di Michele Brambilla, Cristianità n. 387 (2017)
Nell’enciclica Spe salvi di dieci anni fa Papa Benedetto XVI (2005-2013) individuava i momenti centrali della modernità nella Riforma protestante del 1517, nella diffusione dell’Illuminismo, che non può prescindere dall’espansione della massoneria moderna, fondata a Londra nel 1717, e dalle ideologie del secolo XX, di cui la più duratura e sanguinaria è il comunismo, diffusosi nel mondo dopo la Rivoluzione in Russia del 1917.
Questa congiunzione particolare di date offre l’opportunità di riflettere sugli avvenimenti, ricorrendo all’opera dello storico inglese Henry Christopher Dawson (1889-1970), Gli dei della Rivoluzione. Il libro, infatti, indaga sia sulla preparazione remota della Rivoluzione francese con una panoramica sulla cultura occidentale dopo la frattura della Riforma protestante, sia sul dipanarsi degli eventi rivoluzionari del 1789, sia, infine, sull’eredità della Rivoluzione, soprattutto dal punto di vista culturale.
Genesi dell’opera
Dawson compie gli studi ad Oxford e nel 1914 si converte al cattolicesimo. Intraprende la carriera di storico, sganciato dal mondo accademico britannico, ma con una sempre più frequente collaborazione con quello statunitense, fino ad approdare, nel 1958, alla cattedra di Studi Cattolici Romani presso l’Università di Harvard nel Massachusetts.
L’opera, uscita originariamente nel 1972 per i tipi di Sidgwick & Jackson a Londra, è presentata nella collana Magna Europa diretta da Giovanni Cantoni e, secondo le intenzioni originarie dell’autore, doveva costituire il quinto volume di The Life of Civilizations, rimasta incompiuta. Il materiale afferente al programmato quinto volume è stato già in parte collocato ne La divisione della Cristianità Occidentale per quanto riguarda i capitoli dedicati al regno di Luigi XIV di Borbone (1643-1715), alla descrizione dei movimenti di risveglio religioso nel protestantesimo britannico del secolo XVIII, a una prima trattazione dell’Illuminismo e al cattolicesimo di fronte alla Rivoluzione francese. L’interesse principale di questa nuova raccolta di interventi, frutto del ciclo noto come «Conferenze Gifford», tenute ad Edimburgo nel 1946-1947, è ancora una volta delineare il rapporto fra gli accadimenti della storia francese ed europea e le grandi correnti di pensiero diffusesi tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, con un occhio di riguardo per i movimenti religiosi. Il titolo The Gods of Revolution individua immediatamente lo scopo dell’opera, cioè descrivere la Rivoluzione francese come un esperimento palingenetico durante il quale si programmò di sostituire il cristianesimo con una vera e propria religione secolare, la «religione della democrazia». Dawson si sofferma pure sulle ripercussioni culturali della Rivoluzione negli ambienti da lui meglio conosciuti, quelli anglosassoni, e prolunga il suo sguardo fino al Romanticismo, delineandone il carattere di reazione correlabile, perlomeno su suolo britannico, ai movimenti protestanti settecenteschi di rinascita religiosa.
La presentazione del curatore, Paolo Mazzeranghi, costituisce un vero e proprio saggio intitolato La Rivoluzione francese nella crisi della civiltà occidentale (pp. 19-27). Essa ricostruisce la genesi dell’opera e quanto l’incontro con le opere del pensatore e uomo politico savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821) abbia rafforzato in Dawson l’idea di scrivere della Rivoluzione del 1789 negli anni in cui avvertiva l’esplodere del mondo ideologico rivoluzionario durante il secondo conflitto mondiale (1939-1945). L’eco degli articoli e delle conferenze di quel periodo convoglia attorno a Dawson un gruppo di estimatori e collaboratori successivamente artefice della raccolta e del riordino del materiale da cui è stata tratta, nel 1972, la prima edizione del volume.
Nel tratteggiare le caratteristiche dell’opera, Mazzeraghi afferma: «si riscontra nell’opera, condotta con quella efficacia narrativa e quella capacità di elaborazione di grandi quadri interpretativi che la critica gli ha sempre riconosciuto, l’attenzione di Dawson per aspetti che hanno ricevuto adeguato approfondimento da parte di studiosi — come lo storico ebreo polacco naturalizzato israeliano Jacob Talmon (1916-1980), lo storico francese Francois Furet (1927-1997) e, molto prima, il misconosciuto archivista e storico francese Augustin Cochin (1876-1916), rivalutato dallo stesso Furet — prescindendo dai quali oggi non sarebbe possibile accostare efficacemente lo studio della Rivoluzione francese» (p. 23).
Dawson «[…] si sofferma dunque sull’innovativa quanto sconcertante organizzazione e conduzione delle elezioni per gli Stati generali, sulla macchina rivoluzionaria […], sulla mentalità rivoluzionaria, sull’utilizzo della guerra esterna come strumento rivoluzionario, sull’annientamento psicologico dell’avversario» (ibidem), tutte tecniche allora in atto in Unione Sovietica e nella Germania nazional-socialista. «Nella convinzione — condivisa nel Novecento perlomeno dal pensatore contro-rivoluzionario brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) — che la rivoluzione nei fatti è frutto della rivoluzione nelle idee» (p. 24).
È stata inserita nel volume l’introduzione del 1972 dell’amico studioso Arnold Joseph Toynbee (1889-1975), che evidenzia anzitutto come dalle pagine emerga il sentire profondo dell’autore: «Dawson racconta in modo diretto ai suoi lettori cosa veramente sente e pensa» (p. 29). L’introduzione, però, tende a distinguere, forse perché più simile al sistema consolidatosi negli Stati Uniti d’America, fra la matrice «liberale» e quella che potremmo definire «socialista», evidente, secondo Toynbee, nel fatto che «negli anni 1790 la causa della rivoluzione sociale fu sostenuta non dagli anticlericali, ma da un sacerdote cattolico, Jacques Roux (1752-1794), che operava in una parrocchia di un bassofondo parigino. Fu un precursore dei “preti operai” francesi del secolo XX» (p. 31). I giacobini sono classificati fra gli elitari: «Robespierre fu un disinteressato idealista. […] la Rivoluzione fu politica, non sociale. Fu un’affermazione vittoriosa della supremazia della bourgeoisie. Negli anni 1790, come nel 1848 e nel 1871, il proletariato fu schiacciato appena tentò di competere con la borghesia» (pp. 30-31). Una visione condivisa da molti dei protagonisti degli eventi narrati, ma che andrebbe approfondita e corretta osservando, come la scuola contro-rivoluzionaria insegna, che la Rivoluzione come fenomeno metafisico comprende fasi che si succedono una dopo l’altra, di intensità differente, ma con un’origine unitaria nei medesimi principi di uguaglianza e sensualità.
La visione di Toynbee non coincide perfettamente con quella di Dawson, del quale esalta l’intuizione fondamentale: cercare l’origine della Rivoluzione negli errori religiosi. «[…] egli considera la Rivoluzione francese principalmente, sebbene niente affatto esclusivamente, nel suo aspetto religioso. […] Dawson fa emergere gli straordinari paradossi della Rivoluzione francese» (p. 30). L’obiettivo di Dawson, infatti, è mostrare come la Rivoluzione sia frutto del concorso di varie correnti del pensiero settecentesco.
Della storiografia anglosassone l’opera tradotta in italiano conserva anche un saggio di James Oliver (1911-1992) sulla fortuna di Dawson come storico, che ha saputo difendere una posizione pienamente e pubblicamente cristiana in ambienti accademici in cui «[…] lo aveva presto molestato la strana parzialità di quegli studiosi» (p. 35), multiculturalisti con tutti eccetto che con i cristiani. Dawson fu soprattutto nemico di quanti, seguendo i diktat dell’ideologia marxista, hanno spesso ridotto la storia ad analisi dei rapporti economici, mettendo l’evoluzione delle idee fra le «sovrastrutture». «Se si nega l’influenza del liberalismo sulla Rivoluzione francese, si dovrebbe negare l’influenza del comunismo sulla Rivoluzione russa» (p. 38).
La rivoluzione delle idee
Dawson parla immediatamente di una trasformazione che ha portato cambiamenti a livello continentale riverberandosi, di conseguenza, nelle altre terre raggiunte dall’uomo europeo. Oggi «ovunque, dall’Irlanda al Giappone e dalla Palestina alla California, gli uomini indossano gli stessi vestiti, usano gli stessi veicoli, guardano gli stessi film, leggono gli stessi libri e hanno perfino gli stessi pensieri» (p. 41). Un’omologazione così potente deve avere per forza un centro di irradiazione, e questo è stato l’Europa. «Ha la sua fonte in una particolare società e in una particolare civiltà, e da questo centro si è propagata all’esterno mediante un’espansione e una diffusione culturali» (p. 42). L’Europa diviene così esportatrice di secolarizzazione così come prima la era stata di cristianesimo.
Per Dawson la Rivoluzione fu, quindi, un processo interno alla cultura europea, che si radicava nel mutamento intellettuale che si ebbe nei salotti parigini come nelle redazioni dei giornali inglesi fra i secoli XVII e XVIII, dove aristocratici e intellettuali sedevano alla pari in un contesto fuori dal controllo dell’assolutismo regale. Le idee dovettero «abituarsi» all’etichetta dei salotti, cosicché dalle verità si arrivò alle opinioni e, da queste, allo scetticismo. Blaise Pascal (1623-1662) fu l’unico che intuì quanto stava accadendo nel mondo delle idee, tanto da progettare un’apologia del cristianesimo di fronte allo scetticismo snob della nuova intellettualità salottiera, tuttavia fu «il campione di una causa persa» (p. 52), il giansenismo, che prendeva i difetti caratteriali del protestantesimo per scagliarli contro una cultura, quella barocca, che fu l’ultima ad unificare l’Europa. Autodistruggendo la propria forza retorica all’interno di una disputa paragonabile al classico «fuoco amico», Pascal perse, secondo Dawson, l’occasione per ribattere subito, da genio scientifico qual era, a chi cominciava a dividere ragione e scienza dalla fede religiosa.
Non è difficile individuare il libertinismo, con lo scetticismo alla Pierre Bayle (1647-1706), come origine remota dell’ideologia liberale. Ribellione all’assolutismo monarchico e al confessionalismo religioso si saldarono nel comune obbiettivo di costruire una società differente da quella ereditata. «Il processo di secolarizzazione fu un movimento storico non meno di quanto lo fu la Riforma, un movimento minoritario che fu trasmesso gradualmente a cerchie più ampie fino a conquistare le posizioni chiave d’influenza sociale e intellettuale attraverso le quali dominò la società europea» (p. 53), avvincendo a sé specialmente le classi mercantili emergenti. Il liberalismo fu in radice un movimento che aveva una posizione eminentemente religiosa, sebbene di senso contrario alla religione, e partecipò delle medesime dinamiche di diffusione di tutti i movimenti religiosi.
Dawson colloca il momento della rivolta culturale nella cosiddetta Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688, preparata remotamente in Olanda da un crogiuolo di intellettuali whig che sfruttò le paure dei protestanti per preparare sotterraneamente anche per loro una trasformazione radicale della «struttura tradizionale della società inglese. […] Fece dell’interesse personale una legge di natura destinata provvidenzialmente a servire il bene comune, cosicché l’amore del denaro si trasformò da radice di ogni male a movente principale della vita sociale», a danno soprattutto «delle condizioni di vita di contadini, piccoli proprietari e braccianti. […] Fu l’epoca che abbandonò il tradizionale atteggiamento cristiano verso i poveri e lo sostituì con una dottrina più aspra che considerava la povertà effetto della pigrizia e dell’imprevidenza» (p. 57).
Più discutibile l’assunto: «la risposta a Voltaire non venne né dalla Sorbona, né dai giansenisti, ma da Rousseau (Jean-Jacques (1712-1778)» (p. 72). Benché Rousseau abbia criticato il freddo razionalismo dei «colleghi», l’ideologia della volontà generale non è disgiungibile dal movimento antigerarchico e anticristiano che rappresenta tutto l’Illuminismo liberale. In esso si manifesta, sebbene in maniera più sottile, quella tendenza, già denunciata in Toynbee, che porta a separare, sebbene in una separazione di comodo, le fonti — in realtà unitarie — della Rivoluzione francese, con la seconda, quella più «social-popolare», considerata più sotterranea.
Dawson riconosce che «le origini della democrazia moderna sono così strettamente legate alla storia del liberalismo che districarle e distinguere il loro specifico contributo alla tradizione politica comune della moderna cultura occidentale è un problema considerevole» (p. 73). Lo storico, quindi, spiega nei particolari l’ideologia «differente» di Rousseau, ma gli elementi di maggiore interesse risiedono nel descrivere il fulgore di quei santi cattolici — come Paolo della Croce, al secolo Paolo Francesco Danei (1694-1775), fondatore della Congregazione della Passione di Gesù Cristo, i passionisti, e Benedetto Giuseppe Labre, detto il vagabondo di Dio (1748-1783) — che nel secolo XVIII sfidano apertamente il freddo razionalismo dell’Illuminismo, e nella lettura «religiosa» della Guerra d’Indipendenza americana (1776-1783). Si crea per la prima volta una spaccatura tra la cultura delle élite e il sentire del popolo. «La Chiesa manteneva ancora il suo potere sullo spirito degli uomini e le sue festività e i suoi pellegrinaggi giocavano ancora un ruolo importante nella vita della gente. Nell’età dell’Illuminismo esisteva una profonda corrente sotterranea di vita religiosa non meno importante per il fatto di essere ignorata dai filosofi e dai letterati» (p. 74). L’adesione delle grandi monarchie europee agli ideali del dispotismo illuminato fece sì che già prima del 1789 il governo degli Stati fosse solo formalmente legato ai segni ed allo spirito della sovranità sacrale. «Privò la Chiesa del suo tradizionale metodo di azione sociale e neutralizzò le sue attività per due generazioni» (p. 75), cioè fino alla caduta di Napoleone Bonaparte (1769-1821), nel 1815. Pertanto le nuove élite, consce del ruolo «regolativo» della religione nella compagine sociale, dovettero cercare «[…] una nuova forza spirituale destinata a colmare il vuoto creato dall’interruzione temporanea dell’azione del cattolicesimo» (p. 75). Questa, secondo Dawson, l’origine dei culti della Dea Ragione che si proverà ad imporre durante la Rivoluzione francese.
Nei futuri Stati Uniti d’America la democrazia sorgerebbe, invece, dai Church covenant del New England, dove la perfetta parità tra i membri si radica profondamente nella comune identità religiosa cristiana. «Questo principio d’ordine sociale contrattuale […] ha un’evidente analogia con la teoria di Rousseau, pur ammettendo la differenza teologica fra lo stretto calvinismo degli abitanti del New England del secolo XVII e il protestantesimo liberale dei cittadini di Ginevra del secolo XVIII» (p. 81), dove nei secoli precedenti aveva dominato una versione più totalitaria dello stesso. La Francia di Luigi XVI di Borbone (1774-1793) appoggiò la Rivoluzione americana per ridurre l’espansione coloniale inglese, introducendo involontariamente i germi democratici che l’avrebbero travolta, sebbene mascherati in una versione più «mistica» come quella statunitense. I filosofi americani accolti a Versailles, come Benjamin Franklin (1706-1790), erano gli illuministi peraltro più tendenzialmente europei presenti nel Nuovo Mondo.
La Rivoluzione francese
Dawson descrive, quindi, i prodromi e lo scatenarsi dei primi eventi rivoluzionari a Parigi, sottolineando la profonda unità d’intenti fra borghesia, intellettuali e nobiltà idealista, conquistati dai Lumi. «La verità era che il governo non aveva a che fare con l’opposizione di un partito, ma con un immenso movimento d’idealismo sociale che aveva la natura di una rinascita religiosa. Come si osservava dagli scritti di Paine [Thomas (1737-1809)] e di Franklin, una vera e propria religione, con un corpo di dogmi definito, per quanto semplice, aspirava a prendere il posto del cristianesimo come nuova era» (p. 101), cosa di cui gli ecclesiastici che accorsero entusiasti sotto le bandiere democratiche durante le prime fasi della Rivoluzione non si avvidero completamente. Con l’Assemblea Nazionale si assiste persino al tentativo, di una parte dei rivoluzionari, di contenere l’ondata scatenata dentro confini liberali, ma rigorosamente elitari. Tuttavia, il fuoco acceso continuò a camminare.
Dawson pone due capisaldi della sua lettura degli eventi successivi: l’istanza di riforma religiosa è congenita alla Rivoluzione ed è riscontrabile in molta stampa rivoluzionaria del periodo. Jean-Paul Marat (1743-1793) calcava sull’aspetto palingenetico fin dai primordi, puntando dritto alla «dittatura popolare» (p. 108). La massoneria, secondo un Dawson comunque molto lontano dal complottismo, rappresentò per il nuovo ordine «la sua gerarchia e la sua organizzazione ecclesiastica» (p. 101), in poche parole le cappelle e i sacerdoti della nuova religione dell’umanità.
A margine del capitolo non si può non notare il ruolo sinistro fatto assumere da Dawson ad alcuni illuministi americani: nell’eterna diatriba tra repubblica laicista e la «nation under God», lo storico cattolico sembra confermare l’esistenza, accanto ad una più religiosa, di una corrente fortemente laicistica fra i Padri fondatori degli Stati Uniti. Una corrente che non ha faticato a legarsi con le élite europee e a diffondere in Francia una lettura iper-libertaria della Rivoluzione americana.
La rivoluzione nel panorama religioso era quindi presente fin dalle sue premesse; essa trova un suo primo culmine nella Messa celebrata da Charles Maurice de Talleyrand (1734-1838), vescovo di Autun, ai Campi Elisi il 14 luglio 1790, poche ore dopo l’approvazione della Costituzione Civile del Clero, e prosegue fino ai culti rivoluzionari del Terrore. Era inevitabile, vista la stretta connessione tradizionale fra i due poteri, che una riforma del Trono comportasse un analogo passo nei confronti dell’Altare, ma i francesi architettarono una «riforma della Chiesa gallicana […] perfino più drastica della riforma della Chiesa d’Inghilterra da parte di Enrico VIII [1491-1547]» (p. 110). Benché esistesse ancora qualche ecclesiastico disposto a credere che la Rivoluzione incarnasse princìpi evangelici, la persecuzione del clero refrattario, cioè restio ad accettare la Costituzione Civile del 1791, rese chiaro a tutti che «ciò che la Rivoluzione chiedeva era una nuova religione civica che avrebbe avuto uno spirito interamente totalitario e che non avrebbe riconosciuto alcun dovere superiore al servizio dello Stato» (p. 112). La Costituzione Civile del Clero ebbe il merito di far venire allo scoperto la coscienza del re, Luigi XVI, che scriveva: «Ho chiuso con gli uomini, debbo volgermi a Dio» (p. 120). Dawson non descrive la decapitazione del re, nel gennaio del 1793, poiché il Terrore è cominciato già nei massacri nelle carceri parigine del settembre 1792. Uccidendo soprattutto inermi sacerdoti, i massacri rivelarono pienamente il volto anticristiano della Rivoluzione, inutilmente arginato dal moderatismo dei primi anni. Lo storico non ha remore nel definire chiaramente totalitario il governo rivoluzionario, così come più avanti nel libro accoglierà pienamente dalla storiografia specializzata la categoria di genocidio per la guerra di Vandea (1793-1796).
Dawson accoglie pure la tesi che vede la Contro-Rivoluzione preparata remotamente dalla predicazione di san Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716). Anche i rivoluzionari hanno i loro missionari: «il lavoro di questi missionari del terrore non si limitava alla repressione dell’insurrezione: erano anche missionari della rivoluzione sociale e della propaganda anticristiana» (p. 140). Del resto, i giacobini si sentivano gli apostoli di una nuova religione. «Le buffonate blasfeme degli hebertisti offendevano però il sentimento religioso non solo dei cattolici, ma anche del deismo ortodosso di uomini come Robespierre» (p. 141). Da qui l’idea di istituzionalizzare in un calendario e in una nuova ritualità le credenze laiche incentrate sul culto della Ragione, a cui venne dedicata a Parigi la stessa cattedrale di Notre-Dame. «Il principale rappresentante e portavoce di questo credo giacobino era Robespierre […]. Egli era il papa della nuova Chiesa, e nessun papa era mai stato più determinato nel rivendicare la supremazia del potere spirituale» (p. 148). La sua caduta non fu la fine degli «dei della Rivoluzione»: concluso il terrore della Montagna, il potere tornò idealmente alla Rivoluzione «borghese», ma l’atteggiamento religioso di fondo non si modificò.
Ritorna allora, nella penna di Dawson, la distinzione tra «l’ordine dell’egoismo» e «l’ordine dell’uguaglianza», con «l’atteggiamento razionalista anticristiano» che combacia con il «liberalismo borghese», mentre nella corrente di Rousseau si noterebbe un «deismo mistico […] che aveva una sicura inclinazione verso gli ideali morali cristiani» (p. 149).
Il colpo di Stato termidoriano fece ufficialmente identificare il solo Robespierre «con il sistema terroristico» (p. 161), un po’ come accadrà nel 1956 con Iosif Vissarionovič Džugašvili «Stalin» (1878-1953). L’ironia sottile del titolo del capitolo VIII — «Cambia il corso degli eventi» — individua, invece, una profonda continuità: i giacobini più furbi e più capaci si riciclano senza battere ciglio in un sistema che prova a tornare alla fase del 1789-1791. I nuovi girondini «[…] riempirono le città di brutali dandy che scacciarono dalle strade i sansculottes» (p. 163): i nuovi ricchi, quelli che si erano arricchiti con la Rivoluzione, avevano tutto l’interesse a preservare lo status quo raggiunto e a non far evolvere la situazione sia verso il ritorno della monarchia che verso forme più radicali. La continuità rivoluzionaria è riscontrabile soprattutto nel persistere dell’ostilità verso il cattolicesimo. Nel 1795 la repressione toccò di nuovo i cattolici, dopo lo specchietto per le allodole della pace del 17 febbraio 1795, in realtà un armistizio. Il generale Bonaparte si mise in luce proprio durante la repressione di un tumulto monarchico parigino: Dawson, però, non segue le vicende di Napoleone e la narrazione degli accadimenti rivoluzionari si interrompe prima del colpo di Stato del 1799 che lo porterà al potere. Al posto della campagna d’Italia, che pure poteva essere interessante da analizzare con il suo stile, molto attento alle dinamiche religiose, per via dei numerosi sacrilegi e della deportazione del Papa Pio VI (1774-1799), il capitolo si chiude sull’episodio proto-socialista di Francois-Noël «Gracchus» Babeuf (1760-1797), del quale Dawson individua il passaggio dal socialismo cosiddetto «utopistico» al concetto, fondamentale per il futuro marxismo, di «lotta di classe», concepita dalla Congiura degli Eguali come una «Vandea plebea». «Che cos’è, in generale, una rivoluzione? — chiedeva — Che cos’è, in particolare, la rivoluzione francese? Una guerra aperta fra patrizi e plebei, fra ricchi e poveri» (p. 173).
L’impatto della Rivoluzione
Accadde quello che fin da Tertulliano (160 ca.-220 ca.) si è abitualmente osservato nei periodi di persecuzione: il sangue dei cristiani è seme di nuovi battezzati. «Il cristianesimo, che era stato relegato da Voltaire nelle scuderie e nelle retrocucine, fu riportato a corte e nel salotto» (p. 177), tanto che perfino Auguste Comte (1798-1857), che nel secolo XIX aveva provato a risuscitare il razionalismo e i culti laici, secondo Dawson subì il fascino del risveglio cattolico, con il quale voleva gareggiare. La Rivoluzione uccide nell’ideale (non sempre nella pratica) il controllo statale della Chiesa noto come «giuseppinismo» — dalla politica ecclesiastica dell’imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena (1741-1790) —, vigente soprattutto nei Paesi di lingua tedesca. Da americano d’adozione, Dawson si rallegra dell’instaurarsi spontaneamente, fra i popoli europei, di un atteggiamento quasi «statunitense» nell’approccio alla religione: «cinquant’anni prima, quando il conformismo religioso era imposto dalla legge e la gente era obbligata a esibire attestati di fede professata, la generazione nascente crebbe infedele: ora invece che le chiese erano chiuse e il clero refrattario diceva messa in segreto a rischio della vita, la religione assunse nuove prospettive di vita» (p. 181), incarnate in particolare da Giovanni Maria Vianney (1786-1859), il santo curato d’Ars, che fece la prima comunione in un granaio.
Colui che più di altri diede un pensiero a questa rinascita fu Joseph de Maistre, da Dawson definito: «[…] un profeta ebraico: i problemi di cui si occupò furono infatti fondamentalmente gli stessi che si ritrovarono di fronte Giobbe o Geremia: il problema della sofferenza e del male e la giustificazione degli oscuri propositi di Dio nella storia» (p. 183). «De Maistre considerò la Rivoluzione un fuoco purificatore, nel quale le forze del male furono impiegate contro la loro volontà e a loro insaputa come agenti di espiazione e di rigenerazione» che avrebbero condotto «verso la restaurazione dell’unità della Cristianità e della libertà e dell’universalità della Chiesa» (p. 185), abbattendo il giurisdizionalismo e il gallicanesimo, cioè i vincoli che soffocavano la religiosità autentica.
Dawson affianca a Maistre il poeta Novalis (Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg, 1772-1801) nell’efficacia con cui fotografa il desiderio di una restaurazione sia civile che religiosa. Tuttavia, il Romanticismo fu molto più ambiguo nei confronti della religione, come Dawson mostra con l’esempio del poeta inglese William Blake (1757-1827), entusiasta della Rivoluzione francese, da lui sostenuta con il furore mistico di un cristiano orgogliosamente eretico. Ad ogni modo, Dawson evidenzia come «una risposta più terribile all’ottimismo superficiale dell’epoca di Luigi XVI non avrebbe potuto essere data che dai venticinque anni di rivoluzione e guerra dal 1790 al 1815, e non sorprende che gli spiriti più sensibili che contemplarono questo prolungato spettacolo di miseria fossero non solo indotti ad abbandonare le loro illusioni, ma a dubitare dei principi che avevano costituito le fondamenta di tutto il loro pensiero» (p. 182).
La Rivoluzione francese, presentandosi come «la completa riorganizzazione dell’ordine sociale» (p. 197), si preparava ad avere un effetto sull’intero continente. Benché il resto d’Europa non possedesse la medesima fragilità sociale della Francia, erosa da giansenismo e riduzione dell’aristocrazia a «lacchè» del re assoluto, l’Illuminismo aveva comunque predisposto dei cambiamenti sociali consistenti. «Rivoluzioni sociali e politiche consapevoli, che nell’Europa moderna si danno per scontate, sono straordinariamente rare nella storia. Esse accadono solo quando una civiltà ha perso la sua unità spirituale e sta subendo un processo di trasformazione interna» (ibidem). L’elemento di crisi e di trasformazione era «[…] quella religione dell’umanità che era stata la creazione del pensiero del secolo XVIII» (p. 198), armato contro il cristianesimo.
Qualcosa di «sovraumano», come scriveva Joseph de Maistre, che vide in Napoleone e nelle sue baionette «il più grande dei suoi strumenti» (p. 199). Dawson cita il discorso di Bonaparte del novembre 1800, a un anno dal colpo di Stato del 19 brumaio, in cui egli affermava di compiere il passaggio dal «romanzo della Rivoluzione» alla concretezza della storia. «Per mezzo suo la Francia diventò il primo Stato nazionale moderno con il primo codice di leggi razionalizzato e con il primo sistema d’istruzione nazionale statale unificata» (p. 199). L’imposizione manu militari di questo modello ai territori conquistati provocò una radicale trasformazione sociale anche nel resto d’Europa, cosicché fu necessario preservare, nel 1815, «conquiste» che avevano creato una nuova base sociale.
Dawson si sofferma poi sull’Inghilterra, dove l’Illuminismo «alla francese» fu un movimento ancora più elitario che in Francia, conquistando soltanto gli strati sociali più alti. Il panorama culturale e religioso era infatti dominato dal metodismo, una forma di risveglio religioso protestante che si radicò profondamente su un tessuto già lavorato dal puritanesimo del Seicento. La principale corrente laica era costituita, nel Settecento inglese, dagli economisti che supportarono la Rivoluzione Industriale, con esiti che andavano dal pragmatico al disumano, come si evince nelle teorie utilitariste ed anti-nataliste di Jeremy Bentham (1748-1832) e Thomas Malthus (1766-1834). È anche il motivo per cui il Romanticismo inglese non dimenticò, in molti casi, elementi di lotta sociale strettamente connessi a questi fenomeni. Il disagio non si trasformò in un’altra rivoluzione politica perché la Rivoluzione industriale, pur provocando anch’essa una radicale trasformazione sociale, ampliò il benessere e i consumi. «Nonostante enormi sofferenze causate dall’individualismo e dalla competizione sfrenati del nuovo ordine industriale, vi fu un ampio incremento di potenza materiale e di prosperità, che rese possibile all’Inghilterra di resistere da sola contro l’Europa nel periodo napoleonico» (p. 205), non fosse altro per l’immenso impero coloniale al di fuori dei confini europei. «La sconfitta di Napoleone fu così una vittoria non tanto del vecchio regime e delle forze europee della reazione politica, ma della nuova società economica» (p. 206) gravitante sulla fabbrica.
Tutte le rivoluzioni politiche del secolo XIX dipendono in qualche modo dal modello liberale della Rivoluzione francese. Tuttavia l’ascesa della borghesia in Europa fu ugualmente, se non maggiormente, caratterizzata dall’instaurarsi dell’economia industriale, dalla quale, di contro, venne anche lo spettro socialista, cosicché un secolo che si era aperto con Napoleone primo console si chiuse con Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924) che progettava il regime comunista russo.
Dawson ascrive «il trionfo della tecnologia» proprio all’Inghilterra industriale, dove gli scienziati erano ancora ispirati da una concezione cristiana e platonica di un Dio sovrano di un «ordine intelligibile del mondo» (p. 209) e l’imprenditoria era guidata da un’etica calvinista della doppia predestinazione (all’inferno o al paradiso), incistata nel puritanesimo e rafforzata dal metodismo. Le due tendenze furono unite e laicizzate dagli economisti liberali, fino a costituire una società tendenzialmente egoista. Tuttavia, rimase una netta differenza di fondo fra il liberalismo franco-europeo e quello inglese: mentre il primo è discendenza diretta della Rivoluzione francese e rimase anticlericale, se non antireligioso, il secondo fu sempre consapevole delle proprie radici fra i cosiddetti gruppi «non conformisti» del panorama ecclesiastico britannico. I non conformisti, il cui elemento di spicco erano i puritani, erano tutti quei protestanti che fin dal secolo XVII si rifiutavano di riconoscere la Chiesa anglicana di Stato ed erano favorevoli ad una sua evoluzione in senso calvinista.
Il socialismo del secolo XIX aveva soprattutto caratteristiche non marxiste. John Stuart Mill (1806-1873) credeva in una giustizia sociale portata dalla tecnologia tramite gli scienziati, ma come politico fu un totale fallimento. La linea marxista del socialismo, che partì proprio da Londra con il Manifesto del 1848, fu sostanzialmente ignorata nella sua crescita e condusse a una conversione dei movimenti socialisti verso «politiche di potere e all’uso della forza» (p. 213) fotocopia, secondo Dawson, di quelle che muovevano gli Stati europei a costruirsi un impero coloniale. Friedrich Nietzsche (1854-1900) non fece altro che portare all’estremo questa logica di dominio nella sua filosofia della volontà di potenza elevata ad unico criterio morale. L’illusione della pace negli ultimi decenni dell’Ottocento fu data dal fatto che «l’uomo comune non sapeva nulla delle forze demoniache che stavano agitando la coscienza europea» (ibidem), che avrebbero eroso ciò che rimaneva della visione tradizionale cristiana fino a lasciare il singolo cittadino e la coscienza continentale in balia di due mostri che si affronteranno per gran parte del secolo XX, il liberal-nazionalismo e il comunismo.
Molto angloamericano è in Dawson attribuire la colpa della Prima Guerra Mondiale (1914-1919) principalmente alla Germania come peggiore incarnazione della fusione tra Stato totalitario e Stato assistenziale, con Adolf Hitler (1889-1945) a portare alle estreme conseguenze un programma nichilistico avviato da Otto von Bismarck (1815-1898), o non provare molto rimorso per la scomparsa del Sacro Romano Impero già nel 1806, definito come un insieme di «pittoresche assurdità» (p. 199), secondo lui più figlio dell’impero di Carlo V d’Asburgo (1500-1556) che di Carlo Magno (742-814). La Germania dei Kaiser non era, tuttavia, molto diversa dagli altri Stati europei corresponsabili della deflagrazione del 1914 e il Sacro Romano Impero era come ideale qualcosa di decisamente più grande della sua sistemazione rinascimentale, giunta fino a Napoleone.
Terminando l’opera, Dawson esorta la cultura occidentale a guardare nuovamente al cristianesimo per uscire dalle rovine in cui si è precipitata e riacquistare unità morale, spirituale, civile. Pur essendosi trasferito negli Stati Uniti, Dawson definisce la cultura europea la «nostra civiltà» (p. 218), confermando in coda la prospettiva da «Magna Europa» con la quale si è apprestato a riflettere agli inizi sulla Rivoluzione francese.
Note:
(1) Christopher Dawson, Gli dei della Rivoluzione, a cura di Paolo Mazzeranghi, prefazione di mons. Luigi Negri, D’Ettoris Editore, Crotone 2015. Tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(2) Cfr. elementi biografici più dettagliati in P. Mazzeranghi, Christopher Dawson (1889-1970), in Dizionario del Pensiero Forte, nel sito web <http://alleanzacattolica.org/christopher-dawson-1889-1970>, consultato il 28-10-2017, e Idem, Christopher Dawson, un «chierico» per il Terzo Millennio. Presentazione, in C. Dawson, La religione e lo Stato moderno, trad. it., a cura di P. Mazzeranghi, D’Ettoris, Crotone 2007, pp. 7-28, nonché in Marco Respinti, Christopher Dawson: un apologeta dopo la divisione della Cristianità Occidentale. Presentazione, in C. Dawson, La divisione della Cristianità Occidentale, trad. it., a cura di P. Mazzeranghi, D’Ettoris, Crotone 2009, pp. 7-17.
(3) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009, pp. 9-28.