Tentativi di riflessione a margine dei fatti di Capitol Hill.
di Francesco Cavallo
Quanto accaduto il 6 gennaio a Washington ha indubbiamente una certa rilevanza, ma proprio per questo l’analisi dei fatti non può restare in superficie.
Come autorevoli studiosi segnalano da almeno due decenni e da diverse prospettive, riprendendo le lezioni di maestri come Alexis de Tocqueville, José Ortega y Gasset e Johan Huizinga, i sistemi politico-sociali occidentali sono da tempo seduti su un vulcano.
I vulcani sono strutture complesse, hanno una parte visibile esterna ma soprattutto una parte non visibile, interna alla crosta, frutto di un’attività nascosta che prosegue ininterrotta da centinaia di migliaia di anni. Attraverso di essi si fanno strada i prodotti di quell’attività, materiali che al verificarsi di una serie di circostanze fuoriescono, dando vita a eruzioni che possono essere tranquille (effusive) o esplosive.
Le scene della pittoresca occupazione del Congresso degli Stati Uniti d’America sono un’eruzione di quel vulcano attivo sul quale sono sedute le postmoderne democrazie occidentali, un vulcano che non si è certo formato negli ultimi 4 anni di Presidenza Trump e men che mai negli ultimi due mesi agitati della politica americana.
Volendo semplificare, si potrebbe dire che quella di ieri è stata una manifestazione di “antipolitica”, “anti-sistema”, con radici antiche, che ha poco a che fare con “trumpismo”, “sovranismo”, “fascismo” (quello non manca mai) e con qualunque altra banalità utile a liquidare con partigiana faciloneria questioni estremamente complesse e profonde.
Certo, l’antipolitica nei sistemi politico-sociali occidentali quando si manifesta assume forme espressive e connotati peculiari, storicamente incarnati, che dipendono dalla contingenza del contesto specifico e dalle circostanze storiche. Stavolta l’apparente innesco dell’eruzione è stato il rifiuto dell’esito elettorale che tutto il Congresso si apprestava a ratificare, ma le radici della rabbia “antisistema” sono profonde e presentano aspetti comuni in tutto il mondo occidentale. Ma se si vuole essere seri e si hanno davvero a cuore le sorti delle democrazie occidentali occorre trascendere dalla miopia della contingenza, dall’istantanea (Trump, le elezioni presidenziali, i presunti brogli, il partito repubblicano che non segue Trump in questo suo tentativo di farsi leader antisistema, ecc).
Per rendere ancora più semplice una riflessione che richiederebbe ben altri tempi e spazi, ciò che abbiamo visto ieri a Washington non è molto diverso, nelle sue radici ultime, da ciò che è accaduto in Italia mentre venivano lanciate monetine all’on. Craxi o un cappio sventolava in Parlamento, nonché soprattutto da quanto è accaduto durante i “Vaffa day” del 2007-2008 (se ci si divertisse ad andare a rivedere gli slogan dei “Vaffa-day”, o anche i recenti auspici di abolizione del Parlamento formulati dall’ideatore e promotore del movimento politico nato sui “Vaffa”, ci si accorgerebbe che non sono molto dissimili da quelli risuonati a Washington). Mutano, cioè, i tempi e le modalità di manifestazione del sintomo, ma la malattia delle democrazie occidentali è unica.
Del resto, il gesto di occupare il Congresso, di una violenza solo simbolica sebbene senza precedenti, è avvenuto non contro una parte politica, ma contro tutto il Congresso riunito in seduta comune, partito repubblicano compreso (contro il quale pari modo si indirizzava il disappunto dei manifestanti e si era indirizzato qualche ora prima il disappunto dello stesso Trump). Del resto, se un tipo seminudo e pittorescamente vestito, occupa lo scranno più altro del Congresso con fare oltraggioso non pare potersi dire ce l’abbia esclusivamente con “la sinistra”…ma con tutto ciò che quello scranno e quell’aula rappresentano.
Personalmente sostenni già durante le primarie del 2016 che Trump era la manifestazione – peculiare a quel contesto – di una spinta antipolitica, simile a quella manifestatasi in Italia con l’avvento sulla scena del Movimento 5 Stelle ed elencavo le analogie tra il tycoon e il comico genovese; tuttavia, le caratteristiche del sistema politico americano rendevano impossibile che quella spinta si manifestasse fuori dai due partiti tradizionali. Essa, semplicemente, si stava manifestando e stava occupando spazi dove essi si erano resi più disponibili e più facilmente aggredibili. E’ grazie a quella spinta antisistema che Trump vinse le primarie e ottenne la candidatura.
Da due mesi a questa parte, dopo la parentesi presidenziale che lo ha costretto a istituzionalizzarsi (per quanto parzialmente), Trump sembra avere dismesso i panni del conservatore (che qualche buona cosa pure hanno prodotto in questi quattro anni) per tornare a vestire, di nuovo, quelli del leader antisistema. La giornata del 6 gennaio, con il Partito Repubblicano che da Mike Pence a Mitch McConnell resta pressoché interamente nel solco della dialettica istituzionale e Trump che invece risponde “Anche il Partito Repubblicano è morto, Vaffa anche al Partito Repubblicano”, credo segni definitivamente questo passaggio, o forse questo ritorno.
Ciò che ci si è manifestato a Washington il giorno dell’epifania non è, dunque, la malattia, ma un sintomo. E lo stesso Trump (al pari di tanti altri leader politici di questo tempo) non è la malattia, ma un sintomo. Considerare che il problema sia Trump ed illudersi che l’uscita di scena sua o di qualche altro leader politico sia sufficiente a guarire il paziente, significa continuare a far avanzare la malattia, a lasciare che il magma viva e cresca sotto la crosta.
Significa continuare a non cogliere e non voler cogliere le ragioni della rabbia antisistema: il distacco tra popolo ed elites, la mancanza di corpi intermedi (tutti ideologicamente distrutti), l’insostenibile oppressione della cappa culturale e dei “nuovi diritti” imposti dal politicamente corretto, la coriandolizzazzione della società, la rimozione del fatto religioso dalla sfera pubblica e, ormai, l’aggressione di esso anche nella sfera privata…
Considerare che il problema sia Trump, significa continuare ad alimentare quella rabbia che invece ha delle ragioni che meriterebbero di essere comprese anziché respinte e snobbate: mettendo un tappo a un vulcano (o cambiandolo) non si evitano le eruzioni, anzi si aumentano pressione e temperatura interne favorendo una nuova eruzione e certamente più violenta della prima. Se le elites, i pasdaran delle “magnifiche sorti e progressive” non smettono di autoassolversi pensando che la rabbia popolare non abbia ragioni perché il mondo che essi hanno realizzato è il paradiso in terra, quella di ieri a Washington non è che solo una delle manifestazioni della profonda crisi delle democrazie occidentali che vedremo da qui ai prossimi decenni.
La tesi di Ernst-Wolfgang Böckenförde recita “Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è più in grado di garantire”. E, più di recente, Giovanni Orsina, nel suo magistrale “La democrazia del narcisismo” (Marsilio, 2018) ha chiosato: la democrazia ha promesso a ciascuno di avere assoluto e illimitato controllo sulla propria esistenza con la conseguenza che ciascuno oggi pretende che quella promessa sia mantenuta. Quello che è accaduto ieri ha molto più a che fare con questo che non con il Sig. Donald Trump.
Venerdì, 8 gennaio 2021