Paolo Mazzeranghi, Cristianità n. 382 (2016)
Il 7 ottobre 2015 è stato pubblicato, nella collana Magna Europa. Panorami e voci, diretta da Giovanni Cantoni, La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, dello scrittore, storico e politico svizzero Gonzague de Reynold, presentato e curato dallo stesso Cantoni, che da oltre trent’anni ne approfondisce il pensiero e che ne ha proposto in più occasioni brani significativi al lettore italiano sulla rivista Cristianità da lui fondata.
Il conte Louis-Gonzague-Frédéric-Marie-Maurice de Reynold de Cressier nasce il 15 luglio 1880 a Friborgo, nell’omonimo cantone della Confederazione Elvetica. Dopo aver conseguito il baccellierato in Lettere nel locale Collège Saint-Michel, prosegue gli studi a Parigi, alla Sorbona e all’Institut Catholique, e successivamente all’università di Friburgo in Brisgovia, in Germania. Nel 1905 sposa Marie-Louise de Reding Biberegg (1885-1963), di antica famiglia aristocratica del Canton Svitto, da cui ha tre figli. Nel 1909 si addottora alla Sorbona. Dal 1912 all’università di Ginevra, è prima libero docente di Storia della Cultura Svizzera, quindi incaricato di Letteratura Francese. Nel 1914 crea e dirige, con il grado di maggiore, l’Ufficio Conferenze dello Stato Maggiore dell’Esercito. Dal 1915 al 1929 è ordinario di Letteratura Francese all’università di Berna. Nel 1922 è nominato rappresentante della Confederazione Elvetica nella Commissione Internazionale della Cooperazione Intellettuale della Società delle Nazioni, della quale fanno parte eminenti esponenti della cultura europea dell’epoca. Dal 1924 è presidente dell’Union Catholique d’Études Internationales. Dal 1930 al 1950 insegna Storia della Civiltà Moderna all’università di Friborgo. Muore in quella città il 9 aprile 1970. Scrittore prolifico e studioso di ampi orizzonti, spazia dalla letteratura ― particolarmente con l’opera Histoire littéraire de la Suisse au XVIIIe siècle (1912) ― alla storia elvetica ― con Cités et Pays suisse (1914-1920) e La démocratie et la Suisse. Essai d’une philosophie de notre histoire nationale (1929, 1934), che gli costa la cattedra di Berna ― alla grande storia, con quella che è ritenuta la sua opera principale, La formation de l’Europe (1944-1957), all’osservazione del reale politico, con L’Europe tragique (1934). L’autobiografia Mes Mémoires (1960-1963) costituisce occasione per ricostruire i momenti e le espressioni del proprio percorso intellettuale. Uomo di profonda quanto spontanea vita spirituale, affianca agl’interessi letterari e storici un’intensa attività civica.
La Casa Europa è costituito da una raccolta dei testi ― riportati integralmente, comprese le ripetizioni pressoché letterali, nella forma dall’autore stesso elaborata per la pubblicazione in forma di saggio ― di conferenze, oltre a un dattiloscritto autografo. Le riflessioni che vi compaiono concorrono all’illustrazione della costruzione storica dell’Europa, della sua crisi e del suo futuro, a diversi livelli di approfondimento corrispondenti al contesto in cui sono state svolte. Nella presentazione, Giovanni Cantoni ripercorre le tappe del suo personale interesse per l’opera di Gonzague de Reynold, fa stato di quanto già pubblicato in italiano e non troppo difficilmente reperibile da parte del lettore interessato, e fornisce ampi cenni bio-bibliografici. Per collocarne la produzione intellettuale nell’ambito storico in cui prende forma, motivando anche giudizi passim contenuti nella presente raccolta e inquadrando le frequentazioni, talvolta personali, più spesso epistolari, che l’autore ebbe con personaggi politici europei dell’epoca, Cantoni chiude la presentazione con un cenno alle esperienze autoritarie cattoliche del periodo compreso fra le due guerre mondiali; quando cioè la responsabilità delle sorti di alcuni Paesi europei nelle drammatiche circostanze dell’epoca, che richiedevano un’intensificazione del momento potestativo da parte dello Stato, cadde su statisti cattolici.
Nel primo saggio, La costruzione della Casa Europa (1950-1951), Gonzague de Reynold espone alcune concezioni storiche ricorrenti nelle sue opere. Pur non spregiando un approccio scientifico-analitico nello studio della storia, dichiara di voler privilegiare una storia sintetica, «[…] che evidenzi le linee di forza e ci permetta di seguirle dalla loro origine fino agli avvenimenti contemporanei» (p. 31), una visione storica in grado di «[…] evocare il passato, di restituirgli vita, di mettersi nei suoi panni, nel suo spirito e nel suo cuore; la capacità di conoscere e di comprendere quanto gli uomini del passato hanno amato, voluto, cercato, trovato, realizzato» (pp. 34-35) e uno studio non fine a sé stesso, ma al servizio della vita associata: «Fino allo scientismo e al determinismo del secolo XIX, si sapeva che la storia aveva un fine: insegnare agli uomini a vivere in società. Era una grande esperienza che doveva servire all’educazione dei re e dei popoli» (p. 32). Per restituire senso alla storia, ritiene si debba rifuggire dalle periodizzazioni correnti ed esaminarla come successione di «epoche», fasi che coprono lo spazio fra due grandi cambiamenti e nelle quali una civiltà è mossa, consapevolmente o meno, da una certa idea dell’uomo e del suo destino, e di «periodi vuoti», grandi crisi in cui si assiste all’esaurimento di tale principio vitale e all’emergere dello spirito dell’epoca successiva, che ne mina le basi. Ben consapevoli della complessità della storia, si avrà cura di non banalizzare tale scansione, «[…] di non isolarla dagli altri grandi movimenti della storia, di non dimenticare gl’incastri e gli scontri. Per esempio, ogni epoca si prepara in quella che la precede e continua in quella che la segue. Vi sono permanenze e sopravvivenze» (p. 43). Proprio i periodi vuoti, in cui si prepara il passaggio di testimone fra le epoche della civiltà, dovrebbero attirare la massima attenzione dello storico per la loro fatidicità: «Ogni epoca, ogni società, ogni forma di civiltà lascia un’eredità. Durante i periodi vuoti, non dobbiamo affatto cercare i salvatori della civiltà nelle grandi organizzazioni statali o sociali, ma nella piccola minoranza attiva, coraggiosa e silenziosa che si è data la missione di raccogliere e di trasmettere i valori essenziali dell’epoca precedente. Ecco gli esecutori testamentari! Serve anche un erede. Se non esiste affatto, se è troppo straniero e troppo barbaro, l’eredità finirà sotto terra dove, molti secoli dopo la catastrofe, archeologi ne esumeranno i resti» (p. 40). Delle cinque epoche che lo storico svizzero individua a partire dal neolitico — «[…] quella dei clan e delle tribù, quella delle città, quella degl’imperi, quella della cristianità e infine quella dell’uomo» (p. 42) — particolarmente importanti sono le ultime due, che segnano rispettivamente l’affermazione e la crisi dell’Europa. La penultima «[…] si disgrega come le altre in un breve e ridotto periodo vuoto il cui marchio è la rottura successiva di tutte le unità, a partire dall’unità religiosa. Dopo di che si entra nella quinta epoca: la denomino quella dell’uomo, perché allora l’uomo diventa fine a sé stesso e misura di tutte le cose» (p. 43). Con l’immagine mnemonicamente efficace della casa, imposta lo schema guida dell’intero saggio: «In un terreno descritto e delimitato dalla geografia, la preistoria ha scavato le fondamenta sulle quali la storia ha edificato la nostra dimora europea. Un pianterreno greco, un primo piano romano, un secondo piano barbarico. Ma la dimora è stata portata a termine, è divenuta abitabile soltanto quando il cristianesimo ha posto su di essa il suo tetto» (p. 44). Dopo una lunga meditazione sulla geografia, volta a illustrare come anche le caratteristiche naturali di quella estrema propaggine occidentale del continente asiatico che è l’Europa rendono ragione delle sue caratteristiche umane e storiche ― formazione e radicamento di molteplici gruppi umani, relazioni e scambi ma anche scontri ed emigrazione, in definitiva un carattere dinamico e allo stesso tempo drammatico, opposto alla staticità e al fatalismo orientale ― e dopo aver ripercorso la genesi del termine Europa e il suo ampliarsi, partendo dall’area cretese per estendersi all’Ellade e infine, oltre le montagne della Tracia, al Nord barbarico, l’autore passa all’esame dei vari «piani». Il contributo della Grecia è individuato nell’affermazione del valore della persona e nella concezione di un cosmo animato dalla bellezza e dall’armonia. La percezione, che la grecità ebbe, di non essere un fatto di stirpe ma di cultura, gli fa definire la Grecia come Proto-Europa. La missione dell’impero romano è stata principalmente quella di unificare economicamente e politicamente il mare nostrum con le regioni del Nord che ha conquistato per motivi di sicurezza, di «stabilire i quadri di quasi tutte le nazioni europee, elevare alla coscienza di nazioni popoli ancora incapaci di alzarsi da soli, farli passare dallo stato barbaro allo stato civilizzato, metterli in relazione gli uni con gli altri» (p. 72), nonché di dare al proprio mondo pace e ordine attraverso la concezione dello Stato, l’esperienza amministrativa e il diritto. Del «secondo piano» barbaro ― celti, germani e successivamente slavi ― delinea le modalità d’incontro-scontro con l’impero e il contributo alla cultura della nascente Europa. «[…] i Celti erano anche esseri poetici, immaginativi, mistici. Le loro credenze rivelano una spiritualità che i Germani non possedevano» (p. 70), spiritualità che si rivelerà nei tratti del monachesimo irlandese; il loro destino fu di essere presto civilizzati o vinti. I germani, premuti da rilevanti masse umane provenienti dall’Asia, entrano nell’impero come devastatori, ma, scarsi di numero e deboli politicamente, accettano l’eredità politica di Roma. L’incontro avviene in un momento particolare. Con l’interruzione del sogno di Alessandro Magno di un’ecumene greca e con l’orientalizzazione dei regni ellenistici; con il tentativo disperato del Basso impero romano, un corpo smisurato sempre più simile a un dispotismo orientale, di sopravvivere con gli strumenti del socialismo di Stato, della fiscalità esasperata, della dittatura militare, la nostra civiltà sembra entrare in una crisi mortale: l’unità politica manca di un principio superiore di unificazione, una morale comune fondata su una comune religione, che non trova nella divinizzazione dell’imperatore o nei culti orientali. Ecco giungere il cristianesimo, religione storica, non mitologica, che si inserisce nella dinamica generale della civiltà antica: «Aumenta, si arricchisce di tutte le esperienze che la storia lo costringe a fare e di tutta la sostanza che attinge dalle grandi forme della civiltà. La sua infanzia è ebrea e impara a leggere nell’Antico Testamento da cui assorbe il genio dell’Asia Anteriore, la Pre-Europa. Riceve la sua educazione intellettuale nel mondo greco. Riceve la sua educazione politica, amministrativa e giuridica nel mondo romano. Presto è chiamato a succedergli, a prendersi in carico il mondo barbaro: proprio a quel punto completerà l’Europa ponendo il tetto sulla casa» (p. 79). Cristianesimo che, se confrontato con le religioni dell’antichità, manifesta un carattere «moderno»: «Restituiamo qui a questo aggettivo e al sostantivo modernità il loro senso esatto: non l’amore della novità, il rinnegamento dell’esperienza, della tradizione, del passato; ma la capacità progressiva, la forza d’assimilazione, il cammino e il combattimento, sempre nella stessa direzione seguendo le linee di forza» (p. 79).
La necessità di civilizzare il Barbaricum porta a quello straordinario sforzo di conservazione di quanto rimaneva della cultura intellettuale antica e di produzione di opere nuove in lingua latina che connota la tarda antichità cristiana e l’Alto Medioevo, accompagnato, peraltro, dalla conservazione della poesia e delle leggende nordiche ad opera della Chiesa come testimonianza di un’anima naturaliter christiana. Al salvataggio della lingua e della cultura si aggiunge il salvataggio dell’impero, presidio di pace e di ordine. La conversione dell’impero e la conversione del Barbaricum producono quel prodigio storico che fu il Sacro Romano Impero, nella fase carolingia e nella sua storia successiva. «La ragion d’essere del Sacro Impero romano germanico, del primo Reich come è stato definito, fu l’unità del mondo cristiano e la sua difesa contro gli infedeli. Quando i Germani, a cui la Chiesa aveva consegnato la spada, ebbero coscienza di questa missione, furono costruttori e difensori; con il franco Carlo Magno hanno fatto l’Europa. Ma la demolirono quando presero in considerazione solo il loro germanismo, sia in religione, sia in politica» (p. 72). Fra i contributi germanici «il più importate è il diritto. […] Tra questi due poli del diritto romano: l’individuo e lo Stato, il Deutsches Recht inserisce i corpi intermedi e gli ammortizzatori che impediscono all’individuo, termine debole, di essere assorbito dallo Stato, termine forte. […] Per riassumere, c’è un diritto europeo che è il diritto stesso. Ciò che lo ha costituito è la sintesi di diritto romano, diritto canonico e diritto germanico» (p. 73). Dopo secoli di lenta e faticosa ricostruzione, soggetta a terribili pressioni dall’esterno, la Cristianità, composta dalla società dei fedeli sotto l’autorità del Papa e dalla società delle nazioni cristiane sotto quella dell’imperatore, dispiega le sue potenzialità.
«I due grandi secoli: XI e XII, hanno visto fiorire una civiltà uguale e persino superiore a quella greca. Rinascita dell’arte, rinascita della filosofia, rinascita della poesia; rinascita del latino e nascita delle letterature in lingue nazionali; rinascita del diritto; rinascita delle città, del commercio, della navigazione, della prosperità. Ci fu allora una vita internazionale; ci fu allora un’Europa» (p. 95). Non sottratta alla caducità delle realtà umane post peccatum, l’epoca della Cristianità è progressivamente minata dalla rottura delle grandi unità che aveva saputo realizzare. Rottura dell’unità sociale, con disordini e rivolte contadine e urbane; dell’unità politica, con la crisi di legittimità dell’istituto imperiale, a cui non è estranea la lotta con il Papato, e con la frammentazione della Cristianità in nazioni; della pace cristiana, con la violazione delle restrizioni alla guerra imposte dalla Chiesa; dell’unità intellettuale, con la crisi della grande sintesi teologica e filosofica del secolo XIII; dell’unità artistica sia a livello architettonico che delle arti figurative e della letteratura; soprattutto, la rottura dell’unità religiosa, con il grande scisma d’Occidente e il proliferare delle eresie che apriranno la strada alla Riforma protestante. «L’unificazione interna alla quale era giunta l’epoca della Cristianità si è rotta a sua volta e l’uomo soffre di essere diviso tra la terra e il cielo» (p. 98). Inizia l’epoca dell’uomo, secondo la periodizzazione utilizzata dal pensatore svizzero, dominata dall’individualismo, ma «[…] l’uomo da solo è un troppo debole sostegno per l’universo. Il peso della civiltà detta moderna lo schiaccerà» (p. 99). A fronteggiare la febbrile epoca dell’uomo, corrispondente ai secoli XVI, XVII, XVIII, non basta l’immenso tesoro accumulato nei secoli della Cristianità e il prodigioso sforzo della Riforma cattolica fra il XVI e il XVII secolo, alla base dell’età del barocco e del classicismo, che «rappresenta una diga tra la corrente dell’umanesimo individualista e naturista e quella delle idee “filosofiche”. Rappresenta un ritorno alla civiltà, dopo una flessione verso la barbarie di cui le guerre di religione erano state la prima causa. Rappresenta una restaurazione dell’ordine e del pensiero. Riordina i valori disparati e disuguali che il Rinascimento aveva accumulato» (pp. 101-102). Se il secolo XVI è quello della rivoluzione religiosa, il XVIII illuminista è il compimento di una rivoluzione intellettuale che porta dall’anticattolicesimo all’anticristianesimo: «Presto sarà attaccato il sentimento religioso. Sarà attaccato anche l’ordine politico e sociale, in modo che la rivoluzione nelle idee preceda e prepari la rivoluzione nei fatti» (p. 103). «[…] l’ancien régime, che era iniziato come tutti i regimi per essere nuovo e anche rivoluzionario contro il suo regime precedente, il feudalesimo […] entra nel suo periodo di dissoluzione. Non crede più in sé, non ha più un’anima, è già morto» (p. 104). Dalla Rivoluzione francese, una cascata di eventi di enorme portata, suoi frutti diretti o indiretti, fino al secolo XX, con la Prima Guerra Mondiale, la rivoluzione sovietica in Russia, la rivoluzione tedesca, la Seconda Guerra Mondiale, scandiscono la fine dell’epoca dell’uomo.
Nel dattiloscritto autografo L’Unità dell’Europa. Gerusalemme, Atene, Roma, l’autore esamina in dettaglio il contributo delle singole componenti a cui comunemente si ascrive la genesi della civiltà europea. Da Gerusalemme la fede in un Dio unico che stipula storicamente un’alleanza con il popolo che si è scelto, con la conseguente idea di un amore di Dio per la sua creazione e per gli uomini, di un’azione continua di Dio nel tempo, in altre parole un’idea di provvidenza che sconfigge ogni fatalismo degli antichi e ogni determinismo dei moderni. Il cristianesimo ne trae una nuova visione della storia, che inizia con il peccato originale ed è sostanziata dalla peregrinazione degli uomini fino alla fine dei tempi, quando i fedeli avranno raggiunto lo scopo verso cui Dio li ha condotti. Alle carenze di universalità e di intellettualità della Sacra Scrittura, che si rivela quando esce da Gerusalemme per insegnare a tutte le nazioni, il cristianesimo ovvia con il contributo della Grecia, con la sua insostituibile riflessione sulla natura, sull’uomo, sulla città, con la sua idea di ordine, di armonia, di bellezza, con l’articolazione fra l’uomo e la società. «L’intelligenza cristiana non poteva che essere attirata dall’intelligenza greca nella quale vedeva una rivelazione secondo la ragione» (p. 133). Quanto al contributo di Roma, viene ribadita, qui come in altri saggi della raccolta, la drammaticità del momento in cui l’impero e il cristianesimo si incontrano, e di come i cristiani sanno riconoscere l’aspetto positivo e provvidenziale di tale realtà politica nello stesso momento in cui questa maggiormente infierisce contro di loro. «Nel mezzo della degenerazione pagana, ciò che il cristianesimo aveva preparato è una razza di uomini fisicamente sani, moralmente energici e religiosamente pii, una razza che si mostra già capace di assumere il governo di un impero invecchiato» (p. 141). Proprio questi uomini salvano la civiltà e le istituzioni, realizzano la fusione della Romania con il Barbaricum e rendono possibile, con Carlo Magno, la nascita dell’Europa. Il genio e la civiltà europei sono dunque opera del cristianesimo. «Gerusalemme poteva fornire all’Europa un principio spirituale, la Grecia un principio intellettuale, Roma un principio politico. Ma il cristianesimo era l’unico a poter operare la sintesi di questi tre princìpi» (p. 119). Ne nasce il particolare rapporto che lega cristianesimo ed Europa.
«È vero che il cristianesimo non ha il fine di produrre una civiltà: il suo fine è la salvezza delle anime. Ma è indubbio che il cristianesimo fu il fermento della sola civiltà che si sia rivelata capace di universalità. Il cristianesimo non è inchiodato all’Europa come se fosse solo una religione europea, ma non sarebbe capace di rinnegare l’Europa senza perdere esso stesso la sua sostanza intellettuale, senza rinunciare all’influenza creatrice e civilizzatrice del suo principio spirituale» (p. 149).
Nel saggio Dove siamo; il mondo che muore, il mondo che nasce (1935) lo storico compie una panoramica dei fatti salienti del 1934 sulla scena politica internazionale, individuando motivi che, se paiono suggerire un cauto ottimismo rispetto agli anni precedenti, nella prospettiva lunga che costituisce il nucleo della sua concezione storica non fanno che confermare la fine, con il secolo XIX, di un’epoca, che, nella sua forma ultima, la civiltà borghese, appare ai suoi occhi come un ancien régime, un mondo che muore. Quest’epoca è la civiltà moderna, frutto della componente pagana e naturalista del Rinascimento, della Riforma e della Rivoluzione francese. «A partire dal momento in cui si è proclamato che l’individuo è autonomo, possiede un valore intrinseco, superiore a tutti i valori dell’ordine sociale e dell’ordine morale; a partire dal momento in cui si è fatto dell’individuo l’unità generatrice della società, della nazione, dello Stato, della Chiesa, e anche di Dio e della legge divina; a partire dal momento in cui si è dichiarato che l’uomo è la misura di tutte le cose, la rivoluzione è compiuta. Resta solo da lasciare che si propaghi, che produca tutte le conseguenze pratiche, che precipiti lungo il suo pendio» (p. 167). Il saggio si chiude con un appello al ruolo dei cattolici nel periodo di transizione che il mondo attraversa, connotato, come tutti i periodi di transizione, dal disordine e dalla violenza. «Signori, piaccia o non piaccia, dobbiamo accettare il nostro tempo, perché non abbiamo il potere di non esservi e perché la Provvidenza ci ha posto qui per compiervi la sua opera» (p. 172). Il primo dovere di un ceto intellettuale cattolico in un periodo vuoto è quello della comprensione delle forze in gioco, dei danni inferti all’umanità, sia individualmente che socialmente, dalla Rivoluzione, dei punti di innesco di un lento e difficile processo di restaurazione: «Condanniamo dunque le teorie, gli errori con tutte le nostre forze; ma, nei confronti di quanti le applicano o le subiscono, nei confronti degli uomini viventi e dei popoli sofferenti pratichiamo la carità nella sua forma la più elevata e la più difficile: la sua forma intellettuale. Cerchiamo di capire prima di condannare» (p. 173).
Ne L’Europa tragica (1935), Gonzague de Reynold ripercorre le tappe attraverso cui la modernità ha isolato l’uomo. «Il mondo moderno ha detto all’uomo: “Tu sei libero, ma solo”. […] Distruggendo gli intermediari, gli ammortizzatori, le armature familiari e sociali, professionali e religiose che proteggevano l’uomo, sia dagli uomini che da sé stesso, ha abbandonato un termine debole, l’individuo, di fronte a un termine forte, la collettività» (p. 188). Nel tempo vuoto prodottosi fra un mondo che muore e un mondo che nasce, si è ritornati alla barbarie, non quella del civilizzato di domani, ma quella del civilizzato di ieri, caratterizzata dalla «flessione della cultura», dalla «grossolanità dei costumi», dalla «carenza del senso morale», dal «predominio dell’irrazionale». «Le parti affettive, istintive dell’essere prevalgono sull’intelligenza con una violenza tale che trasforma la barbarie in una vera crociata contro l’intelligenza. Questa crociata si sostiene su teorie pseudo-filosofiche o pseudo-scientifiche, affermate come dogmi. Da qui […] il ritorno voluto, volontario, a ciò che è primitivo; il ritorno a un paganesimo allo stesso tempo soggettivo e panteista, confusione lui stesso tra la materia e lo spirito» (p. 191). Al disordine morale si assomma il disordine politico, che corrompe le coscienze, confonde le idee e abbassa il livello della moralità pubblica: «È l’ingiustizia di tutti nei confronti di tutti, dello Stato nei confronti della società intera» (p. 193).
Ne L’Europa tragica. «Fra il mondo che muore e il mondo che nasce» (1936) il pensatore svizzero esamina in dettaglio la genesi della Rivoluzione francese, prodottasi quando un particolare sistema di idee, riassunto nella triade rivoluzionaria, ha incontrato lo scontento generale, il bisogno di riforme e l’abdicazione delle élite sociali. «La libertà sta nel concepire l’uomo isolato, distaccato dalla sua famiglia e dai suoi ambienti naturali e storici, nel concepirlo in quanto individuo, poi in quanto cittadino. L’uguaglianza sta nel concepirlo in sé, identico a tutti gli altri individui, a tutti gli altri cittadini. La fraternità sta nel prendere queste frazioni d’umanità, questi atomi di nazione, nell’amalgamarli in una massa unificata» (p. 211). Della Rivoluzione francese evidenzia la duplice potenzialità genetica, nazionalismo e comunismo, fonte di tutte le ideologie ― sia di quelle da essa direttamente propagate, sia di quelle sorte in parziale o apparente opposizione a essa ― come di tutte le rivoluzioni europee fino a quella russa. «La rivoluzione francese ha sostituito all’antica concezione monarchica della Francia — concezione cristiana, fondata sulla famiglia, la corporazione, la città, la località — una concezione unitaria e centralizzata, statalista, tutta fondata sulla massa equalizzata e militarizzata: la “nazione armata” è un’idea e una realizzazione rivoluzionaria. È già il nazionalismo, già lo Stato totalitario, sottomesso alla dittatura di un partito in attesa di quella di un uomo, Napoleone» (pp. 210-211). Complessivamente anticristiano prima di divenire antimonarchico e democratico, il secolo XVIII vede un’opposizione al cristianesimo già consolidata quando i «filosofi» sono ancora convinti di poter imporre dispoticamente, attraverso le monarchie illuminate, le proprie idee: la felicità come fine dell’uomo, il progresso dell’umanità attraverso la liberazione dalle convenzioni, dai legami sociali, dalla religione, la fede quasi superstiziosa nella scienza. «Costituivano un cristianesimo rovesciato, materialista, un’esagerazione di idee cristiane. Entrate nel circuito generale, seducono ancora molti spiriti, perché la loro ingenuità, la loro stessa semplicità, la loro facilità a ridursi a formule, tutto questo le rendeva popolari» (pp. 218-219). L’autore percorre quindi la storia delle idee che hanno portato all’illuminismo. Tutto parte dal Rinascimento, dall’Umanesimo e dalla Riforma, che, per quanto abbondantemente antitetici sotto molteplici punti di vista, rappresentano, su piani diversi, la rivolta dell’individuo contro la tradizione e il principio d’autorità. Ma «La negazione totale della libertà umana, la predestinazione calvinista, il tormento luterano, il pessimismo relativo al secolo, tutto questo non era possibile alla fine del secolo XVII e contraddiceva lo spirito nuovo» (pp. 230-231): la rivolta esplode quando «[…] le idee moderne penetrarono nel protestantesimo attraverso la fessura dell’individualismo e del libero esame. Qui troviamo l’origine del protestantesimo romantico, agnostico, liberale» (p. 231). Proprio negli ambienti protestanti «nonconformisti», specialmente inglesi e olandesi, «l’individualismo di fondo della Riforma si risveglia e si libera; produce, sotto l’influenza delle scienze esatte e naturali e dei loro metodi, uno spirito critico, e questo spirito va molto avanti. Va così avanti che rimette in questione le basi e i princìpi della fede, lo stesso cristianesimo» (p. 230). Molto influenze diverse concorrono nella stessa direzione. Se René Descartes (1596-1650) postula l’estraneità di fede e ragione, ragione che fa tabula rasa del reale e ricostruisce un mondo di pura logica, sul lato opposto si riscontra «[…] una rivolta del sentimento che l’ortodossia soffoca […] un bisogno di natura e di poesia che porta a una religione sentimentale, elegiaca, «naturale», nella quale si annuncia quella del Vicaire savoyard» (p. 230). Il tutto, in un’atmosfera diffusa di critica corrosiva nei confronti della tradizione, dell’ordine sociale, dell’autorità politica. Gonzague de Reynold utilizza, in questo come in altri saggi che compongono la raccolta, due efficaci immagini della Rivoluzione. La prima la descrive come volontà di ritorno utopico e distruttivo a un punto di partenza: «[…] tagliare la quercia perché sembra vecchia e ha rami morti, nella speranza, sempre vana, di ritrovare la ghianda» (p. 236). La seconda descrive la rottura rivoluzionaria dell’unità politica e sociale come dovuta principalmente alla rottura dell’unità spirituale: «Ogni civiltà, ogni società, ogni regime è sospeso a una concezione filosofica e religiosa come un lampadario a un anello. La rottura si produce quando il lampadario non crede più nell’anello. Se ne stacca, cade, si sbriciola» (p. 236).
L’Europa impossibile e necessaria (1952) è un’appassionata perorazione per una confederazione degli Stati europei, un’Europa testa di ponte dell’Occidente il cui baricentro si è spostato dal Mediterraneo all’Atlantico, nuovo mare nostrum. La necessità nasce a fronte della nuova pressione ostile asiatica esercitata, nel momento in cui l’autore scrive, dall’Unione Sovietica. L’impossibilità deriva dal frapporsi di numerosi ostacoli interni. In primo luogo, la presenza di un’ideologia europeista che fa dell’Europa non un soggetto storico ma un ente di ragione, connotato dalla centralizzazione, dallo statalismo, dalla burocrazia e dalla tecnocrazia. «L’Europa […] può essere definita come un sistema di relazioni e di scambi. Si può, anzi si deve, ricostituire, riparare, serrare questo sistema; si può e si deve garantirne il funzionamento e la difesa: non si può, né si deve, unificarlo. Unificarlo sotto forma di Stato europeo, anche se federale, sarebbe distruggerlo» (p. 268). «L’Europa non può sorgere da una rivoluzione che distrugga gli Stati per sostituirli con province, poiché sarebbe soltanto preparare secessioni, guerre civili. Essa stessa non sarebbe realizzabile se si facesse contro gli Stati: sarà realizzabile soltanto se sarà costruita con loro e per loro» (p. 271). L’opposto di questo centralismo, che pretende di annullare gli Stati come espressione politica delle nazioni, non può che essere una confederazione. «[…] confederazione evoca meglio rispetto a federazione l’idea di un impegno fondato sulla fede reciproca e sull’onore. […] La natura di questo legame è definita non con una costituzione, ma con un patto» (p. 274). Dei due elementi, infatti, che costituiscono una confederazione, gli Stati membri e il potere centrale, il primo è quello costituente, il secondo quello costituito. L’esistenza degli Stati membri precede di molto quella del potere che hanno liberamente fondato e proprio gli Stati debbono rimanere la fonte del diritto: si federano non per abdicare alla propria sovranità e indipendenza, ma per meglio difenderle, e l’ordine federale ha solo lo scopo di garantire una rete di relazioni e di interessi preesistenti. «L’unificazione troppo rapida attraverso un potere centrale gli lascerebbe aumentare le competenze oltre i limiti imposti dal principio federale stesso, ossia la sovranità degli Stati membri […] L’ordine federale si governa con il sistema consiliare, non con quello di un governo e di un parlamento» (pp. 275-276). Occorre poi che la confederazione non sia monopolizzata da una o alcune potenze egemoniche, dal momento che in Europa «se ci sono alcuni piccoli Stati, ci sono solo grandi nazioni» (p. 276). Un sano sentimento nazionale deve coesistere con la coscienza europea: «[…] si sarà disposti a morire per la causa europea nella misura in cui lo esigerà la causa nazionale. Ma le fonti da cui scaturiranno le virtù eroiche di cui la causa europea avrà bisogno per vincere saranno sempre i patriottismi» (p. 267). Patriottismi, peraltro, da non confondere con nazionalismi, frutti avvelenati della rivoluzione e ostacolo oggettivo alla costruzione dell’Europa: «Quando il legame cristiano si scioglie, la tendenza dei popoli europei è di ritornare a quanto fu l’essenza del paganesimo: la religione del clan, della città» (p. 269). È il cristianesimo, dunque, la soluzione al problema dell’unione europea, come lo fu quando la Chiesa, risolvendo la prima grande necessità/impossibilità, la fusione della Romania e del Barbaricum, diede origine all’Europa.
La Casa Europa appartiene a quelle opere che, al di là di una lettura sicuramente ricca e piacevole, meritano di essere messe a frutto. Legando e integrando in modo organico tutti i passaggi svolti dall’autore in momenti e a livelli diversi, se ne ricava un quadro assai puntuale e convincente delle linee di tendenza che hanno attraversato la storia europea sia nella fase di formazione che in quella di dissoluzione; quadro che, a sua volta, può costituire un prezioso canovaccio su cui lavorare, inserendovi ulteriori punti visuali ricavati dalle opere più ponderose del medesimo autore e da quelle di autori diversi che abbiano riflettuto nella stessa prospettiva. Da tale operazione non può esimersi chi, interrogandosi su singole espressioni della crisi della nostra civiltà, voglia coglierle nella loro globalità e nelle loro connessioni, per contribuire alla conservazione di quanto ancora permane, o, come è forse più realistico pensare, all’edificazione, in contesti difficilmente prevedibili, di una nuova civiltà che ne perpetui i valori fondanti tentando di dare una risposta a quegli snodi critici che la precedente non è stata in grado di risolvere per proprie inadeguatezze o per aggressione interna o esterna.
Paolo Mazzeranghi