Domenico Airoma, Cristianità n. 384 (2017)
Giancarlo Cerrelli e Marco Invernizzi, La famiglia in Italia. Dal divorzio al gender, con Prefazione di Massimo Gandolfini, Sugarco, Milano 2017, pp. 338, € 25,00
L’opera consta di due parti. La prima — Contro la famiglia. 1970-2016 (pp. 11-121) —, scritta da Marco Invernizzi, storico del movimento cattolico in Italia e reggente nazionale di Alleanza Cattolica, è dedicata all’analisi storico-sociologica dell’aggressione alla famiglia. La seconda — Il diritto come strumento per ridefinire la famiglia (pp. 123-295) —, a cura di Giancarlo Cerrelli, pure di Alleanza Cattolica e consigliere centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, illustra in modo dettagliato il percorso di decostruzione dell’istituto familiare compiuto dal diritto e la conseguente opera di artificiosa ricostruzione di un tessuto normativo fondato su un modello di famiglia contro la legge naturale e divina.
Il genere dell’opera
Il genere è quello proprio di un manuale per l’azione. Le finalità sono ben colte nella Prefazione (pp. 3-5) di Massimo Gandolfini, che ne esalta la straordinaria utilità per comprendere il «perché» e il «come» siamo arrivati a una condizione di profonda e radicale sovversione dell’istituzione più essenziale per l’uomo, «il luogo antropologico per eccellenza» (p. 3), come viene con icastica efficacia definita dallo stesso leader del Comitato Difendiamo i Nostri Figli.
L’opera non è una rievocazione «reducistica» degli intrepidi attacchi sferrati al nemico in varie parti della Penisola italiana, su un fronte di una battaglia persa, ma con onore. Non è neppure un’illustrazione di eventi dal tenore freddamente descrittivo, pur se i fatti — nella loro sequenza anche temporale — hanno un ruolo di primo piano; non è, perciò, da ritenersi meramente compilativa la cronologia degli eventi riportata in coda (Contro la famiglia. Una cronologia, pp. 301-317): essa, anzi, fornisce il colpo d’occhio di una guerra condotta per cinquant’anni, consentendo anche di apprezzare la straordinaria accelerazione impressa al processo di aggressione negli ultimi anni.
L’opera, invece, è lo sforzo d’inserire questi eventi in un quadro unitario, abbinando al dato quantitativo — cioè, la dimensione dell’aggressione, per forze in campo e molteplicità dei fronti — quello qualitativo, rappresentato dal rapporto di tale attacco alla guerra più ampia, epocale e metafisica, a Dio creatore e provvidente. Ed è uno sforzo di ricomposizione del quadro al quale è sotteso un giudizio, compiuto secondo le categorie del pensiero contro-rivoluzionario; un giudizio che, proprio perché contro-rivoluzionario, orienta all’azione, nel mondo reale e non in quello virtuale o che vorremmo che fosse. Tutto ciò viene apprezzato da Gandolfini, quando sottolinea che il libro individua ed esalta quel «filo rosso» che lega tutta la recente storia della famiglia, dal divorzio al gender, ovvero la prospettiva di recidere ogni legame fra l’uomo e il suo Creatore.
L’aver saputo coniugare esaustività descrittiva con profondità di analisi — conclude Gandolfini — induce a inserire gli autori nel novero di quegli «“uomini saggi”, a cui siamo debitori di verità e di cui il nostro tempo ha tanto bisogno» (p. 5).
I contenuti: la prima parte
La prima parte è dedicata, innanzitutto, all’analisi del processo di dissoluzione dell’istituto familiare, al cosiddetto «solve» rivoluzionario, individuandone le radici, prima ancora che storiche, squisitamente culturali, nel movimento femminista, come strumento di penetrazione dialettica all’interno della famiglia. Da quelle radici nasce e prospera la mala pianta che giungerà a produrre il suo frutto finale e più subdolamente letale, l’ideologia del gender. Eppure, almeno inizialmente, sono in pochi, anche in ambito cattolico, ad accorgersi della malattia che stava incubando nella società italiana e che, in particolare, stava attaccando il cuore della famiglia, attraverso l’emancipazione femminile e la messa in discussione del ruolo del padre. Ciò, verosimilmente, anche per l’atteggiamento del PCI che, alla scuola dell’ideologo comunista Antonio Gramsci (1891-1937), sceglie una penetrazione lenta nella società, privilegiando la lotta di classe — cioè l’odio sociale —, e lasciando il ruolo di avanguardia rivoluzionaria alle forze radicali e liberali, che si dedicheranno ad alimentare, seppure ancora in chiave elitaria, l’odio contro i rapporti di autorità intra-familiare.
Quel che accomuna i due schieramenti, e cioè l’odio gnostico contro la realtà, determinerà, tuttavia, il compattamento di tutte le forze rivoluzionarie in occasione dei principali tornanti epocali dell’aggressione alla famiglia, quali i referendum sul divorzio e sull’aborto. «“Né Dio, né padre, né padrone” era — insomma —, uno slogan che racchiudeva una verità che si sarebbe manifestata con sempre maggiore evidenza» (p. 16).
Al processo di compattamento delle forze rivoluzionarie contro la famiglia, fa da contraltare la progressiva frantumazione del mondo cattolico, riflesso della penetrazione della Rivoluzione anche nel sacro recinto. Particolare attenzione viene riservata proprio alle divisioni del mondo cattolico, impreparato, salvo qualche lodevole eccezione — l’autore tributa giustamente al filosofo Augusto Del Noce (1910-1989) l’onore di aver combattuto una battaglia tanto profetica quanto solitaria —, a comprendere, fin dalle battute iniziali, la portata mortifera del Sessantotto, con specifico riferimento alla famiglia. Nell’associazionismo cattolico, egemonizzato nel secondo dopoguerra dall’Azione Cattolica, incominciava ad allignare quel secolarismo, che sempre più stava penetrando nel tessuto sociale italiano negli anni del boom economico; e ciò nonostante il monito sia del magistero episcopale — è del 1960 la prima lettera della CEI di forte condanna del «laicismo» —, sia di quello pontificio, che raggiunge il culmine con l’esortazione apostolica post-sinodale Evangelii nuntiandi del beato Paolo VI (1963-1968), del 1975.
Due sono i filoni culturali che vanno emergendo: da un lato, inizia quel percorso di inculturazione della fede in una società post-cristiana che assumerà nel tempo le caratteristiche della nuova evangelizzazione; dall’altro, però, riemerge, attraverso la lettura del Concilio Vaticano II come evento rivoluzionario, grazie soprattutto alla scuola di Bologna, iniziata da Giuseppe Dossetti (1913-1996) e proseguita da Giuseppe Alberigo (1926-2007) e da Alberto Melloni, l’eresia progressista, che invitava i cattolici a una resa incondizionata nei confronti della modernità, con tutto quel che ciò comportava, anche con riferimento alla dottrina in materia di famiglia e morale sessuale.
La divisione all’interno della Chiesa e del mondo cattolico incomincia a farsi evidente in occasione del referendum sulla legge che nel 1970 introduce il divorzio; i cattolici democratici non volevano, infatti, lo scontro con le forze progressiste e contestavano la scelta di una presenza pubblica dei cattolici e della Chiesa gerarchica. L’avvento al soglio pontificio di san Giovanni Paolo II (1978-2005) acuisce la conflittualità, che sembra solo sopirsi, soggiogata com’è dalla forte personalità del Papa venuto dall’Est, il quale reclama con forza un ruolo da protagonisti per i cattolici nella vita sociale e politica.
Il lungo pontificato di Giovanni Paolo II porrà, peraltro, le condizioni per cui, nonostante una lenta ma inesorabile avanzata del processo di secolarizzazione, l’Italia, a causa della presenza della Chiesa e di un Papato attento alle vicende politiche relative a quelli che Benedetto XVI (2005-2013) chiamerà «principi non negoziabili», diventerà una felice anomalia nel panorama occidentale (la cosiddetta «eccezione italiana»), resistendo a lungo e con forza alla demolizione di quel che sopravviveva della civiltà cristiana.
In questo contesto si spiega il successo del primo Family Day del 2007, voluto dal cardinale Camillo Ruini per contrastare il tentativo di inserire nell’ordinamento giuridico italiano i DI.CO, cioè i diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi, e sposato con ardore da quei movimenti cattolici che, nel frattempo, avevano largamente soppiantato l’Azione Cattolica e si dedicavano alla nuova evangelizzazione. L’opposizione, non accolta dalla gerarchia, del «cattolico adulto» Romano Prodi al Family Day segnava anche la fine dell’egemonia del cattolicesimo democratico nel mondo politico cattolico, sancendo il compimento di quel percorso suicidiario preconizzato da Gramsci.
E tuttavia, la conflittualità nel mondo cattolico non era affatto cessata; e non solo perché il modernismo non poteva dirsi morto con il fallimento politico di Prodi, sopravvivendo sotto diverse forme e, soprattutto, all’interno della Chiesa. Si stava, infatti, producendo un ulteriore erosione del fronte cattolico, questa volta a «destra».
Fu, in particolare, la vittoria nel referendum sulla legge n. 40 del 2004 in tema di fecondazione assistita a costituire la cartina di tornasole di un malessere che stava crescendo nel mondo cattolico e che, nella reazione al progressismo, finiva con l’irrigidirsi nella difesa dei princìpi, rinunciando, nel timore di apparire accondiscendente alla modernità, a fare e difendere il bene possibile in un contesto sociologico da fine Cristianità.
Il passaggio, importante, è così spiegato dall’autore: «È una legge che non soddisfa interamente il rispetto del diritto alla vita e la dignità della procreazione, ma, con la composizione del Parlamento di allora, era la legge migliore possibile, almeno secondo l’opinione dei protagonisti politici che condussero l’operazione in Parlamento.
«Tuttavia, la “legge migliore possibile” diventò ben presto la legge dei cattolici, alla quale dirigenti e giornalisti del mondo cattolico diedero una patente tutto sommato di legittimità senza riserve. Questa assuefazione contribuì in maniera determinante alla nascita di un’opposizione interna al mondo cattolico, spesso acida e carica di un’aggressività degna di un’altra e migliore causa, ma che si nutriva anche dell’incertezza e della faciloneria con cui molti, anche pastori, non ricordavano con frequenza e costanza i “punti fermi” della dottrina della Chiesa sul punto e i limiti della Legge 40» (pp. 34-35).
Un’aggressività — quest’ultima — che finiva con lo scontare lo stesso difetto, anche se specularmente opposto, dell’atteggiamento progressista, ovvero l’esaltazione ideologica di una fase storica della società e della Chiesa, che non c’era più; un irrigidimento di una parte del fronte cattolico che non cambierà idea neanche dinanzi all’attacco che, condotto soprattutto dai giudici, finirà con lo smontare, con deliberata pervicacia, pezzo per pezzo una legge evidentemente ritenuta tutt’affatto che rivoluzionaria.
Questo è lo scenario di inizio nuovo millennio, che viene scosso da un vero e proprio sisma, il cui epicentro è rappresentato dall’avvento al soglio pontificio di Papa Francesco l’11 febbraio 2013. Con la sua denunciata volontà di non ritenere i princìpi non negoziabili — come declinati da Papa Benedetto — una priorità pastorale e di lasciare all’episcopato locale le questioni politiche italiane, il Pontefice argentino determina l’avvio di un’ulteriore fase storico-sociologica del mondo cattolico.
Dinanzi all’attacco sempre più frontale sferrato alla famiglia, culminato nella legge sulle unioni civili, i cattolici, infatti, fanno registrare tre diversi atteggiamenti, così illustrati dall’autore:
— vi sono coloro che non vogliono entrare in conflitto con un mondo, oramai al termine del processo rivoluzionario, che va solo accompagnato, rinunciando a ogni giudizio sull’errore, causa di quella condizione agonizzante;
— vi sono coloro che, viceversa, non vogliono avere alcun tipo di rapporto con un mondo nato dai princìpi del 1789 e che si dedicano alla costruzione di comunità isolate e parallele;
— e vi sono poi quelli che cercano di operare per convertire, senza rinunciare alla denuncia, ma partendo dall’esistente, dagli uomini rivoluzionati che vanno aiutati a uscire da questa condizione, nella prospettiva della costruzione di una nuova civiltà cristiana.
Sono proprio questi ultimi che, facendosi eredi dello spirito missionario evocato da san Giovanni Paolo II nella chiamata alla nuova evangelizzazione, si fanno promotori degli ulteriori Family Day che caratterizzano il 2016, ponendosi di fatto alla guida di una parte importante di popolo.
A differenza del precedente del 2007, la piazza del 2016 viene riempita nonostante le titubanze della gerarchia ecclesiastica e rappresenta la forma embrionale di una reazione che avverte l’indispensabilità di muoversi in una prospettiva di ricostruzione.
Sotto la guida di Massimo Gandolfini, nasce il Comitato Difendiamo i Nostri Figli, senza l’impulso della gerarchia, ma neppure in contrapposizione ad essa. Pur presentandosi con la consistenza propria del tempo della post-modernità e vivendo anch’esso di conflittualità interne, è il primo tentativo di dare una rappresentanza a una parte di popolo che è sceso in piazza più di propria iniziativa che per ordini di scuderia, e che non è composto «da illusi e sconfitti dalla storia» (p. 65), ma è «l’alba di un mondo che sta nascendo, se non altro per ragioni demografiche» (p. 66).
Accanto al percorso storico, l’analisi di Marco Invernizzi considera anche le ricadute sul tessuto della società italiana conseguenti alla sistematica aggressione alla famiglia. E lo fa riprendendo le riflessioni di Roberto Volpi. Infatti, è stato, in particolare, lo statistico toscano a illustrare, con acribia e con abbondanza di dati, la sofferenza della famiglia, proprio a partire dalla legge sul divorzio, con le inevitabili ripercussioni, oltre che sul numero dei matrimoni, su quello delle nascite. Le radici della crisi sono culturali e non economiche: il matrimonio e la famiglia non rappresentavano più un ideale di vita; i figli erano giudicati inessenziali alla vita di coppia; la maternità era separata dalla stessa sessualità e veniva occupata dalla medicina, cioè dalla fecondazione a comando e secondo il desiderio. Si stavano realizzando gli esiti che la Rivoluzione culturale si era promessa di conseguire: stanare l’uomo, colpirlo nella sua stessa identità.
E qui siamo all’attualità. Spogliato del suo abito sociale primario, l’uomo doveva essere spogliato della sua stessa corporeità: inizia la fase dominata dalla penetrazione dell’ideologia gender, che viene esaminata partendo dalle sue radici filosofiche, individuate nel deismo del secolo XVIII, fino ai suoi esiti coerenti, rappresentati dalla teoria queer.
Principale forza propulsiva di questo nuovo e, all’apparenza, finale stadio di attacco alla famiglia viene individuata soprattutto nei soggetti titolari della governance mondiale. In questo scenario, che si apre con le conferenze de Il Cairo e di Pechino di metà anni 1990, incomincia a porsi, in modo dapprima surrettizio, e poi sempre più apertamente, la necessità per gli Stati di uniformare le legislazioni a questa nuova ideologia.
Ancora una volta sarà il magistero del Santo Padre a smascherare, da subito, la menzogna: Giovanni Paolo II, nella lettera del 18 marzo 1994 al Segretario generale della Conferenza internazionale de Il Cairo, pronuncerà una vibrante difesa della famiglia, intuendo la portata letale di tale ideologia, fulminata poi con irrevocabili giudizi di condanna sia da Benedetto XVI che da Papa Francesco.
I contenuti: la seconda parte
La seconda parte dell’opera è un’esaustiva disamina del ruolo svolto dal diritto nel processo, dapprima, di disgregazione dell’istituto familiare e, poi, di ridefinizione, ovvero di ri-costruzione artificiale, dei nuovi modelli di famiglia.
Questo lungo viaggio nell’involuzione legislativa e giurisprudenziale dell’ultimo mezzo secolo, oltre a rappresentare l’esito di un encomiabile sforzo di sintesi — ascrivibile al genere della storia del diritto, e del diritto di famiglia in particolare —, fornisce un colpo d’occhio di straordinaria utilità, proprio perché consente di cogliere la funzione essenziale svolta dallo strumento normativo in entrambi le macro-fasi del processo rivoluzionario, quella del solve e quella del coagula: il diritto come motore sia della de-costruzione, sia del tentativo di ricostruzione.
Il viaggio si apre con due premesse.
La prima è dedicata alla explicatio terminorum: che cos’è il diritto e qual è la sua funzione. Una premessa che andrebbe sempre tenuta presente tutte le volte che si affronta una nuova puntata della fiction — purtroppo reale — «leggi & sentenze»; in particolare, è assai utile la riflessione sulla trasformazione che ha subito il diritto per effetto del morbo rivoluzionario (d’altronde, se è malato il corpo, non può che essere malato anche lo scheletro!): da scienza che legge la natura, a strumento per manipolare la realtà, anzi per costruirne una nuova.
La seconda premessa è dedicata alla centralità della famiglia nel processo rivoluzionario, che inizia con l’attaccare l’istituto familiare e termina con il tentativo di distruggerne le radici stesse.
Il viaggio incomincia, parallelamente al percorso compiuto da Invernizzi nella prima parte, proprio alla fine degli anni 1960, allorquando, il 19 febbraio 1965, la Corte Costituzionale — e qui già emerge l’opera dei tecnici del diritto per eccellenza, i giudici, che anticipano e guidano il legislatore — elimina il divieto di propaganda degli anticoncezionali. Un passo importante si ha nel 1969 con la depenalizzazione dell’adulterio; si avvia, infatti, quel processo di «privatizzazione» dell’istituto familiare, ovvero di estromissione della famiglia dal novero dei soggetti a rilevanza pubblicistica e del diritto pubblico e lo si comincia a confinare nell’ambito delle situazioni ricadenti sotto lo spettro dell’autonomia privatistica.
S’introducono nel corpo dell’istituzione familiare due virus, che con il tempo ne causeranno una profonda trasformazione. Il primo è quello del principio dell’autodeterminazione, che prevale sulla stabilità del vincolo e che porterà alla soccombenza della indissolubilità e quindi al divorzio. Il secondo, dalla portata ancora più diffusiva, è la definizione della famiglia non più come istituzione, ma come somma di individualità: «la coppia, così, diventa il luogo in cui due soggetti individuali cercano la propria affermazione attraverso la loro relazione. Ogni individuo pensa la coppia in funzione di sé» (pp. 149-150).
Una tappa determinante nel processo di decostruzione dell’istituto familiare è, a ragione, individuata nella riforma del diritto di famiglia, attuata con legge n. 151 del 1975, al cui centro non vi è più la famiglia come «gruppo sociale», ma vi sono i diritti e gli interessi dei singoli membri della famiglia.
Quel che diviene centrale è il rapporto, non più il vincolo scaturente dall’atto-matrimonio (è il cosiddetto de-marriage); e la relazione familiare viene vista come proiezione del singolo, della sua personalità. Fondamento della famiglia, dunque, diviene l’affettività, intesa nella sua dimensione esclusivamente soggettiva, cioè come strumento di realizzazione dell’individuo; un fondamento sui generis, scritto com’è sulla sabbia della mutevolezza dei sentimenti e della intercambiabilità dei protagonisti della relazione. Del tutto coerenti, pertanto, saranno i successivi interventi normativi diretti a rendere il più veloce possibile il cambio di partner al venir meno del desiderio, attraverso il divorzio breve e la negoziazione assistita, cioè con il divorzio «fai-da-te», che, icasticamente, completa la fuoriuscita della famiglia da quel che rimaneva di pubblicistico nella sua vita, l’aula del giudice.
Se, in definitiva, prima del 1975 il singolo era tutelato nel suo rapporto con la famiglia e in quanto legato alla famiglia, dopo la riforma inizia un percorso che conduce al completo rovesciamento della prospettiva: a essere tutelato è il singolo, mentre la famiglia è solo una delle tante opportunità a lui concesse per autodeterminarsi; un percorso che troverà il suo sbocco coerente nel diritto alla privacy, consacrato nella Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo e che costituirà il cardine interpretativo utilizzato dalla Corte di Strasburgo proprio per affermare i cosiddetti diritti sociali dell’individuo, che funzionano da carburante che alimenta il motore del processo di dissoluzione: «a ciascuno la sua famiglia, a ciascuno il suo diritto» (p. 159), secondo il motto del sociologo del diritto Jean Carbonnier.
È facile anche intravedere le ulteriori tappe dell’esplosione dei diritti. L’esaltazione dell’autonomia dell’individuo — ciascuno è norma a sé stesso — pone, infatti, le premesse per la progressiva evaporazione della corporeità: conta solo il desiderio e il diritto altro non deve fare che assicurare la felicità, consistente, appunto, nell’assecondare qualsiasi desiderio; il corpo serve nella misura in cui è piegato al soddisfacimento dei desideri, sicché quando non serve più, va eliminato, con l’esito coerente, rappresentato dal diritto al suicidio.
Un ulteriore colpo alla famiglia come istituzione, intrinsecamente connotata da stabilità, è inferto dalla legge che, dopo il puntuale intervento demolitivo della Corte Costituzionale — che esclude dal novero delle persone giuridiche il concepito —, introduce nel nostro ordinamento la libertà di abortire. Un colpo decisivo al binomio famiglia-procreazione, con l’effetto di spostare anche quest’ultima nel cono dell’autodeterminazione, senza limiti, della donna.
Se la famiglia non è più un modello e se i figli si fanno anche fuori dalla famiglia, non ha più senso neppure mantenere in vita altri istituti costruiti sul favor familiae, e in primis filiazione ed adozione. L’interesse del minore viene individuato, ancora una volta grazie al contributo creativo dei giudici, non più nell’avere una famiglia, composta da un padre e da una madre, che abbiano determinati requisiti, ma nell’essere inserito in una relazione di affettività, con uno o più adulti.
Fin qui, in sintesi, le tappe del processo di decostruzione, che registra con la legge Cirinnà in tema di unioni civili un vero e proprio tornante epocale, perché segna il passaggio a una prospettiva di ri-costruzione gnostica dei nuovi modelli familiari.
E infatti, significativamente, il simil-matrimonio versione Cirinnà può essere individuato come il primo frutto giuridico della mala pianta dell’ideologia gender, che proprio attraverso il diritto manifesta tutte la sua portata esiziale. «[…] il diritto diviene il mezzo per propiziare un mutamento sociale in base ai desideri dei consociati, anche se essi sono in contrasto con il dato di natura, di cui il diritto tende a non tenere più conto» (pp. 225-226).
Tuttavia, per poter ottenere che i legislatori nazionali si pieghino a dar veste giuridica a desideri ancora da qualcuno percepiti come contrari a quel che resta del senso comune e dell’idea di limite, occorre che l’ideologia gender venga presentata e declinata come la necessaria evoluzione dei diritti fondamentali dell’uomo post-moderno e venga inserita nei documenti internazionali, con l’effetto altresì di porsi come nuovo criterio ermeneutico a disposizione delle corti internazionali per valutare l’osservanza da parte delle legislazioni nazionali dei diritti umani e del divieto di non discriminazione.
È il tema della governance mondiale che Cerrelli riprende, dopo Invernizzi, mostrando con puntiglio chi e come ha lavorato e sta lavorando per tradurre l’ideologia gender in norme; in particolare, soffermandosi anche sul mutamento della terminologia giuridica avvenuto nei documenti internazionali e finalizzato, attraverso l’elaborazione di una vera e propria neo-lingua giuridica, a neutralizzare ogni resistenza, occultando la verità dei fatti e cloroformizzando la memoria del reale.
Ma vi è un ulteriore aspetto che l’autore esamina in profondità, quello della prevenzione e della repressione delle forme di resistenza al processo di istituzionalizzazione dell’ideologia gender, che si incentra sulle normative anti-omofobia. Significativo è l’interrogativo che si pone il giornalista Piero Ostellino e che viene riportato nel paragrafo dal titolo «Cosa si nasconde dietro alla legge anti-omofobia»: «Non riesco a capire perché picchiare un omosessuale sarebbe un’aggravante, mentre picchiare me —che sono “solo” un essere umano senza particolari, selettive e distintive, qualificazioni sessuali — sarebbe meno grave. Picchiare qualcuno è un reato. Punto, basta e dovrebbe bastare» (p. 234).
In realtà, non può affatto bastare, perché non interessa tanto la condotta, ma l’autore della stessa, o, meglio, il suo modo di pensare e di vedere le cose. Il fallimento dell’introduzione del reato di omofobia attraverso la proposta di legge Scalfarotto non fa desistere il fronte pro-gender che, per un verso, utilizzando i documenti internazionali — e in particolare la Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 in tema di violenza di genere contro le donne — e, per altro, amplificando ad arte casi di cronaca per prospettare situazioni emergenziali da fronteggiare tempestivamente con sanzioni adeguate, come è avvenuto per il cd. «femminicidio», per il «bullismo» e per il cyberbullismo, torna alla carica, ottenendo o cercando di ottenere l’approvazione di norme liberticide. Le iniziative non si fermano alle aule parlamentari e si muovono in un’ottica di rieducazione dell’uomo e, in modo particolare, delle giovani generazioni: campi privilegiati di penetrazione sono, pertanto, le scuole, di ogni ordine e grado, e il variegato versante della pubblica amministrazione, sia statale che locale.
E non potevano mancare le aule di giustizia. Più avanza il processo di ri-creazione del mondo nuovo e dell’uomo nuovo, più diventa essenziale l’apporto dei giudici, i veri sacerdoti — nella saggezza aforismatica del pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) — della dittatura del relativismo. Ai giudici vien dedicato un intero capitolo, mettendo in risalto l’opera soprattutto creativa, da veri e propri apripista, in grado di condizionare e orientare i legislatori più timorosi.
Al termine di questo viaggio, durato mezzo secolo, nella famiglia e, più in generale, nella società italiana di cui le famiglie sono il tessuto vitale, si avverte la sensazione di trovarsi oramai sul ciglio dell’abisso, un abisso antropologico, senza luce.
Eppure gli autori, nelle Conclusioni (pp. 296-300) introducono più di un elemento di speranza. Intanto, una constatazione: «di famiglie secondo il dato naturale ne esistono ancora tante, anzi sono pochissime quelle “alternative”» (p. 297). E poi, un dato, questa volta non quantitativo ma qualitativo: è vero che sono sempre meno quelli che sposano, ma il successo dei Family Day dimostra che le persone che oggi si sposano lo fanno con maggior convinzione e sono maggiormente disposti «a difendere anche pubblicamente l’istituzione che hanno messo in piedi» (p. 298).
Quel che è importante, avvertono gli autori, «[…] è che queste famiglie si percepiscano come il mondo che nasce, non come gli ultimi combattenti del mondo che muore» (ibidem). È importante e decisivo; perché proprio nel momento in cui il processo rivoluzionario sta raggiungendo il suo apice (alle porte, vi è già l’eutanasia), hanno il compito di essere «quinte di plausibilità», di dimostrare cioè che si può vivere ed essere felici cercando di vivere secondo il decalogo; senza trasformarsi in riserve indiane — illudendosi di potersi nascondere in un mondo che non conosce esilio —, ma cercando di risplendere come fiammelle per attirare e curare gli esuli della verità, in una notte che è tanto più oscura quanto più si avvicina l’aurora.
Domenico Airoma