Agostino Sanfratello, Cristianità n. 19-20 (1976)
Il problema della Fraternità Sacerdotale San Pio X
ECÔNE: IL NODO E IL BANDOLO
Di un nodo inestricabile, quando manchino un braccio e una spada che vogliano e sappiano risolverlo come l’antico nodo gordiano, e quando però si volesse ugualmente venirne a capo, non resterebbe che provare a districarlo, cercandone il bandolo.
I. IL NODO
Del nodo inestricabile di Ecône, si potrebbe disperare di venire a capo: il nodo è infatti apparentemente, a suo modo, perfetto. Semplice e perfetto come un cappio, un nodo scorsoio.
Il card. Villot, che sembra conoscerlo meglio di chiunque altro, ne descrive sobriamente – con la lettera del 27 ottobre 1975 – i meccanismi e il funzionamento.
1. La Fraternità, le sue ribellioni, i suoi errori
La Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata da mons. Lefèbvre, viene eretta canonicamente nella diocesi di Losanna-Ginevra-Friburgo il 1º novembre 1970. Ma “ci si accorse tuttavia molto presto – scrive il card. Villot – che i responsabili rifiutavano ogni controllo delle legittime istanze, restando sordi ai loro ammonimenti, perseverando nonostante e contro tutto nella linea prescelta: l’opposizione sistematica al Concilio Vaticano II e alla riforma postconciliare” (1). E non è tutto: a Ecône serpeggiano anche gravissimi errori dottrinali, per cui i candidati al sacerdozio vengono formati “in reazione contro la Chiesa viva, contro il papa, contro i vescovi, contro i sacerdoti con i quali sarebbero stati chiamati a collaborare“. Lo scandalo, durato ormai da troppo tempo, doveva cessare.
2. La commissione cardinalizia
Lasciati dunque al chiuso e al coperto tutti gli altri candidati al sacerdozio (che, come è noto, crescono pacificamente e ordinatamente in numero, sapienza, età e grazia presso Dio e presso gli uomini, in tutti gli altri seminari dell’orbe cattolico!), si partì alla ricerca della pecorella smarrita di Ecône.
“Vista la gravità della materia“, dice il card. Villot, non più uno soltanto, ma ben tre buoni pastori furono chiamati a occuparsene: viene infatti designata, nel giugno 1974, una commissione composta dai tre cardinali Garrone, Wright e Tabera. I tre perseverano per tutto un anno sulle tracce della smarrita. Ma fu tutto vano. La missione pacificatrice della commissione fallì.
3. Le decisioni del 6 maggio 1975
Di fronte all’ostinata ribellione, decisioni dolorose ma necessarie si imponevano. Fu “la seconda fase” dei lavori a giungervi. “La seconda fase – continua il card. Villot – mise capo (“aboutit”) alla decisione che si sa, decisione resa pubblica su ordine di Sua Santità comunicato alla Commissione cardinalizia, e decisione senza appello poiché ognuno dei suoi punti fu approvato in forma specifica dall’Autorità suprema. […] È dunque chiaro adesso che la Fraternità Sacerdotale San Pio X ha cessato di esistere”.
Ma così come non era valsa la bontà, neppure con la severità si otterrà nulla. Mons. Lefèbvre riceve infatti ancora, il 29 giugno 1975, una prima lettera, e poi una seconda, sempre di Sua Santità, l’8 settembre. Solo dopo quest’ultima egli risponde; ma non cede. “Nulla disgraziatamente – deplora il card. Villot – autorizza a pensare che l’autore sia risoluto a obbedire“.
Infine anche il card. Villot parla e si rivolge con la lettera da cui ho desunto finora la succinta descrizione del nodo, ai vescovi di tutto il mondo, mettendoli finalmente in guardia contro mons. Lefèbvre.
Il seguito doveva purtroppo confermare le previsioni del card. Villot. Mons. Lefèbvre, tra l’altro, il 3 aprile 1976 procede ugualmente al conferimento del diaconato e degli ordini minori a suoi seminaristi. Invano una deplorazione pubblica del suo operato viene espressa da Sua Santità durante il discorso al concistoro il 24 maggio 1976. E ancora invano da mons. Benelli il 12 e il 25 giugno 1976 viene ricordato a mons. Lefèbvre il suo dovere di non procedere assolutamente oltre nel conferimento indebito di ordinazioni sacre. Si giunge quindi fatalmente al 29 giugno 1976: dinnanzi a una folla di fedeli convenuti a Ecône da ogni parte del mondo, mons. Lefèbvre conferisce a 13 suoi seminaristi il suddiaconato e a 13 altri il sacerdozio.
Il portavoce della sala-stampa vaticana rende allora pubblicamente nota, il 1º luglio 1976, la pena in cui probabilmente mons. Lefèbvre è incorso: la sospensione per un anno dal conferimento degli ordini sacri; inoltre, per non aver ottemperato al precetto comunicatogli da Sua Santità di astenersi da indebite ordinazioni, la Santa Sede avrebbe vagliato opportune misure a suo carico.
4. La sospensione a divinis
Ancora un estremo gesto è compiuto: il 10 luglio 1976 il prefetto della S. Congregazione per i Vescovi scrive a mons. Lefèbvre intimandogli un pronto e totale pentimento, di cui precisa di attendere entro dieci giorni un segno manifesto. Il 17 luglio mons. Lefèbvre scrive al Papa; ma disgraziatamente nella sua lettera manca il segno manifesto che si era atteso. Cade allora sul ribelle, il 22 luglio 1976, la lama dell’estrema (finora) misura: con decreto della S. Congregazione per i Vescovi, gli è inflitta la sospensione a divinis. Neppure questo, come tutti sanno, basterà. Ma il resto è noto: nonostante la sospensione a divinis, la messa a Lilla (il 29 agosto); e nonostante le ulteriori deplorazioni espresse da Sua Santità il 29 agosto e il 1º settembre, le messe successive a Besançon e altrove.
Infine, l’11 settembre 1976, a Castel Gandolfo, l’udienza concessa da S. S. Paolo VI a mons. Marcel Lefèbvre.
5. La perfezione del nodo
Il nodo appare semplice e perfetto.
Perché, infatti, la sospensione a divinis di mons. Lefèbvre? Per le ordinazioni conferite nonostante il precetto da Sua Santità fraternamente a lui comunicato di astenersi dal conferimento indebito di ordinazioni sacre.
Perché tali ordinazioni erano indebite? Perché i chierici ordinati sacerdoti da mons. Lefèbvre erano sprovvisti delle necessarie lettere dimissorie dell’ordinario nella cui diocesi essi erano o sarebbero stati incardinati; perché non possedevano altro valido titolo canonico; perché infine non avrebbero potuto essere incardinati presso la stessa Fraternità, avendo questa cessato di esistere.
Perché la Fraternità aveva cessato di esistere? Perché era stata legittimamente soppressa da mons. Mamie, alla cui giurisdizione, quale congregazione di diritto diocesano, la Fraternità era sottoposta.
Perché la Fraternità era stata soppressa? Per i gravissimi errori e le gravissime ribellioni di cui la Dichiarazione di mons. Lefèbvre del 21 novembre 1974 era il manifesto; errori e ribellioni che peraltro si erano manifestati già da molto presto dopo la fondazione della Fraternità, e dai quali, nonostante ogni amichevole insistenza da parte delle legittime istanze, mons. Lefèbvre aveva sempre rifiutato e rifiuta tuttora di recedere.
II. IL BANDOLO
La perfezione del nodo, a prima vista, appare tale da far disperare chi pensasse a districarlo.
Fortunatamente, per poco che lo si osservi da vicino, il nodo rivela una confortante imperfezione. Vediamolo dunque assieme, almeno in alcuni suoi passaggi principali, tratteggiati forse troppo rapidamente dal card. Villot.
1. Ribellioni ed errori
Eretta dunque canonicamente nella diocesi di Friburgo-Ginevra-Losanna la Fraternità Sacerdotale San Pio X, “ci si accorse però molto presto – informa il card. Villot – che i responsabili rifiutavano ogni controllo delle legittime istanze, […] perseverando nonostante e contro tutto nella linea prescelta: l’opposizione sistematica al Concilio Vaticano II e alla riforma postconciliare“. A Ecône, inoltre, serpeggiavano gravissimi errori dottrinali, per cui i candidati al sacerdozio venivano formati “in reazione contro la Chiesa viva, contro il papa, contro i vescovi, contro i sacerdoti con i quali sarebbero stati chiamati a collaborare“.
“Molto presto“. La situazione era dunque diventata “molto presto” intollerabile. Non oltre, senza dubbio, i primi mesi del 1974. A quel tempo infatti a Ecône si doveva avere ormai superato ogni limite se il card. Garrone si vede costretto a intervenire personalmente scrivendo il 9 marzo 1974 a mons. Mamie – come egli stesso ci informa nel suo primo dossier di accusa (2) – per convocarlo a una riunione a Roma. La materia era prevedibile: da un lato i gravissimi errori e dall’altro le inveterate e intollerabili ribellioni di mons. Lefèbvre a “ogni controllo delle legittime istanze“, come dice il card. Villot.
Quali istanze? Essendo, la Fraternità, posta sotto la giurisdizione del vescovo di Friburgo, era mons. Mamie stesso l’istanza legittima contro cui mons. Lefèbvre insorgeva già da tempo, fin da “molto presto” dopo la fondazione.
Cosa ne dice mons. Lefèbvre? È vero, gli chiede Louis Salleron, che “rifiutavate il controllo delle competenti autorità ecclesiastiche?“. Mons. Lefèbvre: “È assolutamente falso. Ho d’altronde ricevuto più volte la visita di mons. Adam e ho invitato esplicitamente mons. Mamie, che ha sempre rifiutato di venire” (3).
Cosa dice mons. Mamie? Quali sono a questa data (9 marzo 1974) i controlli e quali gli atti relativi – respinti fin da “molto presto” da mons. Lefèbvre – che mons. Mamie elenca nell’uno o nell’altro dei suoi dossiers di accusa? Quali gli scritti, le esplicite tesi, i passi concreti contenenti i gravissimi errori, di cui mons. Mamie ci dà conto ed elenco? Nessuno!
C’è anzi un elemento ulteriore: nel febbraio 1974 mons. Lefèbvre apre, secondo tutte le debite forme canoniche, la casa di Albano, presso Roma, previa accettazione del vescovo di Albano, ottenuta esibendo il placet che mons. Mamie ha appena concesso a mons. Lefèbvre! Strano. Ma mons. Lefèbvre non era allora già da gran tempo, da “molto presto“, in stato di aperta e intollerabile ribellione contro mons. Mamie? Non propagava gravissimi errori? E se è così, perché mai mons. Mamie gli ha concesso il suo placet per nuove fondazioni? Voleva forse farsene il complice nell’estendere la ribellione e l’errore?
2. La Commissione cardinalizia
Finora, dunque, né ribellioni né errori sono emersi. Ma “vista la gravità della materia“, come dice il card. Villot, nel “giugno 1974 – informa nel suo primo dossier mons. Mamie – il Santo Padre designa una Commissione cardinalizia “ad hoc””.
A. Il rapporto Perroud
La riunione romana del 26 marzo 1974 dei cardinali Garrone, Wright e Tabera (rappresentato da mons. Mayer) con mons. Mamie e mons. Adam, termina con una “richiesta agli interessati [mons. Mamie e mons. Adam] di un rapporto sulla Fraternità San Pio X e il seminario di Ecône“. Il rapporto, come informa mons. Mamie, è prontamente steso da mons. Perroud, vicario generale della diocesi di Losanna-Ginevra-Friburgo, e prontamente inviato a Roma il 30 marzo. Il rapporto Perroud è purtroppo ancora inedito. In ogni caso, poiché di tale rapporto non si parlerà più in seguito, si può supporre che non vi fosse materia tale da sollevare anche solo “qualche perplessità“. Oppure che, se materia vi era, essa sta stata trovata infondata – e per questo lasciata cadere – dalla successiva visita canonica, che raccolse invece una impressione tutto sommato favorevole sia sulla Fraternità che sul seminario.
B. La visita canonica
Della visita canonica si parla per la prima volta in occasione della riunione della commissione cardinalizia – ormai istituita anche dal Santo Padre – del 23 giugno 1974.
Nel novembre 1974 anche a mons. Lefèbvre viene annunciata l’esistenza di tale commissione. “Il 9 novembre – scrive mons. Lefèbvre – una lettera dalla nunziatura di Berna ci annunciava che una Commissione designata dal Papa […] ci inviava due visitatori apostolici […].
“Il lunedì 11 novembre alle 9 del mattino i due visitatori si presentarono. In tre giorni essi interrogarono dieci professori, venti dei 104 alunni e me. Partirono il 13 novembre alle 18 senza che nessun protocollo di Visita fosse firmato. Noi non abbiamo mai avuto la più piccola conoscenza della Relazione da loro fatta” (4).
Anche la relazione dei visitatori è ancora purtroppo inedita. Ma vi sono tutti gli elementi necessari per confermare la buona impressione raccolta da essi. La conferma direttamente, come riferisce mons. Lefèbvre, il card. Garrone, all’inizio del primo incontro romano: “Dopo avermi detto la buona impressione raccolta dai Visitatori Apostolici, non si è più trattato né il 13 febbraio né il 3 marzo della Fraternità e del Seminario“. La buona impressione è confermata direttamente, nella loro lettera del 6 maggio 1975, anche dai tre cardinali, che scrivono: “Noi sappiamo con quale generosa perseveranza voi avete lavorato, il bene che si è in tal modo compiuto“; parole in cui, non avendo mons. Lefèbvre altre attività se non la Fraternità e il seminario e non avendo egli lavorato ad altro, non si può non riconoscere un diretto accenno alla Fraternità e a Ecône, e, salvo forse “qualche perplessità“, alla favorevole impressione ricevuta dai visitatori.
Neppure dalla visita canonica, dunque, sono emerse ribellioni o tesi erronee. Soprattutto, esse non sono emerse già da “molto presto” dopo la fondazione.
C. Gli incontri con i tre cardinali
Il 25 gennaio 1975 il card. Garrone scrive, anche a nome dei cardinali Wright e Tabera, che sottoscrivono la lettera, a mons. Lefèbvre. Riferendosi alla visita apostolica, i cardinali assicurano mons. Lefèbvre di essergli “riconoscenti per avergli [al visitatore] facilitato il compimento della missione ricevuta dalla Santa Sede“, e solo gli esprimono il desiderio di incontrarlo il 13 febbraio a Roma, per “intrattenersi” con lui sui “punti che ci lasciano qualche perplessità, in seguito a tale visita“.
Gli incontri romani saranno poi due: il 13 febbraio e il 3 marzo. Ma invece che delle poche “perplessità” a cui accenna l’invito, e che erano forse tanto lievi da non meritare attenzione, non si parlò, nel corso dei due incontri, che della Dichiarazione di mons. Lefèbvre, che ancora il 25 gennaio non sembra essere tale da suscitare neppure “qualche perplessità” nei tre cardinali, che infatti non le riservano neppure un cenno nella lettera d’invito.
Anche il testo delle conversazioni svoltesi nei due incontri romani è ancora purtroppo quasi esclusivamente inedito. Le conversazioni, con il consenso di mons. Lefèbvre, furono registrate: il card. Garrone promise anzi, ma poi fece rifiutare a mons. Lefèbvre, sia una riproduzione dei nastri sia una loro trascrizione (5). Ma se non le ebbe mons. Lefèbvre, le ha avute, in compenso, la redazione del settimanale L’europeo, che infatti nel suo numero del 3 settembre 1976 ne riproduce un brano, relativo al secondo incontro (6).
Sappiamo dunque, sia per il brano reso noto sia per la testimonianza concorde tanto di mons. Lefèbvre quanto dei tre cardinali nella loro lettera del 6 maggio 1975 (7), che il tema pressoché esclusivo dei due incontri romani fu la Dichiarazione di mons. Lefèbvre del 21 novembre 1974.
3. La Dichiarazione di mons. Lefèbvre del 21 novembre 1974
“Con veemenza, il card. Garrone mi ha rimproverato – scrive mons. Lefèbvre nella sua relazione del 30 maggio 1975 – tale Dichiarazione, giungendo fino a trattarmi da “pazzo”, dicendomi che “facevo l’Atanasio” e questo per 25 minuti. Il card. Tabera rincarò, dicendomi che “ciò che voi fate è peggio di ciò che fanno tutti i progressisti”, che io “avevo rotto la comunione con la Chiesa”, ecc.
“[…] Ho tentato invano di formulare argomenti, spiegazioni che indicassero il senso esatto della mia Dichiarazione. Affermavo di rispettare e che avrei sempre rispettato il Papa e i vescovi, ma che non mi appariva evidente che criticare certi testi del Concilio e le riforme che ne sono seguite equivalesse a una rottura con la Chiesa […]. Ma nessun argomento era preso in considerazione. […] Nulla è stato fatto per aiutarmi a una soluzione amichevole. Nessuno scritto mi è stato dato per precisare le accuse, nessun monito scritto. Solo l’argomento di autorità accompagnato da minacce e da invettive mi è stato presentato per la durata delle cinque ore di incontri. […] Due incontri che hanno riguardato solo la mia Dichiarazione per condannarla totalmente senza riserva, senza sfumature, senza esame concreto e senza che mi fosse consegnato il più piccolo scritto […]”.
Non mi sembra illegittimo che mons. Lefèbvre si chieda allora: “Mi trovavo di fronte a interlocutori? O non piuttosto a giudici? Qual era la competenza di tale Commissione? Mi veniva detto soltanto che essa era designata dal Santo Padre e che sarebbe stato lui a giudicare. Era chiaro che tutto era già giudicato“.
A. Il Concilio
Si è voluto, da parte dei tre cardinali prima, e di una docile opinione poi, riconoscere nella Dichiarazione il manifesto di gravissimi errori e della ribellione contro il Papa e contro il Concilio.
Sono forse due i passi, contenuti nella Dichiarazione (8), che sembrò potessero prestarsi allo scopo.
Il primo è relativo al Concilio. Dopo aver proclamato: “Noi aderiamo con tutto il cuore, con tutta la nostra anima alla Roma cattolica, custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie alla preservazione di questa fede, alla Roma eterna, maestra di sapienza e di verità“, la Dichiarazione aggiunge: “Per contro noi rifiutiamo e abbiamo sempre rifiutato di seguire la Roma di tendenza neo-modernista e neo-protestante che si è manifestata chiaramente nel Concilio Vaticano II e dopo il Concilio in tutte le riforme che ne sono uscite. Tutte queste riforme, in realtà, hanno contribuito e contribuiscono ancora alla demolizione della Chiesa, alla rovina del Sacerdozio, all’annientamento del Sacrificio e dei sacramenti, alla scomparsa della vita religiosa, a un insegnamento naturalista e teilhardiano nelle Università, nei seminari, nella catechesi, insegnamento venuto dal liberalismo e dal protestantesimo condannati tante volte dal Magistero solenne della Chiesa“. E più avanti: “Questa Riforma, essendo venuta dal liberalismo, dal modernismo, è tutta intera avvelenata, viene dall’eresia e mette capo all’eresia, anche se tutti i suoi atti non sono formalmente eretici“.
Parlando della Dichiarazione, mons. Lefèbvre scrive che essa è stata “redatta, è vero, in un sentimento di indignazione, senza dubbio eccessiva” (9).
Era dunque possibile, secondo mons. Lefèbvre, che vi fosse eventualmente contenuta qualche espressione forse eccessiva. Quanto all’indignazione, mi sembra che non si possa negare che egli ne avesse motivo: durante la visita canonica – subito dopo la quale fu scritta la Dichiarazione – gli insegnanti e i seminaristi di Ecône, oltre che mons. Lefèbvre stesso, si trovarono di fronte due visitatori (i quali certamente rappresentavano, se non Roma, almeno una Roma) “che si permettevano di trovare pacifica e fatale l’ordinazione di uomini sposati, che non ammettevano una Verità immutabile, che formulavano dubbi sul modo tradizionale di concepire la Resurrezione“. È per questo, scrive poco sopra mons. Lefèbvre, che “decisi di precisare il mio pensiero davanti ai seminario. […] È questa l’origine della mia Dichiarazione, redatta, è vero, in un sentimento di indignazione, senza dubbio eccessiva“.
Ma mi chiedo: perché, se qualche espressione eventualmente eccessiva sembrò meritare agli occhi della Commissione precisazioni e rettifiche, la Commissione stessa respinse precisazioni e rettifiche quando esse furono espresse da mons. Lefèbvre nel corso dei due incontri romani?
Grazie al brano pubblicato da L’europeo, infatti, è possibile sapere che il 3 marzo mons. Lefèbvre, rispondendo al card. Garrone, precisò: “Non voglio dire che in tutte queste riforme non ci sia niente di positivo. Dico soltanto che vi si trovano aspetti modernisti e neomodernisti. Si tratta di una certa ispirazione …”. Mi chiedo ancora: quante altre precisazioni e rettifiche, eventualmente auspicabili, sono contenute nel testo inedito delle cinque ore di conversazioni, se tante ne sono accennate da mons. Lefèbvre nel modesto brano pubblicato? Mi chiedo anche se esse siano state tutte accolte meglio di come nel brano noto si può leggere: a mons. Lefèbvre, che sta precisando in che senso intenda le conseguenze negative della libertà accordata dalla riforma liturgica, così toglie bruscamente la parola il card. Garrone: “Non è affar mio né suo dare giudizi su queste questioni […]”.
Ma la risposta che non ha ancora avuto repliche fu data da mons. Lefèbvre quando il card. Garrone gli disse che era “inammissibile” che egli vedesse “nelle decisioni conciliari […] segni di neomodernismo“. Rispose mons. Lefèbvre: “Eppure ci sono libri che dicono le stesse cose, e anche meglio di quanto le dica io, ad esempio quelli di padre Rahner e del cardinale Suenens … Essi esprimono la loro soddisfazione nel vedere che il Concilio ha finalmente liberato la Chiesa da una certa tradizione […]”. A meno che non si voglia negare l’evidenza, è infatti noto che l’editoria cattolica non è certo avara di queste lodi per il Concilio, grazie al quale la Chiesa avrebbe finalmente accettato talune suggestioni che essa aveva condannato un tempo nel liberalismo e nel modernismo.
Perché dunque non dovrebbe essere lecito che mons. Lefèbvre affermi con pena ciò che tanti gridano, da anni, con trionfo?
B. Il Papa
L’altro passo che sembrò prestarsi allo scopo è relativo al Papa.
Dopo aver proclamato la propria fedeltà “alla Roma Cattolica, custode delle fede, […] alla Roma eterna, maestra di sapienza e di verità“, e dopo aver doverosamente rifiutato ogni e qualsiasi fedeltà a un’altra Roma, custode delle tendenze neo-moderniste e neo-protestanti che traspaiono in certi testi e in certe riforme conciliari e postconciliari, la Dichiarazione aggiunge: “Nessuna autorità, anche la più elevata nella gerarchia, può costringerci ad abbandonare o a diminuire la nostra fede cattolica chiaramente espressa e professata dal magistero della Chiesa da diciannove secoli. “Se accadesse – dice san Paolo – che NOI STESSI o un Angelo venuto dal cielo vi insegni cose diverse da ciò che vi ho insegnato, che egli sia anatema” (Gal. 1, 8). Non è ciò che ci ripete il Santo Padre oggi? E se una certa contraddizione si manifestasse nelle sue parole e nei suoi atti così come negli atti dei dicasteri, allora noi scegliamo ciò che è sempre stato insegnato e facciamo i sordi alle novità distruttrici della Chiesa“.
A beneficio, ancora, di chi avesse realmente desiderato precisazioni eventualmente auspicabili, mons. Lefèbvre, nella sua risposta pubblica a chi era sembrato auspicare una sua rottura con Roma, aveva scritto il 19 marzo 1975: “Sappiate che se un vescovo rompe con Roma non sarò io. La mia Dichiarazione lo dice molto esplicitamente e fortemente. […] San Paolo era, nello stesso tempo, “con” Pietro capo della Chiesa che al concilio di Gerusalemme aveva dato prescrizioni chiare, e “contro” Pietro che nella pratica agiva al contrario delle sue stesse istruzioni. Non siamo noi tentati di provare gli stessi sentimenti oggi, in numerose occasioni? […] Con il Papa Paolo VI noi denunciamo il neomodernismo, l’autodemolizione della Chiesa, il fumo di satana nella Chiesa, e in conseguenza rifiutiamo di cooperare alla distruzione della Chiesa mediante la propagazione del modernismo e del protestantesimo prendendo parte alle riforme che ne sono ispirate anche se esse ci vengono da Roma“.
Ma si è voluto riconoscere ugualmente la bandiera dell’errore e della ribellione nell’ipotizzata possibilità di “una certa contraddizione“.
Chiedo allora: chi ha mai insegnato, nella Chiesa, che non soltanto il Magistero pontificio sulla fede e la morale, ma anche gli atti (e non soltanto quelli pontifici, anche quelli dei dicasteri!) siano infallibili e impeccabili, così da non poter essere mai in contraddizione con le verità immutabili?
Ancora, dunque: né errori né ribellioni. Eppure, è questa la Dichiarazione che i tre cardinali indicheranno, nella loro lettera del 6 maggio 1975, come solo ed esclusivo elemento di accusa, con l’esclusione anche solo del sospetto di qualunque altro motivo, invitando chiunque a “non voler gratuitamente sospettare per le decisioni prese altri motivi che tale dichiarazione stessa“.
III. “SOPPRESSIONE” E “SOSPENSIONI”
Se tale è finora l’imperfezione dell’accusa, nell’edificio della condanna l’imperfezione si mostra assoluta, e tale da travolgere anche tutte le successive costruzioni poggianti sul nulla della prima: la “soppressione” della Fraternità.
1. La “soppressione” della Fraternità
Con lettera del 6 maggio 1975, da Friburgo, mons. Mamie annuncia a mons. Lefèbvre di aver deciso la “soppressione” della Fraternità, e conseguentemente del seminario di Ecône: “Vi informo dunque che ritiro gli atti e le concessioni effettuate dal mio predecessore in ciò che riguarda la Fraternità Sacerdotale San Pio X […]. […] Sono anche consapevole che questa decisione mette in causa tutto ciò che è previsto negli statuti della Fraternità. Questa decisione è immediatamente effettiva e ne informo, scrivendo oggi stesso, le istanze romane competenti […]”. Il card. Tabera per parte sua, scrivendo due settimane prima, il 25 aprile, a mons. Mamie, gli esprimeva anticipatamente la lode per la misura (la “soppressione”) a cui lo incoraggiava, dicendogli: “Vostra Eccellenza sa di possedere (“sait qu’Elle possède“) l’autorità necessaria per ritirare gli atti e le concessioni effettuate dal suo predecessore” (10).
Mons. Mamie decise dunque il 6 maggio di valersi della propria autorità e “soppresse” la Fraternità.
2. “Murem peperit autem”
Racconta Fedro l’aspettazione di tutta la terra per il parto imminente della montagna, che, dopo tanta gestazione, “murem peperit autem“. Così è della tela, intessuta già da “molto presto“, in cui dovevano impigliarsi mons. Lefèbvre, la Fraternità, il seminario di Ecône. Dopo tanta gestazione, non nacque che la “soppressione” decisa da mons. Mamie.
Nessuno, purtroppo, sembrava aver pensato all’esistenza del canone 493 del Codice di Diritto Canonico; e si era forse scambiata la Fraternità – a cui dalla Santa Sede era già stato concesso per iscritto in tre diverse occasioni di incardinare presso di sé sacerdoti provenienti da altre congregazioni – per una di quelle confraternitates o sodalitia fidelium di cui, nella parte De laicis del Codice, ai canoni 707-719, è questione. La Fraternità, invece, come ogni Societas clericalis virorum in commune viventium sine votis (cfr. i canoni 673-674 e 488, 3-4), “anche se di diritto solo diocesano, una volta legittimamente eretta […] non può essere soppressa se non dalla Santa Sede” (can. 493).
Quando ci si accorse del guaio e si pensò a rimediarlo, era ormai irrimediabilmente tardi. Non solo, infatti, la “soppressione” decisa da mons. Mamie era ormai scritta; essa, per la sua fretta di licenziare alle stampe il suo primo dossier, era inoltre ormai divulgata, ripetuta, commentata.
La nullità della “soppressione” era manifesta. Non solo la Fraternità non era stata soppressa dalla Santa Sede, ma mons. Mamie aveva pacificamente potuto rivendicare pubblicamente, per oltre un mese, la “soppressione” come opera sua, senza peraltro avere non solo mai esibito, ma neppure mai accennato a una qualsiasi eventuale delega formale di autorità o a un indulto scritto ottenuto dalla Santa Sede per “sopprimere” la Fraternità. La “soppressione”, letteralmente, non esisteva.
“Mons. Lefèbvre – così il Courrier de Rome sulle decisioni del 6 maggio 1975 – avrebbe dunque potuto continuare la sua opera […]; era il Suo diritto più rigoroso” (11).
3. La corsa ai ripari
Accortisi del guaio, si corse ai ripari; ma fu peggio. Invece di correggere, con l’eventuale pia fraus della inventio di una delega o di un indulto opportunamente datati che conferissero formalmente a mons. Mamie l’autorità che il Codice gli negava, si preferì rimediare all’irrimediabile “dimenticando” l’autore della decisione e trascinando a piccoli e rapidi passi la paternità della “soppressione” verso Roma. Finendo così per testimoniare che ci si era bene accorti anche a Roma, ora (e soprattutto da quando mons. Lefèbvre l’aveva segnalato nel suo ricorso alla Segnatura Apostolica), che mons. Mamie non aveva “l’autorità necessaria“.
Il 4 luglio i vescovi svizzeri riuniti a Einsielden davano pubblico inizio alla marcia di conversione: la “soppressione” da allora non sarà più, per loro, opera di mons. Mamie; si tratterà invece di “decisioni […] che emanano dalle più alte autorità romane” (12). L’importante correzione fu raccolta, diffusa e via via ulteriormente aggiustata.
Non sembrò bastare. Si giunse infatti, con la lettera del card. Villot del 27 ottobre 1975, fino a indicare “la decisione” nei tre punti contenuti nella lettera inviata dai tre cardinali il 6 maggio 1975 a mons. Lefèbvre; “e decisione senza appello perché ognuno dei suoi punti fu approvato in forma specifica dall’Autorità suprema“.
Anche in una lettera del 29 giugno 1975, pubblicata dal card. Villot come primo allegato alla sua lettera, è scritto che Sua Santità avrebbe, di tali punti, “personalmente ordinato […] l’entrata in vigore immediata“. A proposito di tale lettera, si è voluto far carico a mons. Lefèbvre di aver dubitato che fosse autentica. Ignoro i dubbi e i pensieri di mons. Lefèbvre. Ma mi chiedo a mia volta come si possa “ordinare che entrino immediatamente in vigore”: la previsione che una lettera sarà inviata; la comunicazione che tale previsione si è avverata; la segnalazione indiretta della possibilità futura della “soppressione”; la segnalazione delle sue possibili future implicazioni, qualora la “soppressione”, che la lettera presagita per prima si attende da altri, fosse realmente da altri deliberata! Tale è infatti il contenuto dei tre punti segnalati. Se tale lettera è autentica, Sua Santità era stata debitamente informata della natura dei punti – dai quali è assente qualunque formula dispositiva – di cui affermava di avere ordinato a suo tempo l’entrata in vigore immediata? Era stata debitamente informata che non Sua Santità stessa, ma mons. Mamie aveva già deliberato la “soppressione”, rivendicandola come sua e come “immediatamente effettiva“?
Ma da Roma stessa era venuto il colpo di grazia per la tesi della paternità romana della “soppressione”: rispondendo il 31 maggio 1975 a mons. Mamie – che il 6 maggio aveva informato della “soppressione” avvenuta “le istanze romane competenti” – il card. Tabera scrive le testuali parole: “[…] a proposito della vostra recente decisione concernente la Fraternità Sacerdotale San Pio X di cui la S. Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari ha avuto conoscenza […]”. Neppure il card. Tabera era informato di chi realmente avesse preso tale decisione?
Nessuna soppressione, dunque.
Non posso quindi concludere se non con le parole con cui il citato Courrier de Rome concludeva, nel luglio 1975, il suo breve esame della “soppressione”: “Per ciò stesso, si può affermare che NON È SUCCESSO ASSOLUTAMENTE NULLA e che il seminario di Ecône può continuare con tutti i suoi privilegi di Istituto; si ha il diritto di appoggiarlo; si ha il diritto di inviare offerte al suo Superiore; i seminaristi possono continuare a occupare i suoi locali e continuare a prepararsi a essere sacerdoti secondo i metodi tradizionali“.
4. Le “sospensioni” di mons. Lefèbvre
Al resto della vicenda può ora bastare anche soltanto qualche rapido cenno, non constando, secondo gli stessi accusatori, se non di “ribellioni” alla già decisa “soppressione”. Ma non essendovi stata alcuna “soppressione”, non si vede come si possa tenere per ribelle chi tiene per nullo un atto tanto manifestamente nullo.
Ma se non vi furono né soppressione né ribellioni, in che senso furono indebite le ordinazioni del 29 giugno 1976, il cui conferimento avrebbe poi motivato le successive “sospensioni”? E in che senso, prima della soppressione”, tali ordinazioni non sarebbero state indebite?
Prima della “soppressione”, si risponderà forse, le ordinazioni non erano indebite perché gli ordinandi erano provvisti delle necessarie lettere dimissorie da parte dei vescovi che accettavano di incardinarli presso le proprie diocesi, oppure di altro valido titolo canonico.
Dunque, non essendo stata soppressa la Fraternità, se gli ordinandi erano il 29 giugno in possesso delle necessarie lettere dimissorie o di altro valido titolo canonico, tali ordinazioni non erano indebite. Né si potrebbe accusare mons. Lefèbvre di aver violato il Codice o di aver disobbedito al precetto comunicatogli da Sua Santità, e ricordato da Sua Santità stessa pubblicamente il 29 agosto 1976, di astenersi “dal conferimento indebito di ordinazioni sacre” (13).
Ma sembra, si replicherà, che gli ordinandi fossero privi di tali lettere dimissorie, o di altro valido titolo canonico, come sembra constare al portavoce della sala-stampa vaticana, che lo dichiarò il 1º luglio 1976.
È questo l’ultimo punto che merita di essere accennato. Infatti, per la testimonianza stessa di mons. Mamie (14), come per le parole del portavoce della sala-stampa vaticana, consta non che il 29 giugno gli ordinandi fossero privi di tali lettere o di tali titoli, ma soltanto consta che mons. Mamie ignorava quali vescovi potessero averli concessi! La differenza non è lieve. Il portavoce della sala-stampa vaticana, poi, afferma apertis verbis che vi è solo l’ipotesi e il dubbio che gli ordinandi siano privi dei validi titoli canonici per l’ordinazione, e soltanto in dipendenza da tale ipotesi enuncia la possibile pena della sospensione di mons. Lefèbvre per un anno dal conferimento degli ordini.
Per parte mia, in relazione a quest’ultimo punto, non credo che si possa rimproverare a mons. Lefèbvre la discrezione con la quale egli copre il nome dei vescovi che gli concedono le necessarie lettere dimissorie e i validi titoli canonici che fanno lecite e debite le ordinazioni che egli conferisce.
5. L’imperfezione del nodo
Che cosa dunque rimane del nodo inestricabile?
Perché si può affermare che la Fraternità non è stata soppressa? Perché la soppressione non è stata effettuata da chi poteva farlo, la Santa Sede, ed è stata invece “decisa”, con atto manifestamente nullo, da mons. Mamie, che non ne aveva l’autorità necessaria.
Perché non furono indebite le ordinazioni del 29 giugno 1976? Perché e nella misura in cui gli ordinandi provvisti dei validi titoli canonici necessari per esser ordinati; ed è per questo che, non avendo proceduto a “indebite ordinazioni”, mons. Lefèbvre né ha violato il Codice né ha violato il precetto pontificio che gli ingiungeva di astenersi da indebite ordinazioni.
Ma se la Fraternità non è stata soppressa, se non furono indebite le ordinazioni, di quale natura è il reato che il decreto della S. Congregazione per i Vescovi (anche nell’ipotesi della validità di un tale decreto, qualora debitamente sottoscritto dal Prefetto della Congregazione stessa), intese il 22 luglio 1976 punire con la sospensione a divinis?
A quest’ultima domanda, sarei vivamente grato che qualcuno mi aiutasse a rispondere.
AGOSTINO SANFRATELLO
NOTE:
(1) Cfr. JEAN CARD. VILLOT, Lettre du card. Villot aux conférences épiscopales, in Itinéraires, Parigi febbraio 1976, n. 200, p. 139-146. A tale lettera, datata 25 ottobre 1975, sono allegate due lettere indirizzate, il 29 giugno 1975 e l’8 Settembre 1975, da Paolo VI a mons. Lefèbvre, e la lettera indirizzata il 24 settembre 1975 da mons. Lefèbvre a Paolo VI. Cfr. anche La documentation catholique, Parigi 4 gennaio 1976, anno 58º, n. 1689, pp. 32-34. A questa stessa lettera del card. Villot appartengono le citazioni immediatamente successive.
Per tutti i documenti concernenti la vicenda di mons. Lefèbvre, cfr. soprattutto i nn. 193 (maggio 1975), 195 (luglio-agosto 1975), 196 (settembre-ottobre 1975), 198 (dicembre 1975), 200 (febbraio 1976) e 202 (aprile 1976) di Itinéraires; cfr. anche i nn. 1679 (6 luglio 1975), 1681 (3-17 agosto 1975), 1689 (4 gennaio 1976), 1703 (1-15 agosto 1976) e 1704 (5-19 settembre 1976) de La documentation catholique.
Le citazioni e i documenti di cui non sarà necessario in questa sede dare esauriente riferimento in nota, possono essere reperiti, sulla scorta della data del documento indicata nel testo, nelle raccolte qui citate.
(2) I tre dossiers di mons. Mamie sono contenuti nei nn. 1679, 1689 e 1703 de La documentation catholique.
(3) MONS. MARCEL LEFÈVBRE, Interview [15 gennaio 1976], in Itinéraires, n. 202, cit., p. 140.
(4) ID., Relation – 30 mai 1975 – sur la manière dont la “commission des trois cardinaux” a procédé pour aboutir à la décision de supprimer la Fraternité Sacerdotale Saint Pie X et son séminaire, in Itinéraires, n. 195, cit., p. 137.
(5) Se non si vuole addossare al solo card. Garrone l’intera responsabilità di tali inammissibili procedimenti basterà supporre che qualcuno lo abbia costretto a rimangiarsi in modo tanto umiliante la parola data vietandogli di consegnare prima la riproduzione e poi anche la trascrizione. Cfr., sull’incresciosa vicenda, la Relation di mons. Lefèbvre, cit. alla nota precedente, pp. 138-139.
(6) È dunque evidente che qualcuno seppe pur fare la dovuta distinzione tra un mons. Lefèbvre e un redattore de L’europeo, e riconoscere infine che di avere una copia, quest’ultimo, aveva ben diritto, che era più che giusto!
(7) Cfr. Itinéraires, n 195, cit., p. 123: “È a proposito della vostra Dichiarazione pubblica, nella rivista Itinéraires, che i nostri incontri si sono principalmente avviati e hanno proseguito“.
(8) MONS. MARCEL LEFÈBVRE, La déclaration du 21 novembre 1974, in Itinéraires, n. 195 pp. 118-119.
(9) IDEM, Relation ecc., cit., p. 138.
(10) Sia la lettera del card. Tabera che quella di mons. Mamie sono pubblicate, con altre, da mons. Mamie nel suo primo dossier.
(11) Courrier de Rome, Parigi luglio 1975, anno 9º, n. 146, p. 2.
(12) Déclaration des évêques Suisse, in La documentation catholique, n. 1681, cit., p. 739.
(13) Cfr. L’Osservatore romano, 30-31 agosto 1976.
(14) Cfr. la lettera di mons. Mamie del 23 giugno 1976 a mons. Lefèbvre in cui è detto tra l’altro: “Ignoro a quale titolo legittimo questo candidato [l’abbé Denis Roch] potrebbe essere ordinato“; e quella dello stesso mons. Mamie del 26 maggio 1976 all’abbé Denis Roch: “Non vedo come un vescovo in comunione con il Papa abbia potuto darvi lettere dimissorie, o a quale altro titolo legittimo voi potreste ricevere questa ordinazione“.
Entrambe le lettere, contenute nel terzo dossier di mons. Mamie, in La documentation catholique, n. 1703, cit., pp. 713-714.