Terry Dolan, fondatore dell’importante National Conservative Political Action Committee nel 1975, stava morendo a 36 anni, Tony si recò in pellegrinaggio a Medjugorje per chiederne alla Madonna la guarigione. Non accadde, ma Terry morì da buon cattolico.
Molto si è parlato dell’attenzione con cui il protestante Reagan guardava al messaggio di Fatima; per evidenti ragioni politiche, qualcuno ha aggiunto: a parte il fatto che c’è un modo cattolico di fare anche politica, chi insinua cose così non ha capito nulla di Reagan e di Fatima, ma di tanto altro. Immaginabile che Reagan e Dolan, delle tante cose di cui hanno parlato, abbiano qualche volta parlato anche di Maria. Pensate poter essere una mosca e svolazzare non visti in quei momenti dentro la Casa Bianca.
L’«Impero del Male»
Fra i tanti, molti discorsi scritti da Dolan e letti da Reagan c’è anche l’arcinoto discorso sull’«Impero del Male». È il discorso che Reagan pronunciò l’8 marzo 1983. Pochi ricordano che quel discorso fu pronunciato davanti a un’assemblea religiosa, cristiana, non cattolica come Dolan, bensì protestante come Reagan, la National Association of Evangelicals, riunita per il raduno annuale a Orlando, in Florida. Il cattolico Dolan scrisse quel discorso per un’assemblea protestante, ma in realtà per la storia. Ne era consapevole Dolan, ne fu consapevole Reagan. Reagan lo avrà come sempre corretto, ci avrà messo del proprio, ma poi lo ha approvato, lo ha indossato, lo ha pronunciato, addirittura quasi recitato, lo ha difeso dalla gragnola di critiche ubique che lo hanno seguito e lo ha indossato sempre come spada, cappa e scudo, come uniforme, divisa e toga, magari persino tonaca, anzitutto e soprattutto come scelta morale.
Non a caso fu scelta quella platea per un discorso così. Non per strizzare l’occhiolino al pubblico in cerca di applausi facili, ma per essere certo di essere capito e, tramite quel luogo eletto, portato nel mondo. L’anticomunismo di Reagan era un anticomunismo intelligente e ragionato, sincero e serio, colto.Etico, morale e religioso, anche teologico. Era così anche per Dolan, che gli scrisse quelle parole famose, era così per i grandi maestri del pensiero conservatore a partire da Whittaker Chambers (1901-1961) e quella sua struggente Lettera ai miei figli con cui si apre il suo mastodontico e indimenticato Witness (1952). Era una lettera sul baratro della nostra civiltà ancora a presidiare l’Occidente sempre e comunque, anche se nauseabondo e puzzone, anche se traditore e sfatto, perché alla mamma e al papà non si volge mai la schiena. Chambers era stato una spia sovietica infiltrata negli Stati Uniti; si pentì, cambiò vita e vuotò il sacco. Denunciò alti papaveri e uomini influenti sul ruolino paga di Mosca. Ne venne un putiferio. Chambers divenne una delle grandi firme del giornalismo statunitense, ma venne accusato di calunnie, offeso, vilipeso. La fine della Guerra Fredda ha poi dimostrato che aveva detto solo il vero.
In quella lettera ai figli, Chambers fiuta la fine, del mondo, farsi vicina ed esorta i suoi a combattere il comunismo come manifestazione storica di un profondo guasto eminentemente spirituale, una delle sette teste di un drago unico. Scrive che sembra un contro-rivoluzionario cattolico, il quacchero Chambers, e suona a tratti come Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995).Reagan, che nel 1984 lo insignì della Medaglia presidenziale della libertà postuma, amava Chambers e amava il suo Witness. Amava quella corpulenta ex spia comunista tutta la sua generazione dei conservatori, certamente lo ha amato anche Dolan.
Il dono della parola
Lo straordinario discorso sull’«Impero del Male» di Dolan e di Reagan profuma di Chambers e descrive un itinerario. La frase sull’Unione Sovietica come «Impero del Male» giunge al coronamento di quel percorso come verdetto chiaro dopo istruttoria scrupolosa. E l’istruttoria, nelle frasi che appena precedono la definizione «Impero del Male», è costruita su Le lettere di Berlicche di C.S. Lewis (1989-1963), il libro del 1942, che Dolan e Reagan definiscono «indimenticabile», dedicato amons. Francesco Olgiati (1886-1962), fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, e a J.R.R. Tolkien(1892-1973), con cui tra l’altro, al Balliol College dell’università inglese di Oxford, aveva studiato un altro grande maestro di quella generazione, altrettanto vicino a Chambers, altrettanto caro a Reagan, altrettanto noto a Dolan: James Burnham (1905-1987), nemico implacabile del comunismo e della tecnocrazia. L’anticomunismo di Dolan e di Reagan era un abito elegante sapientemente tagliato da questa stoffa pregiata.
Nemmeno il riferimento a Lewis, Olgiati e Tolkien qui è però una concessione a me stesso. Serve a portarci al potere della parola, maestri come ne erano quei nomi.
La parola ha un potere mistico nell’essere umano. Distingue l’uomo dagli altri essere animati, ovvero gli animali. Lo fa nettamente diverso dalle bestie. L’origine del linguaggio è misteriosa. Nessun evoluzionista riesce a capire perché l’uomo parli e gli animali no, e come mai persino la conformazione fisica dell’uomo sia fatta per parlare e quindi differisce in modo sostanziale dalla conformazione fisica degli animali. Nemmeno Noam Chomsky, Richard C. Lewontin (1929-2021) o Ian Tattersall con tutta la loro scienza spesa a cercare di spiegare che la vita è frutto del caso e l’ominazione solo il suo ultimo stadio riescono a capacitarsi del mistero irriducibile del linguaggio.
La parola è insomma divina, sia detto persino laicamente. Dolan ne era maestro e Reagan anche. Si è canzonato Reagan perché era stato un attore. Forse che William Shakespeare (1564-1616) non abbia definito l’intero mondo e tutta la storia come un palcoscenico? L’uomo agisce, ed è dunque attore. Reagan imparò ad addomesticare la parola per poi servirsene. Se ne servì per servire la verità, e Dolan rese tutto questo scrittura.
La retorica è infatti una cosa seria, che non a caso il nostro mondo dimentico usa solo nell’accezione orfana e traslata, scipita e negativa. La retorica è il bello che diviene comunicazione per affascinare e far abbracciare. Una volta si insegnava retorica e la retorica la si coltivava. La retorica pubblica era un’arte e i presidenti degli Stati Uniti ci si cimentavano, ci si misuravano, ci si esercitavano. Oggi è considerata roba da vecchi o al massimo da boomer, ma anche gli attempati che arrivano alla Casa Bianca ci si rivoltano contro. Il linguaggio della politica non sa più immaginare, non sa più dire, non sa più comunicare. Usa sberleffi e cliché, turpiloquio fuori tempo massimo e sciatteria. Paragonate un discorso scritto da Dolan per Reagan e da questi recitato con talento a uno sbiascicato da un Joe Biden o urlato da un Donald Trump e tutto sarà evidente.
Ho una collega giornalista, Rossello Gesa, che, per insegnare a giovani volenterosi di imparare il mestiere e a esuli da Paesi asiatici che hanno portato a casa a stento la pelle, utilizza ancora oggi l’Institutio oratoria di Marco Fabio Quintiliano (35 ca.-96) e l’orazione funebre pronunciata da Marco Antonio (83-30 a.C.) nel Giulio Cesare di Shakespeare ‒ mostrandone pure la versione filmata interpretata da Marlon Brando (1924-2004) nel 1953 ‒,nonché Tradizione e talento individuale, il gran saggio del 1919 di T.S. Eliot (1888-1965). Dolan avrebbe capito.
Martedì, primo aprile 2025