Alfredo Mantovano, Cristianità n. 384 (2017)
Europa: vincere la crisi di identità
Relazione, rivista e annotata, tenuta in occasione del Capitolo generale di Alleanza Cattolica, svoltosi a Roma l’11 e il 12 febbraio 2017.
Venerdì 3 febbraio 2017. Il Corriere della Sera pubblica un’intervista a un importante esponente delle istituzioni europee. La prima domanda è scontata: alla luce della «Brexit», dell’elezione di Donald John Trump, della crisi dei migranti, delle posizioni della Russia di Putin, del terrorismo e di ISIS, che «cosa la preoccupa di più?». La risposta è chiara e immediata: «la mancanza di fiducia in noi stessi. I nostri partner internazionali […] continuano a dirmi che noi europei non ci rendiamo conto della nostra potenza. […] siamo noi a non capire la nostra forza. […] la nostra salute fisica è perfetta, ma siamo labili di nervi, una vera crisi di identità, di mancanza di consapevolezza. Se non conosci la tua forza, rischi di non usarla e ciò potrebbe alla lunga minare le basi della nostra potenza».
Pronuncia queste parole non un euroscettico, non Nigel Paul Farage, Geert Wilders, Viktor Orbán, o Marine Le Pen, ma Federica Mogherini, alto rappresentante dell’Unione Europea (UE) per gli affari esteri e la politica di sicurezza, una delle cariche più significative della Commissione Europea. Questa dichiarazione giunge poche settimane prima della ricorrenza dei sessant’anni dei Trattati di Roma — celebrati nella capitale italiana il 25 marzo 2017 —, dai quali ha preso forma l’attuale UE. È una diagnosi drammaticamente vera: perché è vero che l’Europa ha al proprio interno ricchezze di ogni tipo, finanziarie, economiche e culturali, e potenzialità come nessun altro continente al mondo. Ma è altrettanto vero che se sei «labile di nervi» e vivi «una vera crisi di identità, di mancanza di consapevolezza», di quella ricchezza non sai che cosa fartene.
1. Crisi di nervi e di identità: sintomi ed effetti
Se non hai i nervi saldi e non sei consapevole della tua identità:
— non sei grado di adottare le politiche più adeguate per affrontare il terrorismo: vivi alla giornata, fai prevalere sul contrasto serio al terrorismo beni che ritieni più importanti, come la privacy, e vivi con crescente assuefazione gli attacchi che vengono sferrati sul tuo territorio, da Nizza a Berlino, da Londra a Stoccolma, quasi una rassegnata routine;
— vai in paranoia, com’è accaduto nell’estate 2015, quando la Turchia fa uscire appena il 15 per cento dei profughi che in quel momento tratteneva nei propri confini. E tu, colosso con più di mezzo miliardo di abitanti — per limitarci alla sommatoria dei cittadini degli Stati che compongono l’UE, non di tutti gli Stati geograficamente collocati in Europa —, entri in crisi per appena 350.000 migranti, che non riesci poi neanche a ripartire in modo proporzionato sul tuo territorio. Quando il piccolo Libano, con circa quattro milioni e mezzo di abitanti, ha accolto negli ultimi cinque anni oltre un milione di profughi;
— in momenti di crisi non hai più un quadro d’insieme e cerchi di salvare il salvabile. È singolare che le settimane antecedenti la ricorrenza del 25 marzo siano state attraversate dal dibattito, riavviato dal cancelliere tedesco Angela Merkel, sull’Europa a due velocità. Le due velocità all’interno dell’UE ci sono sempre state e ci sono ancora: non tutti gli Stati dell’Unione aderiscono al Trattato di Schengen e non in tutti gli Stati dell’Unione l’euro è la moneta corrente; ma è singolare che la proposta di formalizzare questo status quo sia stata rilanciata dalla Germania, cioè dal Paese che finora ha condizionato la maggior parte delle regole all’intera UE;
— non guardi al futuro con speranza, e quindi non metti al mondo figli. Prima ancora che per il terrorismo, per i migranti, per la volatilità dei mercati finanziari, la crisi dell’Europa è demografica, con tratti particolarmente preoccupanti per Stati come l’Italia. «A chi governa compete discernere le strade della speranza», ha ricordato Papa Francesco nel discorso ai capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, pronunciato proprio in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, il 24 marzo 2017 (1).
Su queste e su altre voci importanti, i nervi labili e l’occultamento dell’identità provocano decisioni contraddittorie, dagli effetti inaccettabili. L’UE e singoli Stati membri dell’Unione hanno criticato il neo-presidente degli Stati Uniti d’America (USA) Donald Trump per l’adozione dei decreti sull’immigrazione che hanno caratterizzato l’avvio del suo mandato. Non vi è dubbio che si sia trattato di provvedimenti in parte maldestri (2) e in parte mal comunicati, ma comunque dichiaratamente temporanei e in linea di continuità, variando solo qualche dettaglio, con le precedenti amministrazioni statunitensi, senza che nessuno in Europa in passato si fosse risentito. Il muro fra USA e Messico è già stato realizzato per un terzo su ordine dei predecessori di Trump: Barack Hussein Obama — come Trump — ha ogni anno fissato un limite massimo degli ingressi di migranti e di rifugiati; egli stesso ha disposto durante il proprio mandato centinaia di migliaia di espulsioni di irregolari.
L’Europa che ha criticato Trump sull’immigrazione è la stessa Europa che nel marzo 2016 ha sottoscritto un accordo con la Turchia, in virtù del quale quest’ultima è qualificata «Stato terzo sicuro», e riprende nei propri confini migranti che sono riusciti a oltrepassare il confine e che la Grecia le riconsegna: una qualifica che non è venuta meno dopo il luglio del 2016, e cioè a partire dalla dura repressione che il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha avviato contro gli oppositori interni e le minoranze, in primis quella curda. Mutando scenario, ma restando sul terreno delle contraddizioni, l’UE che critica Trump perché propone la revisione degli accordi commerciali internazionali, con ciò violando la libertà economica e la concorrenza, è la medesima Unione che non rispetta l’accordo con gli USA sull’importazione delle carni, che a sua volta ha costretto gli allevatori americani di animali le cui carni sono destinate all’export in Europa a cospicui investimenti per rientrare nei parametri richiesti dall’UE. Ed è la medesima Europa che impone il bail-in — cioè il coinvolgimento dei correntisti nel salvataggio, con i propri soldi, della propria banca in gravi difficoltà finanziarie —, con ulteriore penalizzazione del risparmiatore, in spregio al criterio di responsabilità.
2. L’incapacità strutturale dell’UE di operare scelte politiche
Il quesito da porsi è il seguente: ci limitiamo alla diagnosi o proviamo a capire perché siamo giunti a ciò, e soprattutto tentiamo di studiare quali sono le possibili vie di uscita? Chiunque abbia a cuore le sorti dell’Europa è chiamato a farsi queste domande: non sono un interesse esclusivo dei cattolici. Ma dobbiamo interrogarci soprattutto noi cattolici, perché rispetto alla ricchezza dell’Europa, che esiste ed è notevole, dalla nostra abbiamo in più la consapevolezza che questo sub-continente geografico dell’Asia non sarebbe diventato quel che è stato nel corso della storia senza il cristianesimo. Siamo confortati in ciò dal Magistero della Chiesa, che spiega da decenni le ragioni della crisi dell’Europa, con documenti chiari e illuminanti. Come uscirne? Non accontentandoci di assistere alla sterile dialettica che vede contrapposti da un lato i difensori «a prescindere» dei trattati comunitari e della loro applicazione — un personaggio in tal senso significativo è il candidato alle elezioni presidenziali francesi Emmanuel Macron —, e dall’altro lato i ripetitori di slogan tanto altisonanti quanto distanti dalla complessità del reale.
Capire come muoversi nel contesto europeo di oggi significa anzitutto constatare che le istituzioni europee hanno forti limiti strutturali: primo fra tutti, lo scarso peso della politica nelle decisioni. Vi è una difficoltà non occasionale ad adottare decisioni che abbiano rilievo politico, che cioè siano esito di scelte maturate in ciascun singolo Stato nel confronto con il popolo di riferimento, e solo dopo portate alla definizione con gli altri Stati in sede europea. Nell’esperienza che ho compiuto nel governo italiano, dal 2001 al 2006 e poi dal 2008 al 2011, mi è capitato più volte di sostituire il ministro dell’Interno al Consiglio dei ministri cosiddetto GAI, il Consiglio Giustizia e Affari interni. È noto che il Consiglio europeo dei ministri — sia quello dei primi ministri sia quelli di settore, come Ecofin, GAI e così via — elabora e approva norme, che hanno vigore nel territorio dell’UE, e concorda l’azione europea di governo nel settore di riferimento. All’inizio ho vissuto la stagione dell’Unione che aveva ancora 15 Stati membri, e già allora l’elaborazione delle decisioni presentava dei problemi. Nel 2011 l’Europa ha raggiunto la quota di 28 Stati membri: il confronto politico era materialmente impossibile, poiché ogni giro di tavolo prevedeva interventi non superiori a tre minuti a testa, pur su questioni importanti e controverse. Il quadro è reso ancora più complicato dal vigore — allora come ora — del criterio della unanimità, in virtù del quale Malta o Cipro o il Lussemburgo sono in grado di paralizzare l’intera Unione in caso di disaccordo. L’effetto di tutto ciò è che quelle sedi non offrono né le condizioni né il tempo materiale per confrontare le rispettive posizioni e per far emergere ed elaborare le scelte politiche, se necessario anche a seguito di uno scontro duro: con il risultato che in genere vengono approvate piattaforme predefinite nelle sedi tecniche. Ergo, la scelta effettiva viene operata in larga parte dalle burocrazie europee, che hanno modalità di cooptazione, luoghi di formazione e codici culturali certamente ostili all’identità europea, non senza collegamenti stabili con le principali lobby presenti e operanti a Bruxelles, ma distanti dal sentire dei popoli. Non si manifesta alcuna consapevolezza del fatto che, come ha affermato il Pontefice nella circostanza prima ricordata, «l’Europa è una famiglia di popoli e — come in ogni buona famiglia — ci sono suscettibilità differenti», e non è invece «un insieme di regole da osservare, […] un prontuario di protocolli e procedure da seguire» (3).
Se mancano le occasioni e i tempi per un confronto politico vero fra i 28 — oggi 27 con la «Brexit», ma domani potranno superare i 30, se si considerano i cinque Paesi candidati ufficiali all’ingresso nella UE e i due potenziali —, può accadere che ci si acquieti su documenti generici preparati dai tecnici: così generici che non forniscono alcuna reale soluzione alle questioni di volta in volta sottoposte all’esame. Si pensi alla quantità di Consigli europei dei ministri o dei primi ministri dedicati all’immigrazione e ai risultati deludenti, inversamente proporzionali al loro numero e alla quantità di tempo e di risorse impegnate. Può accadere pure che le opzioni politiche siano preparate non già dai burocrati, bensì da direttori ristretti — talora riemerge quello fra Germania e Francia — e poi siano proposte/imposte agli altri partner: ma ciò genera insoddisfazione fra coloro che restano esclusi dal primo livello. Può accadere, infine, che i provvedimenti degli organismi europei si limitino nella sostanza a recepire quanto stabilito da organismi non rappresentativi, quali il Fondo Monetario Internazionale, o la Banca Centrale Europea, o le due Corti europee, quella di Giustizia e quella dei Diritti dell’Uomo. In tal caso, l’insoddisfazione si estende dai governi dei singoli Stati, che si sentono posti ai margini, ai popoli, destinatari di scelte che non rappresentano le soluzioni ai loro problemi. I cosiddetti «populismi» costituiscono reazioni, talora sbagliate nel merito, quasi sempre inadeguate, all’assenza di opzioni politiche di fronte a reali emergenze quotidiane.
La dinamica è semplice: se, per fare un esempio fra i tanti, il cittadino europeo non possiede gli strumenti per manifestare contrarietà verso una sentenza — o una serie di sentenze — della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, scavalcando le volontà di singoli popoli e dei Parlamenti che li rappresentano, colloca i desideri al posto dei diritti, quella volta in cui gli viene concessa la possibilità di votare, a prescindere dal merito, utilizza la scheda per allontanarsi il più possibile dall’orientamento egemone che percepisce come una imposizione. In questo meccanismo di rifiuto vi è parte della «Brexit», vi è il successo mancato per poco del referendum sull’immigrazione in Ungheria, vi è la parziale spiegazione dell’ampia vittoria del «no» al referendum costituzionale in Italia, vi è l’avanzata dei partiti che vengono qualificati «populisti». Chi orienta il proprio voto in tali direzioni non è detto che condivida le posizioni assunte da questi ultimi, ma sicuramente intende mandare un segnale a un’Europa «labile di nervi» e «in crisi di identità».
3. «Populismi»: reazioni inadeguate a insoddisfazioni vere
La risposta non può essere la demonizzazione della reazione: deve essere l’approfondimento delle sue cause. Oggi l’etichetta «populista» viene usata come avveniva quarant’anni fa con l’etichetta «fascista»: negli anni 1970 e 1980 nella gran parte dei casi era bollato come «fascista» non il nostalgico del Ventennio mussoliniano, bensì chiunque non fosse in linea con il Progresso. Arbitro di decidere chi fosse allineato con la Storia oppure no era sul piano politico il vertice del PCI, il Partito Comunista Italiano, sul piano culturale l’élite a esso omogenea. Oggi i soggetti che rilasciano la patente di «populismo» sono altri, ma non cambia l’automatismo: era un errore quello, è un errore questo. Il cosiddetto «populismo» non è peraltro il regno dell’antipolitica; spesso è, al contrario, una domanda d’intervento della politica: posta in modo rozzo, non articolato, ma di maggiore, non di minore assunzione di responsabilità politica. È la richiesta rivolta con rabbia alle classi dirigenti perché scelgano e non si limitino — quando va bene — alla mera gestione o all’amministrazione.
E come negli anni 1970 e 1980 la qualifica di «fascista» è stata progressivamente estesa a ogni tipo di opposizione al Progresso e ai suoi miti, oggi si assiste a una sorta di dilatazione del riqualificato marchio d’infamia: in un primo momento erano «populisti» i movimenti provenienti o dall’estrema destra o dall’estrema sinistra che accettavano il gioco della democrazia, misurandosi con il voto. In un secondo momento «populisti» sono diventati i movimenti la cui caratteristica è far leva sul popolo per polemizzare contro le scelte antipopolari delle élite. Oggi la critica contro il populismo è diventata critica nei confronti del popolo tout court: leggendo le dichiarazioni di personaggi autorevoli delle istituzioni dell’UE e di chi fa loro eco in Italia, la sintesi che se ne ricava è che riferirsi troppo al popolo è sbagliato, perché fa correre il rischio che il popolo non avalli quello che sta bene alle élite. L’ex premier britannico David William Cameron è stato costretto a dimettersi perché ha fatto l’errore di consultare il popolo: ha indetto un referendum che pensava di vincere e invece lo ha perso. Un destino analogo ha conosciuto il precedente presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi con il referendum costituzionale. Altrettanto sbagliato è contrapporre il popolo da una parte e «quelli che sanno» dall’altra. È sbagliato perché «quelli che sanno» alla fine «sanno» come fare quello che la politica decide di fare: ma la politica ha il dovere di decidere, non può delegare a loro. Se la politica non decide è una tragedia.
Abbiamo il dovere di riflettere sui meccanismi di intralcio — appena riassunti — all’assunzione delle responsabilità politiche, che a loro volta si intrecciano con convinzioni sbagliate, diffuse nelle classi dirigenti delle istituzioni europee. Queste convinzioni vanno conosciute, analizzate e contrastate non con slogan e urla, ma con idee e proposte tanto alternative quanto coerenti con l’identità europea. Un esempio di convinzione errata diffusa fra le élite europeiste? Quella secondo cui la crisi demografica del continente si affronta non riprendendo a procreare figli, e quindi sacrificandosi come famiglie ma anche contando su condizioni favorevoli in tale direzione, bensì ricorrendo all’immigrazione. Quest’ultima metterebbe a disposizione un «popolo di ricambio», con maggiori energie fisiche, pronto a fare per noi e al nostro posto i lavori più umili, e magari anche a pagarci le pensioni con i contributi che versa. La realtà ci ha dimostrato che non va esattamente così: pur se cantiamo le lodi del multiculturalismo, i popoli non risultano facilmente intercambiabili. Altro esempio di convinzione errata diffusa fra le élite europeiste? Quella secondo cui il mercato libero e senza freni manifesta virtù salvifiche: ma se il costo del lavoro in Cina o in India è pari a un cinquantesimo di quello medio europeo, l’assenza di regole provoca la dannazione, non la salvezza delle aziende europee. Ulteriore esempio, coerente con la deregulation: quello secondo cui le banche che raccolgono il risparmio non devono avere ostacoli nella speculazione finanziaria. Ci si vorrebbe convincere che adesso il bail-in in qualche modo salvaguarda: il bail-in è un rimedio peggiore del male, perché pone i costi della speculazione a carico del risparmiatore e non dello speculatore.
Su questi, come sui temi collegati, chi all’interno della Chiesa ha la vocazione del laico si trova a metà strada fra i princìpi della dottrina sociale cristiana, da studiare nella consapevolezza che tuttavia non forniscono le soluzioni di dettaglio, e la realtà che sollecita a declinare quei princìpi in concreto e con responsabilità.
4. Crisi di nervi e di identità in Italia
Finora si è accennato soltanto all’Europa. Vale la pena spendere qualche parola sull’Italia, che s’inserisce in questo contesto, accentuando alcuni dati negativi. Siamo lo Stato che in Europa:
— ha l’indice di natalità più basso in assoluto. Nel 2016 nel nostro Paese si sono registrate (limitandosi alle migliaia) 474.000 nascite e 608.000 morti; lo sbilancio è di meno 134.000: con «entrate» e «uscite» del genere qualsiasi azienda fallirebbe. Non vi sono stati così pochi nuovi nati nemmeno alla fine della Prima Guerra Mondiale (nel 1918 furono 676.000) e della Seconda Guerra Mondiale (nel 1945 furono 821.000): eppure in entrambi i casi gli uomini erano sui campi di battaglia e la popolazione complessiva era notevolmente inferiore a quella attuale. Sempre nel 2016 il tasso di fecondità è stato di 1,34 figli per donna in età fertile, che scende a 1,27 per le italiane (è leggermente più elevato per le straniere). Sappiamo che ciò ha tempi lunghi di recupero, sempre che si inizi un percorso virtuoso, più aperto all’accoglienza della vita nascente. Il quadro è ancora più preoccupante se si considera che il 22,3 per cento della popolazione, pari a 13,5 milioni di persone, ha più di 65 anni;
— ha l’indebitamento pubblico più elevato, pari oggi al 133 per cento del prodotto interno lordo, con conseguenze perverse in termini di quantità di risorse da impiegare esclusivamente per i pagamenti degli interessi;
— ha uno dei tassi di disoccupazione più elevati in assoluto: l’11,9 per cento al dicembre 2016;
— ha il territorio geograficamente molto più esposto di altri sul fronte dell’immigrazione. Se non cambia nulla, quello che abbiamo visto finora sarà semplicemente l’introduzione a un libro che rischia di essere lunghissimo e pesante;
— ha permesso nell’ultimo quarto di secolo il trasferimento altrove della proprietà e del management di asset imprenditoriali italiani, che avevano un grande rilievo per la nostra economia. Dopo lo statalismo in economia, egemone fino all’inizio degli anni 1980, le privatizzazioni hanno condotto al depauperamento del nostro patrimonio economico: dall’estero si è realizzato una sorta di shopping non dei nostri prodotti — che avrebbe fatto bene alla bilancia dei pagamenti — ma delle nostre aziende;
— ha in anni recenti affievolito il suo peso sullo scenario internazionale. Dopo momenti nei quali questo peso si è fatto sentire (4), dall’inizio del decennio in corso il profilo internazionale dell’Italia è calato sempre di più. Il momento di svolta è individuabile nel conflitto con la Libia del 2011, quando il nostro Paese, partecipando alla coalizione contro il regime di Mu’ammar Gheddafi (1942-2011), è — se così si può dire — entrato in guerra contro sé stesso, dal momento che sia gli interessi di approvvigionamento energetico sia il controllo dei flussi migratori avrebbero imposto una scelta contraria. Da quel momento l’Italia ha ripreso ad andare a ruota di altri, con una posizione sempre più ininfluente sui dossier di maggior rilievo. In quest’ottica le polemiche con le istituzioni UE del precedente presidente del Consiglio Matteo Renzi, accentuate negli ultimi mesi della sua esperienza di governo, sono rimaste a un livello meramente verbale e non si sono mai tradotte in una trattativa più serrata con i principali partner dell’UE sulle voci controverse. Uno studio condotto dal Centro studi VoteWatch Europe con sede a Bruxelles, rielaborati dal Partito Popolare Europeo (5), ha mostrato come l’Italia sia stato fra i pochissimi Stati UE che fra il 2014 e il 2016 (il governo Renzi è nato il 21 febbraio del 2014) non si è mai opposto o astenuto durante un voto in Consiglio: su 148 voti che si sono tenuti nei vari Consigli europei dei ministri fra il 1° luglio 2014 e il 31 maggio 2016, l’Italia ha votato «sì» 148 volte su 148 scrutini. Non ha mai votato «no», né mai si è astenuta. Solo altri due paesi hanno lo stesso record: la Lituania e la Lettonia. Perfino la Germania ha votato due volte contro un provvedimento e tre volte si è astenuta; l’Olanda ha votato 7 volte contro e 5 volte si è astenuta; l’Austria ha votato contro 5 volte e si è astenuta 4 volte; per non parlare del Regno Unito, 12 voti contrari e 12 astensioni.
Il rischio che l’Italia corre è che a quello che è stato lo shopping da oltreconfine delle proprie aziende si aggiunga oggi lo shopping di quel che resta della nostra rappresentanza politica, o quanto meno che verso di essa si realizzi una sorta di franchising. La scelta del governo italiano di riconoscere come legittimo in Libia esclusivamente il governo di Fayez al-Seraj, che controlla un minuscolo territorio corrispondente a una parte di Tripoli, è stata fortemente condizionata dall’amministrazione di Barack Obama e dall’ONU. È una scelta contraria agli interessi nazionali dell’Italia: sia perché molti terminali dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) si trovano in aree controllate dal governo del generale Khalifa Haftar e da altri soggetti ostili a Seraj, nessuno dei quali ha preso bene il rapporto privilegiato con lo stesso Seraj, sia perché la ridotta area di riferimento del suo esecutivo non fornisce alcuna garanzia di freno dei flussi dei migranti in partenza dalle coste libiche. La politica italiana è oggi realmente debole, al di là degli schieramenti, con un abbassamento di qualità che tuttavia non appare un’esclusiva della politica: interessa le articolazioni istituzionali più significative, dai prefetti ai magistrati, dalle università alla pubblica amministrazione.
L’abbassamento del livello fa riferimento alla professionalità, ma pure alla tensione morale, e quindi ad assenza di iniziativa, a presa di distanza dai problemi, a indolenza.
5. Una riforma costituzionale «vera», formato famiglia
Non manca tuttavia qualche segnale di vitalità nel corpo sociale. Per esempio, la reazione che ha condotto alla vittoria del «no» nel referendum costituzionale. Lo spiegamento di forze a sostegno del «sì» è stato impressionante, fra investimenti propagandistici, pressione mediatica, endorsement provenienti dai potenti del mondo; mentre il fronte del «no» si è presentato frammentato, diviso, talora inadeguato. E però quest’ultimo ha vinto: il 60 per cento conseguito dai «no» non si spiega con la mera sommatoria dei simpatizzanti di MoVimento 5 Stelle, Lega Nord, di una parte di Forza Italia e della minoranza del Partito Democratico. Vi sono ulteriori addendi, non ultimo quello di tante famiglie italiane che non si sono sentite rappresentate e che hanno scelto quella forma di protesta.
Il quesito è che cosa se ne fa di questa vittoria — se pure in quota parte — quella fascia consistente di elettorato cattolico italiano che si è schierata per il «no»? Come «capitalizza» il successo? A quella fascia di persone — quantificabile fra i due e i quattro milioni di votanti, non proprio un dettaglio — che a grandi linee ha condiviso le nostre ragioni per il «no» diciamo che è stato bello incontrarsi fino al 4 dicembre 2016, ma che tutto si è concluso con l’archiviazione di una cattiva riforma costituzionale? O è il caso invece di non disperdere la potenzialità espressa, per non riprodurre quell’errore che, secondo l’on. Mogherini, l’Europa compie a proposito di sé stessa: non avere più fiducia in sé e non comprendere di essere ancora una forza come mondo cattolico, inferiore rispetto al passato, ma non irrilevante e neanche ininfluente? «Capitalizzare» il voto del 4 dicembre 2016 significa anzitutto dare continuità ai ragionamenti che abbiamo sviluppato durante la campagna referendaria: durante la quale le ragioni a sostegno del «no» non erano all’insegna della difesa della «Costituzione più bella del mondo». Noi abbiamo affermato che «quella» riforma della Costituzione aveva un carattere peggiorativo, non che — a settant’anni dal suo varo — la nostra Carta fondamentale non abbia necessità di un robusto restyling. Una volta scongiurato il pericolo di una modifica in pejus, va illustrata qual è la riforma che preferiamo: è il momento di lanciare una campagna culturale e politica in questa direzione. Le ragioni di un intervento di «manutenzione» della Costituzione sono più d’una:
a. nel 1948 le istituzioni europee non esistevano neanche in nuce. Oggi larga parte delle norme che disciplinano la nostra vita quotidiana è di provenienza comunitaria. Nella Costituzione italiana vi è appena un cenno alle disposizioni europee, all’articolo 117 (6), ma l’intero impianto nella sostanza non tiene conto dell’esistenza di un ordinamento europeo, sovraordinato rispetto a quello nazionale, per la semplice ragione che settant’anni fa il primo non c’era. La sua attuale consistenza e la sua prevalenza qualitativa e quantitativa impongono una revisione delle norme costituzionali, per rendere più chiari e precisi i meccanismi — in salita — di collaborazione nazionale alla formazione delle norme europee e — in discesa — di corretto recepimento di queste ultime, soprattutto per quel che attiene alla famiglia e ai corpi intermedi.
b. Nel 1948, con le rovine della guerra ancora da rimuovere e con strumenti tecnologici meno invasivi di quelli attuali, beni che oggi vengono individuati come prioritari non comparivano neanche all’orizzonte. Si pensi per tutti alla privacy, e al peso che essa ha assunto in settori cruciali, dalla sanità alla sicurezza: è necessario inserire nella Costituzione la disciplina fondamentale di beni giuridici come questo, nel loro equilibrio con altri beni.
c. Nel 1948 quando si parlava di matrimonio si pensava a un uomo e a una donna e si dava per scontato che il diritto alla vita fosse prevalente: per questo la Costituzione non contiene né l’esplicita menzione della tutela della vita — era scontato che fosse la premessa per il godimento di tutti gli altri diritti — né, a proposito della famiglia, la precisazione che essa si forma quando si sposano un uomo e una donna. Durante la discussione in Parlamento che ha condotto nel 2016 all’approvazione della legge cosiddetta sulle unioni civili (7), a fronte dei rilievi di illegittimità costituzionale nei confronti di disposizioni che hanno di fatto introdotto il matrimonio same sex, vi è stato chi è giunto a sostenere che la Costituzione non vieterebbe le nozze fra persone dello stesso sesso, per la semplice ragione che non precisa espressamente che ci si sposa solo fra un uomo e una donna (sic!). Se oggi viene messo in dubbio il senso dell’espressione contenuta nell’articolo 29, «società naturale fondata sul matrimonio», qualificativa della famiglia, vuol dire che è necessario rendere esplicito in Costituzione ciò che settant’anni fa era considerato acquisito.
d. Le disposizioni sulla vita, sulla famiglia e sulla libertà di educazione esigono di essere ulteriormente dettagliate. Come nel 2012 è stato inserito nella Costituzione il principio del pareggio annuale di bilancio, così è auspicabile prevedere, per esempio, una maggiore cogenza nella tutela della maternità e dell’infanzia, con formule normative più stringenti, dalle quali derivino priorità nelle scelte ordinarie di allocazione delle risorse, che orientino il Governo e il Parlamento.
e. Nel 1948 la magistratura non pretendeva — neanche in proprie componenti minoritarie — di «creare» il diritto prima del Parlamento, come invece accade da qualche decennio, soprattutto su temi eticamente sensibili: l’esigenza di un equilibrio fra i poteri dello Stato, che renda più marcati i confini dell’uno e dell’altro, è un problema di tenuta dell’ordinamento.
Se oggi quella parte del mondo cattolico che ha condotto il fronte del «no» nel referendum del 4 dicembre 2016 proponesse una piattaforma costituzionale per la famiglia, vorrebbe dire che punta per davvero a una riforma, purché agganciata alle esigenze reali delle famiglie italiane; che questa piattaforma può diventare il discrimine per orientare il consenso alle forze politiche che si presenteranno alle prossime elezioni, a ciascuna delle quali andrà proposto di farla propria; che l’orizzonte in senso lato politico di quello che — per facilità di identificazione — può qualificarsi come il «popolo dei Family day» non coincide sempre e soltanto con la chiusura sulla difensiva e con la necessaria contrapposizione di volta in volta a iniziative come le «unioni civili» o le «disposizioni anticipate di trattamento», ma punta ad ampliare il quadro e a rilanciare l’organica articolazione della dottrina sociale della Chiesa, declinandola oggi con indicazioni propositive rispetto ai principali fattori di crisi. Confrontando il rilievo politico dei cattolici — e di coloro che, al di là della confessione religiosa, si ispirano a una prospettiva di princìpi naturali — nelle passate legislature con quello nella legislatura in corso, quantitativamente più esiguo, e immaginando, in assenza di cambiamenti, un ulteriore affievolimento nella prossima legislatura, dalla primavera del 2018, la questione della rappresentanza politica dei cattolici italiani esiste e mostra un profilo preoccupante. Negarlo e non farsene carico equivale di fatto a rassegnarsi e a recitare la parte di spettatori delle frammentazioni altrui e della sottomissione del corpo sociale a poteri sempre meno rappresentativi.
6. Il pensiero unico nell’era di Facebook
17 febbraio 2017: Mark Elliot Zuckerberg, l’inventore di Facebook, ha pubblicato il suo manifesto politico-sociale (8). Il testo del documento è insolitamente lungo per colui che ha promosso un modo di comunicare rapido e semplificato fino alla banalizzazione. Il contenuto è concentrato sul ruolo che i social network possono avere per un mondo e un futuro migliori. Vi è chi ha avanzato l’ipotesi che con questo proclama Zuckerberg abbia iniziato una lunga campagna elettorale contro Donald Trump, in vista delle presidenziali del 2020. In realtà, il suo autore non parla solo agli USA, parla a tutto il mondo, e si pone l’obiettivo di «unirlo». Zuckerberg difende Facebook in un momento in cui esso è assediato dalle critiche di chi lo accusa di concorrere a campagne di disinformazione, attraverso la creazione di «bolle» in cui si alimentano le cosiddette fake news. Egli, pur assicurando ossequio alla privacy, propone una visione del mondo più condivisa, alla cui stregua eventuali resistenze siano qualificate come «bufale». E certamente non è rassicurante che pochi — fra essi Zuckerberg — decidano che cosa è una «bufala» — quali sono i criteri di giudizio? — e quindi ne estromettano l’autore dal contesto social perché etichettato come inventore di fake news.
Il punto cruciale è però un altro. L’inventore di Facebook spiega che l’obiettivo del social network da lui promosso, che ormai conta 1,8 miliardi di utenti, deve essere quello di migliorare il livello di vita: «Vogliamo concentrarci sulla questione più importante di tutte: stiamo costruendo il mondo che vogliamo?». Vi sono minacce «sempre più crescenti», come il terrorismo, i disastri naturali, le crisi dei rifugiati e, ovviamente, il cambiamento climatico, che «[…] hanno bisogno di risposte coordinate». Facebook può offrire questo coordinamento. La parola più ripetuta del messaggio è «infrastruttura», corrispondente a ciò che permette di creare «la comunità globale che funzioni per tutti»: vi è qualche eco dell’antica idea marxista secondo cui dalla struttura economica dipendono le sovrastrutture, fra cui le comunità, e non viceversa. Quel che per Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) sono l’economia e il sistema della produzione per Zuckerberg è la rete. Il passaggio cruciale è questo: egli non si limita ad affermare che Facebook è uno strumento che adesso si usa come in passato si adoperavano i telefoni fissi, e poi i telefoni mobili. Egli va oltre e individua in esso lo strumento per creare nuove comunità mentre le antiche si sfaldano.
Ora, è vero che attraverso Facebook si creano delle connessioni fra «amici», ma qui si è di fronte a un dato ideologico: lo strumento non viene scelto da un gruppo di persone per interconnettersi, diventa piuttosto il principale meccanismo di collegamento sociale. Dunque, non è il riconoscimento di un fatto, bensì un meccanicismo ideologico di promozione. I social network — è un dato obiettivo — hanno reso più rapida e diretta la comunicazione fra gli uomini. È invece un dato ideologico che lo strumento decida tramite le proprie «infrastrutture» la dinamica di progresso necessario a cui siamo destinati: e con cui si deve essere d’accordo per trovarsi — per riprendere una espressione cara a Barack Obama — «dalla parte giusta della storia» (9).
Quella sintetizzata è certamente una prospettiva di desolazione. Spesso abbiamo la percezione di vivere in una terra desolata: certamente sul piano spirituale e culturale, talora anche sul piano materiale. La terra desolata è il titolo di una delle opere più belle di Thomas Stearns Eliot (1888-1965); in essa, quasi all’inizio, si incrocia questo verso: «l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo. L’arida pietra nessun suono d’acque» (10). L’Europa — per esplicito riconoscimento dei vertici delle istituzioni UE — dà l’idea di un albero morto, e come il fico del Vangelo non riesce a rendersi utile, «non dà riparo». Per chi da Esopo (620 ca.-564 a.C.) in poi è stato educato a fare con ragione l’apologia della formica, lo stridere del grillo dà ancora più fastidio del canto della cicala. Ma la vita c’è ancora, e l’acqua — grazie a Dio — dalle nostre parti continua a scorrere. Ci schieriamo con le formiche: anzitutto per le dimensioni associative. Ma quei pochi chicchi di grano che riusciamo a portare sulle nostre spalle possono essere i semi di alberi vivi che riprendono a crescere nella terra desolata della politica italiana ed europea. Con l’aiuto di Dio serviranno a qualcosa.
Note:
(1) Francesco, Discorso ai capi di Stato e di governo dell’Unione Europea in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, del 24-3-2017, nel sito web <http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/march/documents/papa-francesco_20170324_capi-unione-europea.html>. Tutti i siti web citati nelle note al testo sono stati consultati il 30-4-2017.
(2) Inizialmente, in funzione di prevenzione del terrorismo, si è posto un blocco verso l’ingresso negli USA dei cittadini di sette Stati a maggioranza islamica, ma non di quelli provenienti da Arabia Saudita e Qatar, che hanno regalato al resto del mondo fior di personaggi impegnati in azioni terroristiche.
(3) Francesco, Discorso ai capi di Stato e di governo dell’Unione Europea in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, cit.
(4) Si ricordino il ruolo attivo avuto dal governo italiano nell’avvicinamento fra il presidente della Federazione Russa Vladimir Vladimirovič Putin e il presidente degli USA George Walker Bush con l’incontro fra i leader della North Atlantic Treaty Organization (NATO), cui lo stesso Putin venne invitato, a Pratica di Mare (Roma) il 29 maggio 2002; la partecipazione con ruoli primari alle più importanti missioni di peace keeping o di peace enforcing; l’efficace governo dei flussi migratori.
(5) Cfr. Beda Romano, Il governo Renzi critica l’Europa, ma in Consiglio non ha mai votato No, in Il Sole-24 Ore, Milano 13-10-2016; anche nel sito web <http://bedaromano.blog.ilsole24ore.com/2016/10/13/il-governo-renzi-critica-leuropa-ma-in-consiglio-non-ha-mai-votato-no>.
(6) Il comma 1 subordina l’esercizio della protesta legislativa dello Stato e delle Regioni, fra gli altri, ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario».
(7) Cfr. legge n. 76 del 2016, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze.
(8) Cfr. Mark Zuckerberg, Building Global Community, del 16-2-2017; nel sito web <https://www.facebook.com/notes/mark-zuckerberg/building-global-community/10154544292806634>. Le citazioni che seguono costituiscono una traduzione di tale testo.
(9) Cfr. F. Q., Germania, Obama in visita: «Bene Merkel nella gestione dei migranti, è dalla parte giusta della Storia», ne il Fatto Quotidiano, 24-4-2016; così — come sempre profetico — Barack Obama avrebbe detto: «[…] la posizione di Angela Merkel sui rifugiati, è dalla parte giusta della storia. Sta dando voce ai princìpi che uniscono le persone invece di dividerle».
(10) Thomas Stearns Eliot, La sepoltura dei morti, in La terra desolata, 1922, trad. it., in Opere, testo inglese a fronte, Rizzoli, Milano 2007, pp. 163-204 (p. 167).