Marco Invernizzi, Cristianità n. 382 (2016)
La mattina del 9 novembre il mondo si è svegliato stupito, dopo l’inattesa vittoria di Donald John Trump alle elezioni presidenziali statunitensi.
Stupito perché la candidata dei «poteri forti» — sostenuta dai media di quasi tutto il mondo, dai politici progressisti, dagli intellettuali più famosi, dall’intero mondo dello spettacolo, tranne qualche rara e silenziosa eccezione —, Hillary Diane Rodham, membro dell’importante famiglia Clinton, già moglie di un presidente, già senatrice e segretario di Stato, è stata sconfitta, pur avendo ottenuto la maggioranza numerica dei voti popolari.
Confesso di avere gioito non tanto per la vittoria di Trump, che conosco poco, ma per la sconfitta di chi aveva promesso di confermare e forse esasperare le politiche contro la famiglia e la vita, in nome di quei diritti che stanno affossando il diritto, quello scritto nella natura dell’uomo.
Dopo le elezioni il mondo non è diventato migliore e sarebbe da stolti pensare che automaticamente possa migliorare soltanto per un’elezione politica, per quanto forse la più importante del mondo.
Tuttavia, è corretto pensare che questa elezione avrà possibili e importanti conseguenze, quanto meno per rallentare nei popoli di tutto il mondo quel processo di disgregazione del corpo sociale e di allontanamento dai princìpi del diritto naturale che la vittoria di Hillary Clinton avrebbe certamente favorito.
Con Trump si apre una stagione politica inedita, che potrebbe essere piena di sorprese. Ma potrebbe anche non andare oltre una lotta violenta per il potere, come è accaduto in Italia nel ventennio berlusconiano, senza particolari cambiamenti positivi.
Dipenderà in parte anche da quei gruppi, quei movimenti e quelle associazioni, presenti pure negli Stati Uniti d’America, capaci di leggere la storia e i segni dei tempi, per cercare quindi di orientarla. La loro azione sarà importante per cogliere l’opportunità di questa incredibile sconfitta dei potenti, per trasformarla in un cambiamento culturale e non solo degli assetti del potere. Altrimenti sarà soltanto un tempo guadagnato, un rallentamento del processo che conduce alla morte del nostro mondo occidentale.
Di consolante nella vicenda elettorale c’è che la metà almeno del popolo statunitense che è andato a votare — il 53,7 per cento, cioè 134,5 milioni di voti su 251,1 milioni di cittadini aventi l’età per votare — non segue le indicazioni dei grandi mezzi di comunicazione e non si fa suggestionare dalle loro proposte; nel «mondo che muore» vii sono almeno sessanta milioni di persone, un popolo semplice ma autentico, disponibili a una proposta di rinascita.
Teniamo presente questa consolazione nei tempi difficili che ci aspettano. Speriamo in una inversione di tendenza da parte dei governi a favore della vita e della famiglia, che dagli USA arrivi in tutto il mondo e speriamo che finisca la contrapposizione USA-Russia, triste retaggio della Guerra Fredda, e cominci invece un’autentica collaborazione contro il terrorismo islamista.
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Quanto al nostro Paese, speriamo, anche, che si ripeta il distacco fra «Paese dei media» e «Paese reale» manifestatosi in occasione dell’elezione di Trump. Qualcosa di simile è avvenuto in occasione della pubblicazione della Lettera apostolica di Papa Francesco Misericordia et misera, il 20 novembre scorso. Una Lettera che giunge al termine di un Giubileo che ha visto oltre 900 milioni di fedeli attraversare le Porte Sante aperte in tutto il mondo, di cui 21.292.926 a Roma; una Lettera che auspica una «conversione pastorale» (n. 5) che metta al centro il sacramento della confessione, che ottiene il perdono e procura la gioia a chi ritrova la grazia che aveva perduto. I media hanno ridotto questo documento all’estensione a tutti i sacerdoti della facoltà di assolvere dal grave delitto dell’aborto, concessa in via straordinaria nel corso dell’Anno Santo, oggi mantenuta e prevista sine die. Una vecchia tecnica, praticata dai servizi segreti per «intossicare» le notizie, cioè per concentrare l’attenzione su un solo aspetto di un messaggio facendo dimenticare il resto, è stata usata anche con questo testo del Magistero, la cui portata generale è stata completamente ignorata o travisata.
Avremo modo di ritornare su questo importante documento, che mette il sacramento della riconciliazione al centro dell’auspicata «conversione pastorale»: «Il Sacramento della Riconciliazione ha bisogno di ritrovare il suo posto centrale nella vita cristiana; per questo richiede sacerdoti che mettano la loro vita a servizio del “ministero della riconciliazione” (2 Cor 5,18) in modo tale che, mentre a nessuno sinceramente pentito è impedito di accedere all’amore del Padre che attende il suo ritorno, a tutti è offerta la possibilità di sperimentare la forza liberatrice del perdono» (n. 11).
Non dovrebbe essere difficile per una persona senza pregiudizi ideologici constatare la volontà del Papa, presente in tutti i suoi documenti, dalle omelie di Casa Santa Marta ai testi più impegnativi, di preparare e portare la Chiesa, soprattutto quella della vecchia Europa, ad assumere un atteggiamento missionario, a «uscire» dalle sacrestie e dalle stesse chiese per andare a cercare i fedeli che non vengono più alle celebrazioni liturgiche. E non dovrebbe neppure essere difficile vedere la necessità di questa «conversione pastorale» guardando le chiese vuote. Certo, questo atteggiamento non necessita soltanto della capacità di annunciare Cristo come Salvatore del mondo, ma comporta anche la preparazione dei fedeli, che devono diventare tutti «missionari» nei luoghi dove vivono e lavorano. Questi nuovi missionari devono vincere il «rispetto umano» che li frena e devono imparare a presentare l’insegnamento dottrinale che nasce dal seguire il Signore. E sotto questi aspetti siamo sinceramente ancora molto indietro.
Tuttavia, è facile constatare come l’insistenza del Papa aiuti ad affrontare e a superare queste difficoltà. Potrà non piacere il suo stile, potranno apparire stonate o poco prudenti certe affermazioni, ma la via della nuova evangelizzazione che egli ci invita a seguire è quella dei suoi predecessori, dal venerabile Pio XII (1939-1958) al Papa emerito Benedetto XVI (2005-2013), ciascuno con le proprie caratteristiche.
Chi si ostina a criticarlo, in pubblico e in privato, con uno zelo amaro e acido, fa tanto danno alla Chiesa quanto quello dei suoi potenti adulatori, che strumentalizzano le parole del Pontefice dalle pagine dei maggiori quotidiani e dei principali notiziari.