Giovanni Cantoni, Cristianità n. 106 (1984)
Il giorno 7 gennaio 1984 alcuni organi di stampa davano notizia di una presa di posizione di mons. Józef Glemp, il cardinale arcivescovo di Varsavia, a proposito della installazione dei cosiddetti euromissili. In tale pronunciamento – seguito a un colloquio di ben cinque ore con il generale Wojciech Jaruzelski – il porporato polacco avrebbe definito «un atto immorale» e una «minaccia alla pace mondiale» il fatto «che alcuni paesi europei, di antica cultura cristiana, si sono dotati di missili portatori di morte» (1).
La diffidenza che mi ispirano i mass media – proprio a causa di una loro quotidiana frequentazione – mi ha spinto a sospendere ogni commento sulla gravissima dichiarazione, in attesa di autorevole conferma della sua veridicità e del suo tenore. Ho così aspettato di avere tra le mani il testo della omelia tenuta dal presule polacco in occasione della ricorrenza liturgica della Epifania del Signore, nella cattedrale di San Giovanni Battista a Varsavia (2).
Purtroppo, nel documento si può leggere che «la prospettiva dell’anno nel quale entriamo» è caratterizzata da «le notizie di come i paesi europei, di antica civiltà cristiana, si sono muniti di missili mortali», e che «terrorizzare […] con tali mezzi è immorale, senza parlare del fatto che le spese di produzione di mezzi di sterminio, accanto alla povertà e al modesto sviluppo di numerosi paesi, sono prive di ogni morale».
Acclarata, dunque, sia la sostanziale veridicità di quanto riferito dalla stampa che la correttezza della interpretazione del pronunciamento come espressione oggettivamente fiancheggiatrice della propaganda del Patto di Varsavia – in quanto nel frattempo assolutamente non impugnata da fonti ecclesiastiche dentro o fuori la Polonia – vengo a svolgere qualche considerazione di commento in proposito.
Premetto, a scanso di equivoci purtroppo sempre possibili, che non intendo erigermi a giudice di nessuno, e tanto meno di un cardinale di Santa Romana Chiesa, ma che voglio semplicemente reagire a quella che, in analogia con una nota figura giuridica, si potrebbe denominare una «immissione», che supera, almeno così mi pare, la «normale tollerabilità», cioè una indebita ingerenza.
Confesso che in questi anni – e non solamente negli ultimissimi – la tentazione dì valutare in pubblico le cose polacche è stata ed è ancora molto forte. Se me ne sono astenuto, se a tale tentazione interferente ho resistito, non è stato tanto perché si tratti in sé di un illecito, ché così non mi pare sia né da un punto di vista umano né cristiano; e neppure per carnale timore di divergere dal Pontefice polacco, e quindi con opinioni personali ben radicate a proposito dei «fatti di casa sua»; ma, principalmente, per non soccombere, agli occhi dell’interlocutore oppure del lettore, di fronte al rischio grande di fare della «retorica eroica» con il coraggio altrui. Perciò, a grandi linee, ho lasciato fino a oggi le cose polacche ai polacchi …
Se oggi mi spingo a commentare una presa di posizione del cardinale primate di Polonia non è certo per insegnargli a fare il cardinale primate in Polonia, ma solo per difendere i diritti che mi derivano dallo status, che è il mio, di cittadino di un paese europeo «di antica civiltà cristiana» da un giudizio, volontario o involontario che sia, che mi pare radicalmente ingiusto, sia dal punto di vista dei fatti che da quello dei principi. E vedrò di difendermi cum moderamine inculpatae tutelae, cioè con la moderazione propria della legittima difesa da un aggressore che immagino evidentemente involontario se non coatto, ma che non per questo è meno oggettivamente aggressore, dal momento che la sua autorevolezza nella Chiesa e nella polonità è, tra l’altro, moltiplicata dal fatto di condividere questi caratteri con il regnante Pontefice, anche se in grado minore.
Nella prospettiva dei fatti, ricordo anzitutto che le forze del Patto di Varsavia hanno, quanto alle armi convenzionali, una superiorità su quelle dell’Alleanza Atlantica espressa grosso modo dal rapporto 4 a 1, almeno sul «teatro» europeo. Quanto, poi, alle armi nucleari, al dire di esperti la installazione degli euromissili è, considerate le modalità e i tempi di realizzazione del loro dispiegamento, niente di più di un gesto politico (3).
Nella prospettiva dei principi morali, infine, mi limito a richiamare il giudizio pontificio secondo cui il perseguimento della parità e dell’equilibrio militari non è assolutamente immorale, anche se non si può considerare un ideale: «Nelle condizioni attuali, una dissuasione fondata sull’equilibrio, non certo concepito come fine in sé stesso, ma come una tappa sulla via del disarmo progressivo, può ancora essere considerata come moralmente accettabile» (4).
Detto questo, mi pare però di potermi concedere la enunciazione franca e pubblica di qualche quesito. Per esempio, di fronte alla dichiarazione oggettivamente fiancheggiatrice della propaganda comunistica emessa dal cardinale primate di Polonia, che eco può trovare l’auspicio della 197.ma conferenza plenaria dell’episcopato polacco, che invita anche i paesi europei non ancora comunistizzati – pure se, aggiungo io, ampiamente socialistizzati – a riprendere «una normale collaborazione» con la Polonia, «soprattutto nel campo economico e culturale» (5)? Si tratta, dirà qualcuno, di aiutare il povero popolo polacco. Chiedo: si tratta di aiutare il povero popolo polacco, la Polonia cattolica semper fidelis a resistere e a rovesciare il potere comunistico oppressore, oppure di permettere a chi la domina di impegnare indisturbato tutte le risorse di cui il regime socio-politico riesce a disporre in spese militari, cioè nella «economia del potere», invece che in investimenti che – con adeguata restaurazione della proprietà e della iniziativa private – incentivino lo sviluppo della «economia della società»? Dal momento che la causa della miseria socio-economica della nazione polacca è chiaramente politica, è lecito considerare il popolo polacco – e, in genere, tutti i popoli che gemono sotto il gioco socialcomunistico – come afflitto da calamità naturali?
Ma, di grazia, un regime socio-politico può essere seriamente considerato alla stregua di una «calamità naturale», anche se gli effetti dell’uno fossero equiparabili a quelli dell’altra?
Ancora: non è forse più prudente e più realmente caritatevole lasciare che la collera dei poveri e degli oppressi abbia il suo naturale decorso, cresca e, quindi, produca il suo effetto di rivolta, salutare per chi la fa e per chi ne è testimone, e moltiplicato dalla polonità del regnante Pontefice? Non si comporta forse così, con scienza e con amore, il medico che apparentemente «affama» con un regime alimentare straordinariamente rigido, talora con una dieta assoluta, il paziente, perché il morbo non trovi esca ed egli se ne liberi? Rispondere emotivamente e ciecamente a simili appelli non significa forse farsi complici dell’orco, aiutandolo a ingrassare le vittime designate del suo cannibalismo, che tiene rinchiuse nella stia? È vero: in un certo senso «la Nazione non è colpevole di questo stato di cose» (6), ma può essere lieta di vedere stabilizzato il potere di chi, invece, è colpevole di questo stato di cose?
Di nuovo: quanti si fanno oggettivamente propagandisti della dimissione di «paesi europei, di antica civiltà cristiana» pensano, almeno, al fatto che, il giorno in cui pure l’Europa non comunistizzata la diventasse – anche grazie al loro collaborazionismo, che immagino involontario e/o coatto, ma che non per questo è meno efficace -, non vi sarebbe più nessuno a cui rivolgersi per chiedere «commercio» senza corrispettivo, cioè aiuto? Oppure sono convinti di avere scoperto il know-how per riformare il socialcomunismo e, prima ancora di avere fornito almeno un simulacro di prova della efficacia del loro brevetto, favoriscono la sua instaurazione a livello planetario, per poi estrarre il coniglio dal cilindro e liberarci tutti, cioè, i sopravvissuti?
L’ultimo quesito potrebbe parere «smodato» a proposito della presa di posizione del cardinale Glemp. Non credo; ma non lo è certamente in relazione a un altro recente caso di «immissione» di cui si è reso protagonista un noto esponente ex clericis della attuale intellighenzia polacca, don Jozef Tischner. Questo conosciuto intellettuale, infatti, non avendo responsabilità di governo neppure lontanamente paragonabili a quelle del cardinale Glemp, meno si presta a fare evocare involontarietà e/o coazione, ma piuttosto captatio benevolentiae del regime socialcomunistico che opprime la sua patria. Ebbene, in un articolo forse comparso solo in italiano, racconta che «durante un pranzo in una trattoria di Vienna dal redattore capo del giornale “Die Presse” dott. Schulmeister» gli «è stata posta» una domanda: «perché ai cattolici è necessario il diavolo?». Ne è nato l’articolo cui faccio riferimento, intitolato appunto L’odio del diavolo e l’amore dell’uomo, di cui, ora, mi interessa solamente una nota che suona così: «[…] il dott. Schulmeister mi chiese di formulare la risposta sotto forma di un articolo di 230 righe dattiloscritte per i lettori del suo giornale. Forse ho superato il limite impostomi. Sospetto però che esso limite provenga da quella Forza Immonda che governa il capitalismo, e pertanto io, in quanto soggetto alle forze di un altro sistema sociale, non sono tenuto poi all’obbedienza nei suoi confronti» (7).
Ebbene, controllo a fatica il naturale impulso a una serie di commenti sferzanti e mi limito a qualche notazione di sostanza. Anzitutto: se il capitalismo è, come consuetamente presso i partigiani dell’«altro sistema sociale», il nome con cui si tenta di squalificare il regime socio-economico fondato sulla proprietà e sulla iniziativa private, la tesi è assolutamente insostenibile dal punto di vista teorico e alla luce della dottrina sociale della Chiesa, anche così come viene prospettata nella enciclica Laborem exercens, e spiace vederla sostenuta – per dire il meno – da chi dell’«altro sistema sociale» è consuetamente ritenuto vittima e non partigiano. O le cose stanno diversamente?
Se con il termine «capitalismo» si intende indicare semplicemente e isolatamente «l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del danaro» (8), chi non sa – anche se pochi lo dicono – che è proprio «quella Forza Immonda che governa il capitalismo» a promuovere e a sostenere l’«altro sistema sociale» (9)?
Comunque, si sa oppure non si sa sulla Vistola quello che sul Tevere si è sempre saputo, anche nei momenti di massima défaillance, e cioè che ogni critica totale al capitalismo si concreta in un danno alla proprietà e alla iniziativa private? Oppure si vuole accreditare la tesi della irreformabilità del capitalismo a causa di una sua ipotetica intrinseca perversità e, di contro, della riformabilità del socialcomunismo, non più «intrinsecamente perverso», rovesciando così i noti giudizi del Magistero tradizionale della Chiesa?
Mi fermo, perché penso di avere forse superato la soglia della «comprensione», e sento già chi mi fa presente la inopportunità della polemica tra cattolici, e soprattutto con cattolici in cattività, ecc. Credo proprio di non avere ecceduto in legittima difesa, ma sono comunque disposto a ritrattare ogni parola che mi si mostrasse nata da fraintendimento soggettivo di quanto ho sentito, interpretato e respinto come una «immissione» che supera la «normale tollerabilità».
NOTE
(1) la Repubblica, 7-1-1984. Cfr. anche Avvenire, 7-1-1984.
(2) Cfr. il testo della omelia in Biuro Prasowe Episkopatu Polski, anno 16º, n. 274, n. 2/84, 16/31-1-1984, pp. 3-6.
(3) Cfr. PIERRE DE VILLEMAREST, Les euromissiles indispensable, mais il s’agit d’un geste politique insuffisant, in la lettre d’information, anno XIV, n. 14,17-12-1983, pp. 3-4.
(4) GIOVANNI PAOLO II, Messaggio alla II Sessione Speciale delle Nazioni Unite per il disarmo, del 7-6- 1982, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 2, p. 2139.
(5) I Vescovi auspicano la ripresa delle relazioni economiche e culturali con tutti i paesi. Comunicato della 197.ma Conferenza plenaria dell’Episcopato polacco, in CSEO documentazione, anno 17, n. 183, settembre-ottobre 1983, p. 474.
(6) Ibidem.
(7) JÓZEF TISCHNER, L’odio del diavolo e l’amore dell’uomo, in CSEO documentazione, cit., p. 434.
(8) PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, del 15-5-1931, in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1864-1956), 4ª ed. corretta e aumentata. Studium, Roma 1956, p. 471.
(9) Cfr., proprio sui caso in questione, P. DE VILLEMAREST, Les clefs Est-Ouest de la prison polonaise, in La Vie Française, n. 1991, 8/14-8-1983, pp. 8-10.