Di Eugenio Capozzi da l’Occidentale del 02/04/2019. Foto redazionale
Accade a volte che le reazioni ad un fenomeno culturale e politico più sono veementi ed estreme e più rivelano quanto quel fenomeno stia toccando nervi molto sensibili e strati profondi di una società. E pongano in evidenza come intorno al tema sollevato da quel fenomeno si stiano ridefinendo i conflitti di forze e gli schieramenti ideologici in un determinato momento della storia.
Proprio questo è accaduto negli scorsi giorni a proposito del Congresso mondiale delle famiglie tenutosi a Verona. La violentissima campagna di denigrazione, contestazione, intimidazione scatenatasi contro l’evento – ma anche, dall’altra parte, il deciso endorsement nei confronti di esso da parte di leader politici della destra come Salvini e la Meloni – sono il segno inequivocabile del fatto che quelli connessi alla famiglia, alla maternità, alla sessualità rappresentano oggi più che mai temi centrali del dibattito politico nel nostro paese, come in tutto l’Occidente.
Gli issues “biopolitici” – tutti quelli connessi alle pulsioni istintuali primarie così come alla genesi, cura, manipolazione della vita – cominciarono ad irrompere nella dialettica politica delle democrazie industrializzate con la ribellione giovanile degli anni Sessanta e Settanta, sovrapponendosi e sostituendosi a quelli economici e sociali, e da allora la loro rilevanza è andata crescendo sempre più, fino a costituire, come si vede oggi, uno tra i principali spartiacque tra l’identità politica delle sinistre e delle destre.
Mezzo secolo fa è cominciata in Occidente, nelle società “opulente”, una radicale rivoluzione culturale e antropologica, con la destabilizzazione di ogni vincolo e limite alla autodeterminazione soggettiva in nome della piena realizzazione dei desideri personali. In particolare, l’istituzione familiare – elemento di stabilità in una logica di sostanziale continuità per molti secoli nelle società di radice europea attraverso epocali mutamenti economici, politici e culturali – ha subìto da questa rivoluzione contraccolpi decisivi: la massificazione del divorzio, la legalizzazione dell’aborto, la “liquefazione” dei legami di coppia, la solitudine crescente e l’abbandono degli anziani incrociata con l’incalzante propaganda in favore dell’eutanasia, la confusione e spesso la vera e propria eclissi delle figure dei genitori nella crescita delle giovani generazioni, fino alla istituzionalizzazione delle unioni omosessuali e alla richiesta di legalizzazione (da parte di queste ultime ma non solo) dell’acquisto di figli attraverso fecondazione e gravidanza esterne.
Un panorama di generale disgregazione contrassegnato dalla tendenza univoca al crollo demografico in quasi tutti i paesi occidentali, dove la contrazione ormai consolidata del tasso di fertilità sotto i livelli di sostituzione si accoppia ad un imponente invecchiamento della popolazione. Il tutto mentre i paesi del cosiddetto “primo mondo” appaiono sempre più indeboliti economicamente dalle dinamiche della globalizzazione, e la loro rilevanza planetaria viene drasticamente ridimensionata da popoli e civiltà in imponente crescita – sul piano economico, demografico o su entrambi. Popoli e civiltà che sempre più spesso premono ormai fisicamente sui paesi occidentali con potenti ondate migratorie, suscitando profondi problemi di convivenza tra culture, e la sensazione diffusa, nei paesi “ospitanti”, di una rapida dispersione della propria sicurezza e identità.
E’ in tale contesto che va collocato il forte risveglio di interesse, nelle società occidentali, per i temi politici connessi alla protezione della vita, alla maternità, alla famiglia. Un interesse che, mai sopito nelle società anglosassoni, negli ultimi decenni si è andato estendendo e radicando nell’Europa continentale, concretizzandosi nella nascita o nella forte ascesa di movimenti “pro-life” di ispirazione tanto religiosa quanto laica.
In Italia si inserisce in questa tendenza già il primo “Family Day” tenuto nel 2007, e successivamente le ancor più grandi manifestazioni organizzate nel 2015 e nel 2016 contro l’approvazione della legge sulle “unioni civili” omosessuali e contro la propaganda “gender” nelle scuole dal comitato “Difendiamo i nostri figli” e dal movimento “Generazione Famiglia”.
Il convegno tenutosi a Verona nei giorni scorsi rappresenta l’evoluzione del fenomeno e la sua trasformazione in un movimento più composito ed articolato, con ramificazioni internazionali. Va letto, quindi, come una tra le varie reazioni identitarie, dettate dall’istinto di sopravvivenza, riscontrabili nelle società di radice europea di fronte alla percezione diffusa in esse della loro decadenza nel contesto del mondo globalizzato.
Le proposte messe in campo a Verona si inseriscono pienamente in questa logica, come strumenti intesi a favorire il consolidamento dei nuclei familiari, e, attraverso essi, della comunità: ricerca di alternative all’aborto attraverso l’assistenza economica e psicologica ai genitori, politiche di sostegno fiscale ed economico alla maternità e alle famiglie numerose, provvedimenti per favorire la conciliazione tra maternità e lavoro femminile, lotta decisa alle pratiche di “utero in affitto”, e, in generale, salvaguardia dell’integrità psicologica dei minori.
Appaiono, dunque, totalmente fuori fuoco le accuse durissime mosse da molti ambienti politici ed intellettuali italiani, già settimane e persino mesi prima del suo svolgimento, al Congresso, e potentemente rilanciate da quasi tutti i grandi mass media. Un Congresso che è stato dipinto come una pericolosa adunata di oscurantisti, intolleranti, estremisti, intenzionati a ricacciare le donne a casa a fare la calza, a perseguitare gli omosessuali, e simili. Si poteva e si può, naturalmente, dissentire da tutte le proposte avanzate nel consesso e dalle analisi che le ispirano, così come esprimere dubbi sulla loro concreta attuabilità. Ma le caricature feroci e malevole elaborate da più parti per delegittimare radicalmente il movimento di cui esso è stato espressione hanno mostrato rapidamente la corda di fronte alla realtà effettiva dell’evento. Che non ha avuto niente a che vedere con la nostalgia di un mondo arcadico che non c’è più, ma è stato invece una classica “risposta a sfida” rispetto a problemi nuovi ed urgenti, e ha espresso una preoccupazione largamente condivisa e trasversale per le prospettive future di una società sempre più smarrita, precaria, instabile.
D’altra parte, reazioni tanto virulente non debbono stupire più di tanto. Siamo di fronte, infatti, ad una vera e propria nuova lotta di classe, ad uno scontro epocale di natura sociale, politica e culturale inserito in una dialettica che, all’interno delle democrazie liberali, sempre più si sta polarizzando tra élites globaliste e movimenti identitari. Ciò che rimane della sinistra e del “progressismo” occidentale è ormai tutto concentrato sul sostegno all’immigrazionismo multiculturalista e a rivendicazioni connesse all’individualismo edonista/biopolitico, di cui il femminismo radicale e i movimenti “lgbt…” rappresentano i rappresentanti più accesi. Battersi a testa bassa e con ogni mezzo contro il sostegno alla maternità e alla famiglia “tradizionale” (come a sinistra viene definita spregiativamente quella formata da marito, moglie e figli ottenuti naturalmente) significa per i progressisti difendere strenuamente le proprie residue rendite elettorali e la propria classe sociale di riferimento: quella “borghesia della conoscenza” deterritorializzata – radicata soprattutto nell’industria culturale-mediatica, nei quadri dirigenti del sistema produttivo hi tech, nelle istituzioni internazionali e “neutre”, nel sistema dell’alta formazione – che negli ultimi decenni ha conquistato praticamente tutte le posizioni di potere sociale più influenti nelle società occidentali, che difende un’ideale radicale di autodeterminazione senza limiti e che bolla come “populista” qualsiasi opposizione politica alla propria egemonia.
Il blocco socio-politico progressista/globalista ha, peraltro, ereditato in Italia da quello comunista novecentesco la pretesa al monopolio totale della cultura di massa e del discorso pubblico. Da qui la diffamazione, al limite della mostrificazione, alla quale abbiamo assistito nelle scorse settimane. Che riecheggia campagne altrettanto aggressive già scatenate in passato contro avversari ritenuti pericolosi e additati come “antropologicamente” diversi, come Craxi o Berlusconi. Che si spinge fino a utilizzare spregiudicatamente istituzioni di natura scientifica a fini di pura invettiva idologica (si vedano tra gli altri casi la petizione firmata da mlti docenti dell’Università di Verone, o i comunicati anti WCF nati in seno alla Società italiana delle storiche, e alla Società per gli studi di storia contemporanea). E che nega legittimità persino all’articolo 29 di quella Costituzione tante volte brandita come un feticcio, quell’articolo che “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
Per converso, non stupisce che nella nuova destra a trazione sovranista si percepisca il movimento pro-life e pro-family come un’occasione per guadagnare consenso intorno a temi che stanno a cuore ad una larga parte del suo elettorato. Da qui la presenza ostentata, al Congresso di Verona, di molti suoi leader ed esponenti di spicco, di cui sopra si diceva.
Altra cosa sarà valutare se alle dichiarazioni enfatiche di principio da parte loro seguiranno anche i fatti, su terreni che rimangono di forte conflittualità ed esposizione alla polemica mediatica. O se le associazioni promotrici di questa e altre iniziative di sensibilizzazione dovranno dotarsi in un futuro più o meno prossimo di una propria organizzazione e di una propria leadership politica.