GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 275-276 (1998)
L’avvenimento di maggior rilievo politico nella storia contemporanea è per certo costituito dall’implosione del sistema imperiale socialcomunista, avvenuta nel 1989. Tale rilievo è fondato sul fatto che detto sistema imperiale è stato la realizzazione politica di maggior mole che la memoria storica ricordi, favorita e accompagnata dall’uso terroristico della strumentazione tecnologica dello sviluppo materiale dell’umanità, nucleare non escluso. Il crollo “misterioso” di tale sistema imperiale — misterioso perché ne sono ignote cause adeguate, dal momento che tutte quelle consuetamente addotte non sono tali da rendere globalmente ed esaurientemente conto dell’esito catastrofico, almeno in una prospettiva monocausale — ha prodotto un effetto liberatorio sullo stato psicosociale dell’intera umanità, allontanando il terrore della catastrofe nucleare.
Ma lo stato d’euforia seguito a tale crollo non ha favorito e non favorisce la riflessione sui fatti, non solo sull’implosione ma sul suo soggetto, il sistema imperiale in questione. Così non si apprezza adeguatamente che il sistema imperiale socialcomunista era un’ideocrazia, cioè l’intronizzazione istituzionale, l’istituzionalizzazione di un’ideologia, di una visione del mondo distorta in quanto incentrata su una verità parziale, la cui metafisica è un’utopia. Così si dimentica che un articolo della Costituzione sovietica degli anni 1930 recitava essere il Governo dell’URSS una cellula del PCUS, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica (1); e che le vittime enumerate nel macabro inventario eretto nel 1997 da un gruppo di storici francesi, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione (2), non sono soprattutto oppositori attivi e a mano armata del regime ideocratico, ma principalmente oppositori passivi, cioè componenti della società che non si adattavano al progetto ideologico: per dirla con Dante, “materia […] sorda” “a l’intenzion de l’arte” (3) utopica.
Così, soprattutto, non si coglie che l’implosione del regime socialcomunista — nel suo principale focolaio nell’Europa Orientale e in sue rilevanti metastasi in tutto il mondo — mette in questione, con effetto domino, ogni istituzionalizzazione ideologica, quindi l’istituzionalizzazione di ogni ideologia. Dunque, tale implosione non costituisce assolutamente la vittoria della manipolazione ideologica della libertà, cioè dell’ideologia “liberale” — come ha ben visto François Furet (4) —, sul socialcomunismo, ma la vittoria del reale — certo meno gravemente offeso nella prospettiva ideologica liberale che in quella socialcomunista, ma non perciò non offeso — su ogni ideologia.
Perciò, al proposito — proprio di ogni ideologia — di “ri-creazione” del reale “sbagliato”, il crollo del sistema imperiale socialcomunista offre la possibilità e suggerisce la doverosità di sostituire il proposito del rilevamento, della gestione e del miglioramento dell’esistente. La formula suona di profilo basso, e in un orizzonte non troppo lontano sembra fare la sua comparsa la riduzione della politica all’amministrazione. Questa percezione scorretta è anzitutto alimentata dal fatto che tutti — piaccia o no — fuoriusciamo da una temperie culturale caratterizzata dal gramsciano “tutto è politica” (5); quindi che il crollo delle ideologie istituzionalizzate e totalitariamente onnipervasive viene colto come la fine della realtà stessa, delle idee e degli ideali. Per contro, la fine delle ideologie è fine della scorretta allocazione gerarchica delle diverse realtà manipolate appunto ideologicamente o della loro traumatica mutilazione, non assolutamente fine delle realtà stesse: per tutte le ipotesi, per esempio, la fine della lettura economico-classista della storia non è assolutamente fine delle classi sociali, della rilevanza della vita economica né, tantomeno, la dichiarazione della sua irrilevanza in nome di un mal inteso “spiritualismo”; inoltre, l’attenzione alla realtà, la “contemplazione” della realtà piuttosto che la sua aggressione o mutilazione ideologica informa sia sullo stato, sulla condizione storica della realtà stessa, che sul suo essere, sulla sua natura, nonché — in ultima analisi — sul da farsi a suo proposito. Infatti, da un canto lo stato, la condizione della realtà, si ricava dalla sua descrizione che, nel caso della società, è descrizione sociologica; d’altro canto, la natura dell’uomo e della società, dicendo esplicitamente o almeno suggerendo il loro rispettivo essere alimentano le idee così che — infine — lo scarto fra l’esistente e l’essere, fra l’”essere” e il “dover essere”, definisce e permette d’identificare l’ideale verso cui orientare organizzativamente l’esistente favorendo il suo svolgimento, il suo sviluppo verso la sua perfezione, ma — previamente e principalmente — non opponendo ostacoli a tale sviluppo.
Segni non equivoci, benché ancora nelle intenzioni, dell’indispensabile “ritorno al reale” — per usare una puntuale espressione di Gustave Thibon (6) —, della “conversione alla realtà”, si possono felicemente cogliere nel documento predisposto in vista della Conferenza Programmatica di Alleanza Nazionale, organizzata a Verona dal 27 febbraio al 1° marzo 1998 (7).
“Nel suo realismo — si legge nella premessa di tale documento, I valori e gli strumenti, al paragrafo 2, Costruire il Sistema Italia —, che costantemente la distingue dagli utopismi più o meno mascherati delle forze politiche e sociali a vario titolo “progressiste”, la Destra diffida di quanti, in nome di “altruismi” ideologicamente motivati e quindi per ciò solo sospetti, intendono imporre agli esseri umani dall’alto, dal basso o comunque dall’esterno, le loro teste, volontà, intelligenze, aspettative, progettualità ai progetti, volontà, teste, aspettative, intelligenze degli uomini nella loro ricca e articolata pluralità. Alla Destra invece basta — e sarebbe già molto, e in tal senso intende lavorare — che la rete istituzionale, amministrativa, educativa, normativa, fiscale, invece di costituire un ostacolo, sia organizzata e tessuta in modo da rappresentare appunto un’opportunità” (8). Ancor più qualificante è quanto scritto nella parte seconda, Popoli, conoscenza, identità tra innovazione e tradizione, al paragrafo 1, Dignità della persona, dignità della Nazione: “[…] la Destra predilige per sua scelta fondante il principio di realtà rispetto al principio di utopia, e insieme il gradualismo rispettoso del dato empirico di fronte ai massimalismi delle suggestioni a vario titolo rivoluzionarie e drasticamente novatrici” (9). La linearità e la puntualità dell’asserto — che ha il tono di una degnità vichiana — garantisce non solo dell’intenzione, ma lascia anche ben sperare circa la capacità di superare ogni residuo ideologico — il crollo dell’ideologia istituzionalizzata inteso come sconfitta dell’ideologia “altrui” e come occasione storica per la realizzazione della “propria” — e di affrontare coraggiosamente il mare “fra il dire e il fare”. E — sia chiaro — l’eventuale fallimento o incompletezza del tentativo non lo condanna in modo definitivo — “la disperazione […] in politica mi pare un’autentica mostruosità”, scrive correttamente Charles Maurras (10) —, ma aggiorna semplicemente il ritorno al reale, con svantaggio sempre maggiore per i ritardatari mentre il reale stesso continua ad attendere pazientemente. Ma, con tutta franchezza, non vedo perché farlo ancora aspettare e non “rimettere” veramente “in cammino la speranza”.
Giovanni Cantoni
* Articolo sostanzialmente anticipato, senza note e con il titolo redazionale Il momento per la politica del ritorno al reale, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVII, n. 49, 27-2-1998, p. 8.
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(1) Cfr. Giovanni Codevilla, Stato e Chiesa nell’Unione Sovietica, Jaca Book, Milano 1972, pp. 37-43; e Jean Madiran, La vieillesse du monde. Essai sur le communisme, Dominique Martin Morin, Jarzé 1975, pp. 5-14.
(2) Cfr. Stéphane Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Panné, Andrzej Paczkowski, Karel Bartosek e Jean-Louis Margolin, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, con la collaborazione di Rémi Kauffer, Pierre Rigoulot, Pascal Fontaine, Yves Santamaria e Sylvain Boulouque, trad. it., Mondadori, Milano 1998.
(3) Dante Alighieri, La Divina Commedia. Paradiso, canto I, vv. 128-129.
(4) Cfr. il mio L’ultima intervista di François Furet: un contributo per ostacolare il futuro dell’illusione, in Cristianità, anno XXV, n. 270, ottobre 1997, pp. 19-22.
(5) Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. secondo, Quaderni 6 (VIII)-11 (XVIII), Quaderno 7 (VII). 1930-1931 (Appunti di filosofia II e Miscellanea), § 35, p. 886.
(6) Cfr. Gustave Thibon, Ritorno al reale. Nuove diagnosi, trad. it., Volpe, Roma 1972.
(7) Cfr. Alleanza Nazionale, Rimetti in “cammino” la Speranza. Nell’Italia. Verona, 27-28 febbraio 1 marzo 1998, Palazzo dello Sport, Roma 1998.
(8) Ibid., pp. 12-13.
(9) Ibid., p. 71.
(10) Charles Maurras, Enquête sur la Monarchie. Suivie de “Une campagne royaliste au “Figaro”” et “Si le coup de force est possible”, ed. definitiva con un discorso preliminare e un indice dei nomi citati, con una prefazione di Marcel Jullian, Les Éditions du Porte-Glaive, Parigi 1986, p. 414.