Card. Baltazar Enrique Porras Cardoso, Cristianità n. 386 (2017)
Il caso Venezuela
Testo dell’intervento tenuto da S. Em. il card. Baltazar Enrique Porras Cardoso, arcivescovo di Mérida, in Venezuela, in occasione dell’incontro dal titolo Il Venezuela muore tra silenzi e bugie, organizzato a Rimini, nel Teatro del Seminario di San Fortunato, dall’Ufficio Missionario della diocesi, il 30-6-2017.
Voglio cominciare ringraziando di cuore il fraterno invito del vostro vescovo S.E. mons. Francesco Lambiasi, del suo vicario generale don Maurizio Fabbri e di don Aldo Fonti, parroco di Viserba, perché hanno promosso questo incontro fra le chiese del Venezuela e dell’Italia.
Conosco la preoccupazione e l’aiuto dato tanto dal clero Fidei Donum quanto da altre istanze ecclesiali, per esempio l’Associazione Giovanni XXIII e varie congregazioni religiose, che hanno la loro casa madre qui e sono presenti con diverse opere in Venezuela.
La recente visita di mons. Lambiasi a La Guaira ha lasciato un segno profondo nei fedeli di quella popolosa città ed è stata una testimonianza di affetto e di speranza.
Il «caso Venezuela»
Come certamente sapete, la situazione in Venezuela è da mesi drammatica e la popolazione è allo stremo. Per la maggioranza degli italiani questa situazione risulta incomprensibile: infatti dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) a migliaia sono emigrati in Venezuela e lì hanno trovato la possibilità di rifarsi una vita e di raggiungere successi sia a livello materiale che spirituale.
La democrazia, fino alla metà degli anni Settanta del XX secolo, è riuscita a portare il Paese a un buon livello di crescita e di progresso. L’incremento del prezzo del petrolio in quegli anni ha prodotto un fallimento per l’uso sbagliato delle grandi risorse, per l’incremento della corruzione e per l’allontanamento della dirigenza politica dal popolo. Questa situazione ha prodotto un disincanto nella popolazione e ha fatto sì che il discorso populistico e rivendicativo del presidente Hugo Chavez (1954-2013) avesse una profonda presa sulla gente e che egli giungesse a governare legittimamente, sebbene dopo un fallito colpo di Stato.
Il prezzo del petrolio al di sopra dei cento dollari al barile durante il primo decennio del secolo XXI ha favorito una distribuzione indiscriminata delle risorse, le più grandi di tutta la storia del Paese, una parte delle quali è stata investita in donazioni e programmi sociali con il nome religioso di «missioni bolivariane», cioè programmi sociali, sviluppati da Hugo Chavez dall’anno 2003, contro l’analfabetismo e la malnutrizione, per fornire assistenza medica e medicinali gratuiti. Ma la maggior parte di esse sono state utilizzate per comprarsi l’appoggio e il voto negli organismi internazionali di un buon numero di nazioni nei vari continenti e, inoltre, per comprare armamenti, giustificandoli come necessari per la difesa della sovranità; molta parte è stata infine divorata dalla corruzione politica, anche questa la più grande della storia del nostro Paese.
D’altra parte, il controllo assoluto di tutti i poteri pubblici per più di dieci anni, grazie alle continue elezioni programmate, hanno creato a Chavez il contesto politico più adatto per avere il pieno controllo delle istituzioni dello Stato e anche dei partiti di opposizione.
Questa situazione ha cominciato a deteriorarsi a partire dal 2011 e si è aggravata dopo la morte di Chavez. L’attuale governo del presidente Nicolas Maduro è stato qualificato da analisti internazionali come un governo di «pirati» e di «delinquenti» e non di estrema sinistra o di comunisti: questa ideologia gli serve solo da facciata per apparire vicino ai poveri e contrario agli imperi politici ed economici e ai ricchi.
In questi oramai vent’anni di potere chavista nel Paese si è prodotta una distruzione delle istituzioni pubbliche e private, attraverso espropri e una riduzione immensa dell’apparato produttivo, con la concentrazione dell’impiego nelle mani dello Stato.
Inoltre, la restrizione delle libertà di informazione e di opinione ha fatto sparire quasi completamente la presenza di mezzi di comunicazione indipendenti. La caduta drastica della popolarità del governo lo ha condotto a disconoscere la Costituzione e a non permettere elezioni di nessun tipo, perché sa che le perderebbe in maniera eclatante.
Negli ultimi due anni la mancanza di alimenti, di medicine, di cure sanitarie, la crescita della delinquenza e dell’impunità hanno raggiunto cifre allarmanti. Il numero di morti violente e la diminuzione della qualità della vita nella classe popolare hanno indotto a emigrare più di due milioni di venezuelani in cerca di migliori condizioni di vita all’estero. Una buona parte di coloro che se ne vanno sono persone con preparazione universitaria, che all’estero fanno qualsiasi lavoro per sopravvivere.
Stiamo andando verso una dittatura, con le variabili proprie del secolo XXI, ossia con l’approvazione dell’Assemblea Nazionale Costituente, convocata sotto condizioni che garantiscono il trionfo del governo. Tale dittatura permetterebbe a Maduro di ridurre di molto la dissidenza, trasformandola in delitto, ossia criminalizzandola. Per questo motivo la popolazione è scesa nelle strade da più di due mesi: non ha infatti altra arma per reclamare i suoi diritti se non quella di manifestare pubblicamente, pur soffrendo la brutale repressione da parte della forza pubblica e dei cosiddetti «gruppi collettivi», una specie di forza paramilitare armata dal governo, che opera quando riceve ordini dalle autorità. Ciò spiega il numero di morti in questi due mesi: più di ottanta, la maggior parte dei quali parte causati dall’uso di armi proibite internazionalmente.
In questo grigio panorama l’istituzione che conserva credibilità e fiducia è la Chiesa cattolica e, in particolare, l’episcopato. Grazie all’unità interna sia dei vescovi, sia dei sacerdoti, dei religiosi e delle istanze laicali, la Chiesa è diventata l’istituzione che ha parlato con maggior chiarezza, con uno spirito profetico e pieno di speranza e per questo è attaccata sempre di più dal governo.
Il peccato strutturale nel Venezuela attuale
L’episcopato, in uno dei suoi documenti, ha segnalato che ci troviamo davanti a un regime che può essere catalogato come antiumano perché non rispetta quei diritti fondamentali che tutti, autorità e cittadini, siamo obbligati a rispettare. Si tratta di un regime moralmente inaccettabile ed eticamente illegittimo nell’esercizio delle sue funzioni.
Inoltre, davanti all’imposizione di un processo costituente, abbiamo affermato che non è necessario ed è contrario al bene comune. Un processo costituente ha senso quando partecipano a condizioni ugualitarie tutti i cittadini e quando si cerca di consolidare una piattaforma comune, frutto del consenso di tutte le parti. Siamo davanti a un processo che genererà maggiori conflitti, in quanto rappresenta il parere di una minoranza che si vuole imporre su tutti. Vendere la rivoluzione del secolo XXI come «il meglio» non ha fondamento: l’esercizio del potere durante questi anni ha prodotto più impoverimento ed esclusione di prima e lascia la popolazione senza un referente istituzionale che difenda i suoi diritti.
Segnalo infine alcuni elementi dei più rilevanti presi da uno studioso della religione e professore di teologia nella linea di Papa Francesco, il dottor Rafael Luciani, per poi lasciare tempo a commenti e a domande che vogliate fare.
Applicando il discernimento, possiamo affermare che «[…] stiamo affrontando una dittatura come cittadini e come cristiani», la quale si è instaurata con «le decisioni assunte dal Tribunale Supremo di Giustizia in sede Costituzionale del 28 e 29 di marzo [2017 sull’immunità parlamentare e la legislazione eccezionale], che rappresentano un chiaro colpo di Stato e smascherano definitivamente il Governo come una dittatura». Questo fatto è stato anche riconosciuto dal Fiscale [Procuratore] Generale della nazione.
Da allora si è generata una spirale di violenza e di scoraggiamento che rende difficile la ricostruzione del tessuto sociale e politico del Paese, se non si giungerà a una soluzione negoziata fra le diverse forze politiche. Se non comprendiamo che vi è un problema morale, che coinvolge tutte le persone e le strutture che vivono nella società venezuelana, qualsiasi soluzione sarà congiunturale e provvisoria, giacchè il risanamento istituzionale e la riconciliazione socioculturale non si produrranno senza rinnovamento morale.
In sintonia con la richiesta fatta da Papa Francesco, la Chiesa venezuelana nel suo insieme ha insistito che la soluzione alla crisi attuale del Paese ha bisogno necessariamente delle seguenti condizioni: elezioni, liberazione dei prigionieri politici, riconoscimento dell’Assemblea Nazionale [Parlamento], apertura all’aiuto umanitario internazionale.
È ciò che la Santa Sede ha detto fin dal suo primo intervento in qualità di mediatrice, come ha ricordato nella sua recente lettera inviata all’Organizzazione degli Stati Americani lo scorso 21 giugno (1).
La Santa Sede ripete la sua posizione, già nota, favorevole a una negoziazione seria e sincera fra le parti, basata sulle chiare condizioni indicate in una lettera del 1° dicembre 2016 scritta dal card. Pietro Parolin a tutte le parti in causa. Però aggiunge qualcosa di più in appoggio esplicito a tutte le istanze ecclesiali venezuelane. Si riferisce per la prima volta alla situazione della democrazia in Venezuela. «La recente decisione del governo di convocare un’Assemblea Nazionale Costituente, invece di aiutare a risolvere i problemi, presenta il rischio di complicarli ulteriormente e fa sì che il futuro democratico del Paese sia in pericolo».
La nota editoriale della rivista SIC, dei gesuiti, afferma che «ci troviamo davanti a un sistema che non solo nega alla popolazione le minime condizioni di vita, ma che mette in atto una repressione selvaggia quando questa esprime il suo malessere e scontento; per questo a partire dalla nostra fede qualifichiamo questa situazione di “peccato strutturale” o “peccato istituzionale”».
Quando parliamo di «peccato strutturale» ci può venire alla mente la serie di atrocità commesse dai diversi regimi nei passati decenni della vita della politica latino-americana. Però il peccato si trova anche negli ambienti in cui la normalità della vita quotidiana sta accettando come realtà sopportabile il fatto di vivere in condizioni inumane, che negano alla persona ogni possibilità di crescita, cioè di costruire un futuro di libertà e di benessere socio-economico per tutta la popolazione e non solo per quelli che appartengono al partito o alla ideologia di turno.
In questo senso il nostro Paese sta vivendo nel peccato strutturale, che ci sta disumanizzando e facendo sprofondare nella follia dell’irrazionalità, che non ci permette di creare ponti di dialogo, chiudendo così qualsiasi alternativa che persegua il bene comune.
Il peccato strutturale è la negazione assoluta del bene comune, cerca di ostacolare ogni tentativo di dialogo e incontro fra le parti in funzione del bene della maggioranza, che è molto di più di quello delle parti politiche in conflitto.
L’effetto devastante non è altro che quello di riprodurre una cultura di morte che si è consolidata nel Paese fino al punto di raggiungere la quantità di circa trentamila morti ogni anno a causa della violenza, secondo dati forniti dall’Osservatorio Venezuelano della Violenza. Una cultura di morte oggi si manifesta in forma sistematica e quotidiana, come spiega la rivista SIC, in «assassinii politici a causa della repressione, in centinaia di torturati e migliaia di feriti, con centinaia di civili imprigionati e processati ingiustamente dai tribunali militari».
Il punto di riferimento che dobbiamo tenere per vincere il peccato strutturale non è la violenza, che genera altra violenza e rafforza quelle condizioni che l’hanno prodotta: l’unica maniera per combattere il peccato strutturale è recuperare la nostra capacità di sofferenza umana, smettendo di esser ciechi indolenti e discernendo la realtà partendo dalle vittime e agendo in loro favore: nel nostro caso sono le vittime della fame, della mancanza di medicine e della violenza omicida.
Oggi abbiamo il dovere, come cittadini e come cristiani, di prendere posizione dal punto di vista morale, contro tutto ciò che mina la fraternità sociale. Il dovere di assumere la responsabilità, che tutti abbiamo, davanti al dramma umanitario.
Il peccato ha molte manifestazioni, però la più profonda e oscura si ha quando si trasforma in abitudine, ossia quando penetra in profondità nel nostro modo di pensare, di agire, di vivere e irrompe nelle nostre coscienze pervertendo la maniera di come vediamo ciò che succede attorno a noi, senza prendere in considerazione che le nostre parole e le nostre azioni sono capaci di rubare la speranza e il futuro a tutto il Paese. Anche il non far nulla è frutto della stessa dinamica del peccato.
C’è una via d’uscita?
Padre Luis Ugalde, gesuita, uno degli analisti più seguiti come sociologo, storico e teologo, ha scritto recentemente che occorre prendere in considerazione la possibilità di un governo di transizione. Ogni governo più o meno democratico, se arriva a una delegittimazione e a un fallimento simili a quelli di Maduro, deve dimettersi e convocare le elezioni.
La Costituzione venezuelana in situazioni simili prevede il referendum per revocare il Presidente prima della fine del suo mandato. Maduro con l’inganno lo ha impedito; poi ha sciolto l’Assemblea Nazionale e ha rimandato le elezioni regionali; ora pretende di sostituire la Costituzione vigente attraverso una «costituente», che però non è convocata dall’unico soggetto che può farlo, cioè il popolo.
La crescente sofferenza della gente chiede gridando un cambiamento immediato: cambio del presidente e del regime, con decisioni immediate per non continuare a morire nelle strade a causa della brutale repressione o per la fame o per la mancanza di medicine o a causa della corruzione e dell’incapacità del governo. L’esecutivo è diventato il carnefice del popolo e un tiranno: cambiamento immediato per riscattare la Costituzione e incominciare il cammino per la ricostruzione evitando altri morti e altra miseria.
Per uscire da questo regime senza speranza vi è bisogno quanto prima di un governo nazionale di transizione che prenda in maniera straordinaria misure di emergenza e convochi elezioni democratiche previo risanamento, con la rimozione dei magistrati del Tribunale Supremo di Giustizia nominati senza rispettare le procedure dal Parlamento precedente alle ultime elezioni vinte dall’opposizione, e dei membri del Consiglio Nazionale Elettorale, completamente asserviti al governo di Maduro.
Abbiamo bisogno di affrontare con l’appoggio internazionale la crescente emergenza umanitaria, tipica di un dopoguerra, di liberare tutti i prigionieri politici, di riaprire le porte agli esiliati, di convocare gli imprenditori per riattivare la produzione e di attrarre gli investimenti con un nuovo spirito democratico, con la libertà di iniziativa e con garanzie giuridiche. È urgente il rifinanziamento del debito pubblico.
Entriamo sconfitti nella modernità del secolo XXI e nel superamento della povertà. Ora dobbiamo scalare un’alta montagna, quella della ricostruzione, e non pensare che uscendo da questo governo l’obbiettivo sia raggiunto. Però prima di iniziare la salita dobbiamo affrontare il blocco dittatoriale che ci impedisce di avanzare. Togliere questo ostacolo è condizione indispensabile per continuare la strada: per l’ostinazione di un regime corrotto e senza speranza perdiamo «vite», tempo ed energie, quando invece c’è bisogno di sviluppare negoziazioni e immaginazione costruttiva.
L’allegria del Venezuela sarà immensa quando vedremo apparire un governo di transizione realmente pluralistico, fatto di gente d’onore e intelligente, unita in un programma politico che abbia un interesse superiore: la salvezza del paese. Quanto più ci si farà aspettare, tanto più grave e dolorosa sarà l’attuale agonia.
Come ci ricorda insistentemente il Papa Francesco, il cristiano autentico non può permettere che gli rubino l’allegria e la speranza. La costanza fino al martirio e il lavoro comune di tutti nella ricerca del bene comune è un compito dell’evangelizzatore e del discepolo di Gesù.
Come esprime molto bene la convocazione di questo incontro, la Chiesa di Rimini non è stata assente dalla realtà venezuelana, sia prima sia ora. Però rinnovare questo impegno è un compito fraterno che acquista in questi momenti di crisi una coscienza più chiara.
La scelta di iniziare un rapporto speciale con la diocesi di La Guaira, attraverso due sacerdoti che a breve saranno qui fra noi [in Italia], ci fa sentire questa realtà ancora più vicina.
Grazie per la vostra comprensione e la vostra vicinanza.
Note:
(1) Cfr. il testo integrale in Declaración de S.E. Arzobispo Bernardito Auza, Nuncio Apostólico y Observador Permanente de la Santa Sede a la Organización de Estados Americanos, Acerca de la situación en Venezuela, 19/21 giugno 2017, Cancún, México, nella pagina web, consultata il 3-9-2017, <https://holyseemission.org/contents/statements/59496c5adcbe2.php>.