di Marco Respinti
Quando (è accaduto il 13 marzo) viene licenziato un uomo influente come Rex Tillerson, che sta a capo della Segreteria di Stato, cioè del ministero più potente (talvolta persino più del presidente) del Paese più importante del mondo, e quando viene licenziato a nemmeno metà mandato, e in modo tanto plateale ‒ un tweet ‒, a monte non c’è un motivo. C’è una incompatibilità strutturale. La domanda vera da porsi, infatti, non è perché Tillerson sia stato licenziato ora, ma cosa Tillerson ci facesse sin dall’inizio al vertice dell’Amministrazione Trump. L’unico modo per iniziare a rispondere è ordinare i fattori prima di tirare le somme.
- L’8 novembre 2016, Trump ha vinto le elezioni politiche per il rotto della cuffia: non contro i sondaggi, ma contro i sondaggi fatti male, quelli cioè che hanno sommato in modo assoluto le intenzioni di voto espresse dagli elettori intervistati alla vigilia rilevando quale fosse l’orientamento maggioritario dei voti popolari laddove si sarebbero invece dovuti considerare gli orientamenti maggioritari degli elettorali in modo relativo, cioè Stato per Stato, giacché è così, attraverso i voti elettorali espressi da ciascuno Stato dell’Unione, che gli elettori statunitensi scelgono il proprio presidente. Ciò significa che chi allora fece i calcoli in maniera più rigorosa era preparato anche alla possibilità, pur sottile, di una vittoria di Trump. Fra costoro, ci sono stati anche i cosiddetti “poteri forti”.
- L’espressione “poteri forti” non è una categoria da teoria del complotto, ma un dato di fatto: è l’insieme ‒ nella misura in cui stanno assieme, ovvero ammesso e non concesso che lo facciano ‒ delle strutture e degli ambienti che esercitano di principio e/o di fatto, titolati o meno, un potere concreto sulla realtà sociale. È normale e lecito: illecito lo diventa solo qualora i “poteri forti” agiscano contro la legge e contro la morale. I “poteri forti” non sono quindi di per sé “poteri malvagi”. La Chiesa, per esempio ‒ negli Stati Uniti d’America le Chiese ‒, è oggettivamente un “potere forte”. E lo sono anche la stampa, l’industria culturale, il potere economico. Normale e lecito è anche che i “poteri forti” prendano le misure al potere politico, esso stesso un “potere forte”: è cioè normale e lecito, per esempio, che la Chiesa Cattolica si rapporti rispetto al potere politico e che pure lo facciano la stampa o il mondo economico. I “poteri forti” dimostrano di essere anche poteri sagaci se e nella misura in cui le misure al potere politico riescono a prenderle in anticipo, subodorando l’esito possibile o probabile di una elezione.
- Se i “poteri forti” non sono di per sé “poteri malvagi”, certamente alcuni di essi perseguono scopi rivoluzionari, nel senso che il pensiero cattolico contro-rivoluzionario dà all’espressione. A questo lotto appartengono certamente quei poteri di principio e di fatto, titolati o meno, sociali, politici, culturali, mediatici, industriali ed economici, che hanno preteso e pretendono di governare e dirigere la globalizzazione globalizzando la visione del mondo definibile ‒ con una espressione comune per diffusione ed efficacia sintetica ‒ liberal.
- Anche la globalizzazione è anzitutto un fatto. Furono “globalizzazioni” il rapporto fra la Grecia antica metropolitana e la Magna Grecia “d’outremer”, i cosiddetti “imperi ecumenici” specialmente l’impero romano ‒ come sembra suggerire la storica Marta Sordi (1925-2009) in Alle radici dell’Occidente (Marietti, Genova 2002) ‒ e nulla esiste di più globalizzante del cristianesimo. Come tale, la globalizzazione può essere, ed è, indirizzata e governata in modi diversi. Un conto ‒ per fare un esempio ‒ è globalizzare l’ideologia dell’aborto a richiesta, come sembrano impegnati a fare i miliardi di George Soros, tutt’altro è globalizzare il know-how tecnologico occidentale a favore dei Paesi in via di sviluppo o il verbo di Cristo, come fanno i Papi fisicamente pellegrini in prima persona in ogni angolo del mondo. Il concetto di “società aperta”, elaborato dall’epistemologo austriaco-britannico Karl R. Popper (1902-1994), “precedente logico” della globalizzazione, comporta insomma valore o disvalore a seconda di ciò che apre la società “chiusa” o di ciò a cui la società “chiusa” si apre. La “società aperta” promossa e implementata dal cristianesimo ‒ «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28) ‒ non è infatti la stessa cosa della “società aperta” incoraggiata per esempio dalla logica del “turismo sessuale” o dall’“internazionale LGBT”.
- Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2016, Hillary Clinton, candidata del Partito Democratico, offriva garanzie e assicurazioni ampie agli occhi dei “poteri forti” liberal essendo di fatto organica a esso. Trump meno: dapprima per la sua “indipendenza” e imprevedibilità, poi per la sua indisponibilità positiva coincidente con il suo appoggiarsi al mondo conservatore.
- Il “potere forte” che non giocasse su due tavoli contemporaneamente sarebbe sprovveduto e in verità poco forte. Fuor di metafora, se certamente nel 2016 i “poteri forti” liberal hanno puntato tutto sulla Clinton presidente, hanno però altrettanto certamente predisposto un “piano B” qualora a vincere le elezioni ‒ come del resto i sondaggi fatti bene non escludevano del tutto ‒ fosse stato Trump. Una volta che Trump ha vinto le elezioni, il “piano B” è dunque scattato. Infatti, che “potere forte” sarebbe quello che si lasciasse sconfiggere da una “semplice” elezione, che si lasciasse battere da un parvenu incontrollabile?
- Il “piano B” per “addomesticare” Trump si è manifestato come una strategia a più livelli. Uno è quella della campagna permanente di delegittimazione politica, mediatica e soprattutto “popolare” tesa a presentare Trump come un “presidente illegittimo”, un abusivo, un usurpatore. Un altro è quello dell’immissione nella sua Amministrazione del numero più alto possibile di elementi liberal in grado di snaturarne l’azione politica, alla bisogna anche di sabotarla.
- Un’Amministrazione di governo è frutto dalla mediazione fra le componenti politico-culturali che hanno prodotto la vittoria. Lo è sempre, e a maggior ragione lo è quando a vincere le elezioni sono alleanze fra partiti diversi oppure, com’è il caso specifico degli Stati Uniti, quando i partiti, pur sembrando esteriormente strutture monolitiche, sono in realtà coalizioni di componenti diverse; in più, nel caso degli Stati Uniti, e maggiormente nel caso della candidatura Trump, accade quando la coalizione che ha vinto le elezioni è anche un “patto” fra il partito ‒ già internamente “variegato” ‒ e una realtà esterna di “movimento” e di “società civile”.
- Dopo la vittoria del 2016, Trump ha mediato fra le varie componenti interne ed esterne al Partito Repubblicano che hanno contribuito alla sua elezione, operando anche per una riconciliazione fra loro. A partire dalle primarie, infatti, la campagna elettorale del 2016 è stata una “guerra civile” interna all’elettorato Repubblicano, presto prolungatasi in una “guerra civile” interna al mondo conservatore. Una parte del movimento conservatore (di per sé formalmente esterno al Partito Repubblicano) ha infatti abbracciato con entusiasmo Trump, accogliendolo come il “rottamatore” di una classe dirigente (Repubblicana) giudicata non (più) credibile, mentre un’altra parte lo ha rigettato come soggetto estraneo al conservatorismo. Avevano ragione entrambi. Trump è entrato in politica sfidando, non sposando, il Partito Repubblicano, con l’intenzione di fare a meno del movimento conservatore a cui infatti non è mai appartenuto. Dal canto proprio, neanche il Partito Repubblicano ha sentito come proprio lo sfidante Trump; e, nella misura in cui il Partito Repubblicano si appoggia sul movimento conservatore (negli ultimi anni pressoché totalmente), ha analogamente rifiutato Trump come soggetto alieno. Ma siccome non solo il Partito Repubblicano si appoggia oramai universalmente sul movimento conservatore, ma anche il movimento conservatore sfocia politicamente nel Partito Repubblicano, la spaccatura fra i conservatori del movimento in due fazioni, una “No Trump” e una “Pro Trump”, si è fortemente riverberata anche sul personale del partito. Tutto si è congelato quando Trump ha ottenuto, fra mille contestazioni, la nomination presidenziale: un po’ perché quasi tutta la Destra (intesa qui in senso ampio e vario) ha scelto di fare quadrato, magari obtorto collo, attorno alla figura che poteva scongiurare il male peggiore, cioè la Clinton, un po’ perché Trump è sceso a più miti consigli, rendendosi conto che privo sia del Partito Repubblicano sia del movimento conservatore non avrebbe mai potuto vincere né tantomeno, nell’eventualità, governare. La sua mediazione dopo la vittoria ha quindi avuto come oggetto la riconciliazione fra i vari segmenti del movimento conservatore e del Partito Repubblicano che si erano a lungo ferocemente combattuti e che, in alcuni casi, lo avevano anche positivamente osteggiato. Il simbolo più macroscopico di questo sua sostanzialmente riuscita opera di riconciliazione è stato l’ingresso nell’Amministrazione di Reince Priebus e di Steven K. Bannon, rispettivamente come capo del gabinetto del presidente e come capo della strategia della Casa Bianca. La mediazione di Trump, insomma, ha dovuto tenere conto di tutti i “poteri forti” non liberal che lo hanno sostenuto.
- L’anima conservatrice dell’Amministrazione Trump, è come detto, il frutto di una mediazione fra le sue diverse componenti. Una di queste è quella che viene definita “populista”. Tralascio qui l’analisi del termine e la sua adeguatezza nell’identificare coloro che la stampa definisce consuetamente ‒ superficialmente ‒ come tali. Rilevo però che il termine viene impiegato oggi dai media per identificare tout court l’anima conservatrice della Casa Bianca, ignorandone completamente le differenze e le sfumature interne, e questo perché il termine “populismo” ‒ denigratorio ‒ è funzionale alla campagna di delegittimazione che configura il momento “popolare” del summenzionato “piano B” attuato dai “poteri forti” liberal ostili a Trump.
- Al momento della mediazione si sono però fatti vivi anche i “poteri forti” ostili, quelli liberal, decisi ad attuare il momento istituzionale del summenzionato “piano B” ed evidentemente in grado di ottenere concretamente da Trump qualche concessione. Del resto Trump non ha costruito certo le proprie fortune sull’immagine dell’uomo irreprensibile sui piani imprenditoriale e morale, ed è quindi verosimile che il modo per ottenerne la capitolazione in alcuni casi specifici i “poteri forti” liberal lo abbiano trovato. In più, è ovvio che nessun presidente, nemmeno il più virtuoso, può immaginare d’ignorare completamente i “poteri forti” a sé ostili, altrimenti, ancora una volta, sarebbero poteri per nulla forti. Ecco dunque che nell’Amministrazione Trump entrano a far parte, e in ruoli chiave, elementi rispondenti a visioni del mondo liberal graditi ai “poteri forti” ostili a Trump o quantomeno più graditi di altri membri di quella Amministrazione. I due nomi più rilevanti sono Rex Tillerson alla Segreteria di Stato e Jared Kushner, genero di Trump, nominato consigliere anziano del presidente. La loro presenza nell’Amministrazione è sempre stata più anomala della convivenza, sotto lo steso tetto, di Priebus e Bannon, corrispondenti in origine ad anime del conservatorismo diverse e litigiose. L’Amministrazione Trump è nata quindi come coabitazione fra due ali irriducibilmente nemiche, che si sono contese il controllo della Casa Bianca, con Trump che ha sempre inclinato verso quella conservatrice e fatto buon viso a cattivo gioco nei confronti di quella “globalista”. Con questa espressione viene inteso ‒ anche dai suoi avversari conservatori interni alla Casa Bianca ‒ il mondo ‒ anche dei “poteri forti”, cioè di certi “poteri forti” ‒ fautori di uno dei modi possibili d’intendere e di orientare la globalizzazione, ovvero quella che la intende come globalizzazione della prospettiva liberal.
- Una nota bene Spesso gli ambienti finanziari ‒ “Wall Street” ‒ sono indicati come il motore principale della globalizzazione liberal, ma è un automatismo indebito. Il “populista” Bannon, infatti, titolare di un “Master in business administration” (il più importante programma di specializzazione manageriale post-laurea esistente al mondo) conseguito nell’Harvard Business School nel 1985, negli anni 1980 ha lavorato nel settore fusioni e acquisizioni della banca Goldmann Sachs, di prassi indicata dalla vulgata come “potere forte” fra i “potere forti” finanziari. Mentre nell’Amministrazione Trump figurano altri ex esponenti di Goldmann Sachs (il ministro del Tesoro Steven Mnuchin, il ministro del Commercio Wilbur Ross e il suo vice Todd Ricketts, nonché Gary Cohn, consigliere economico del presidente), Bannon è da sempre il nemico principale ‒ ed esplicito ‒ dell’ala globalista della Casa Bianca.
- La coabitazione fra l’ala conservatrice mediaticamente ridotta ad ala “populista” e l’ala globalista è in realtà sempre stata una lotta, combattuta da un lato per egemonizzare la Casa Bianca, dall’altra per estromettere positivamente gli avversari. Il numero di defezioni e di licenziamenti verificatisi in poco più di un anno di governo Trump ‒ su cui i media ironizzano, un po’ per irridere ancora l’Amministrazione in carica, un po’ perché non capiscono ‒ ne è il segno tangibile, e il fatto che quel numero sia di grandezza eccezionale indica quanto lo scontro in atto sia duro. La posta in gioco, infatti, è altissima: la realizzazione del programma elettorale di Trump ‒ nel quale figurano anche impegni precisi sui “princìpi non negoziabili” ‒ o la sua sconfitta. Il licenziamento di Tillerson, la battaglia più recente di questa guerra, mostra quanto lo scontro sia arrivato in alto, ma pure quanto grande sia adesso la forza ‒ o è solo l’impetuosità? ‒ di Trump, se il presidente può permettersi di cacciare, e in modo così brusco e scenografico, un rappresentante dei “poteri forti” ostili ‒ l’ala globalista liberal ‒ tanto oggettivamente significativo da ricoprire un incarico tanto istituzionalmente significativo qual è la Segreteria di Stato.
- Le battaglie precedenti di questa guerra sono molte. Le più clamorose sono certamente state la fuoriuscita dall’Amministrazione di Priebus e l’ingresso in essa di ulteriori elementi alieni, cioè una vittoria dell’ala globalista, seguita dalla riscossa trumpiano-conservatrice avvenuta con la defenestrazione del defenestratore di Priebus, seguita a propria volta dalla “vendetta” globalista consumatasi con la cacciata di Bannon. Tutto il resto che si legge consuetamente sui media è per lo più colore. Non lo è invece una sensazione percepibile “tra le righe”: l’insofferenza di Trump nei confronti del genero globalista Kushner, uomo “informato dei fatti” se non vero regista nell’offensiva anticonservatrice in seno alla Casa Bianca, che il presidente mal sopporta ma che non è in grado di cacciare, sia per l’evidente “forza contrattuale” di cui Kushner gode, sia ‒ perché no, umano troppo umano ‒ per ragioni familiari.
- Va registrata anche la defezione di Gary Cohn, consigliere economico del presidente, dimessosi il 6 marzo in polemica con i dazi doganali annunciati da Trump sulle importazioni di acciaio e di alluminio. La lettura corrente dell’accaduto contrappone un Cohn favorevole alla globalizzazione economica a un Trump “protezionista”, ma il quadro è più articolato di così. Premesso ‒ in generale ‒ che le politiche daziarie aumentano inutilmente la conflittualità fra gli Stati, pesano sulle tasche dei consumatori e non favoriscono la qualità della produzione, e premesso anche che i posti di lavoro non si difendono certo tenendo la concorrenza (in qualità e costi) lontana per legge, i dazi posti da Trump sono però in larga parte misure di difesa a fronte di altri dazi imposti dalla Cina e pure dall’Unione Europea che già gravano sull’economia statunitense. Del resto, il principio, difeso dall’Amministrazione Trump, “buy american” in molti casi si onora più acquistando prodotti stranieri che prodotti “americani”. Il settore automobilistico è una caso di scuola. Volendo difendere posti di lavoro e salari statunitensi, un americano fa infatti prima a comperare una vettura giapponese, costruita assemblando in gran parte componenti prodotti negli Stati Uniti. Come ha scritto Kevin D. Williamson su National Review, circa l’80% dei componenti di una Toyota Camry è prodotto negli Stati Uniti (percentuale molto maggiore di quella di alcune auto “americane”) e nel 2011 circa il 70% dei componenti della Honda Civic era di fabbricazione statunitense, mentre lo stesso anno solo il 2% circa di una Chevy Aveo era “made in USA”). I dazi di Trump, insomma, non sono di per sé nemici della globalizzazione: mirano semplicemente a tamponare gli effetti di una globalizzazione squilibrata.
- Ora, tornando alle battaglie dentro l’Amministrazione Trump, se lo scenario sopra proposto è vero, o Trump è prossimo alla vittoria nella guerra contro l’ala globalista (altrimenti non avrebbe osato tanto contro il potente Segretario di Stato), oppure c’è da attendersi una rappresaglia che non dovrebbe tardare. A propendere nella direzione della rappresaglia è il fatto che, già a dicembre, Trump abbia ricandidato (in attesa di ratifica da parte del Senato) Chai Feldblum nell’organismo di guida dell’Equal Employment Opportunity Commission (EEOC), un’agenzia governativa per le pari opportunità sul posto di lavoro. Il suo mandato scade il 1° luglio: se verrà riconfermata, avrà a disposizione altri cinque anni. Lesbica dichiarata, la Feldbum è una grande protettrice della lobby LGBT e una nemica della libertà religiosa. Certo, l’EEOC è un organismo bipartisan e quindi Trump doveva proporre comunque un Democratico qual è la Feldblum (ha quindi ovviamente proposto anche dei Repubblicani), ma certamente poteva scegliere di meglio anche fra i Democratici. Potrebbe però essere ancora poco come rappresaglia per la defenestrazione di una pedina importante come il Segretario di Stato. Al che la candidatura della Feldblum potrebbe allora essere “solo” il prezzo pagato per avere Trump nominato il bravo e cattolico ex governatore del Kansas, Sam Brownback, come nuovo ambasciatore degli Stati Uniti per la libertà religiosa nel mondo. Del resto il fronte LGBT è sempre stato il lato debole di Trump, nel senso che nell’ala globalista del suo entourage la sensibilità al tema è parecchio alta per la presenza sia di omosessuali dichiarati come Peter A. Thiel sia di non omosessuali ma filomosessuali come il genero Kushner (e sua moglie, Ivanka, la figlia del presidente).
- A propendere nella direzione della prima delle due succitate ipotesi, cioè che Trump sia ora in posizione di forza rispetto all’ala nima globalista della Casa Bianca, è il rimpiazzo scelto per Tillerson, Mike Pompeo, conservatore, noto per il forte impegno politico (era deputato federale in rappresentanza del Kansas) a difesa della vita nascente (che, afferma, inizia dal concepimento) e della famiglia naturale, il contrario esatto del suo predecessore. Trump lo aveva voluto a dirigere la CIA il 23 gennaio 2017: ora al suo posto a capo dell’Agenzia subentra la sua vice, Gina Haspel, per la prima volta una donna, una “dura”. Certo, la CIA è un “potere forte”, e non gode sempre di ottima stampa tra i conservatori che ne guardano con sospetto il peso e la disinvoltura. Ma il dato va letto al contrario: Trump aveva messo per la prima volta a capo della CIA un vero conservatore. Che diventi Segretario di Stato non è scandaloso.
- Nella stessa direzione dovrebbe leggersi anche la rimozione, annunciata il 15 marzo, di Herbert Raymond McMaster, consigliere della Sicurezza nazionale, che su più di un dossier è parso non distante dalla linea Tillerson, mentre Trump, in questo momento storico, oltre che cercare compattezza dentro la propria Amministrazione, e non da ultimo a fronte della questione “Russia-Iran-Siria”, persegue altri obiettivi: forse non più “interventisti” in assoluto, ma decisamente meno renitenti di quella perseguiti da Barack Obama e che ‒ a torto o a ragione ‒ egli ora vedrebbe in qualche modo, se non automaticamente proseguiti, se non altro non sufficientemente contrastati dalla linea Tillerson (e McMaster). A maggior ragione ciò sarebbe vero se a succedere a McMaster dovesse essere ‒ come da indiscrezioni ‒ l’ex ambasciatore all’ONU del presidente George W. Bush Jr., ovvero il conservatore John R. Bolton. O forse, più “semplicemente”, Trump (a maggior ragione se adesso in posizione di forza rispetto ai propri avversari interni) sta cercando di liberarsi, oltre che dall’ala globalista, anche dell’ala “militare” della sua Amministrazione, presente sin dall’inizio in essa in modo cospicuo, in parte (ma non sempre automaticamente) sovrapposta all’ala conservatrice e però, evidentemente, non sempre in accordo con Trump. La componente “militare” dell’Amministrazione, infatti, ancorché in maniera più sfumata, è presente come la terza anima della Casa Bianca trumpiana che, nella misura in cui si è sovrapposta all’ala conservatrice, non ha (finora) dato problemi al presidente, ma che, nella misura in cui si sovrappone invece in parte agli orientamenti dell’ala globalista, comincia a darne. Non è infatti scontato che l’ala “militare” sia di per sé contraria al globalismo liberal, né che liberarsi (almeno in parte) dell’ala “militare” indichi scelte di ripiegamento. Bolton al posto di McMaster lo renderebbe subito palese.
- Nel quadro va considerato un ultimo elemento solo apparentemente scollegato. La sconfitta alle elezioni suppletive per un seggio alla Camera federale svoltesi in Pennsylvania il 13 marzo, lo stesso giorno del licenziamento di Tillerson, del candidato Repubblicano Rick Saccone, un esponente amato del mondo conservatore, per il quale Trump si è speso direttamente. Lo ha battuto il Democratico Conor Lamb. L’insuccesso è particolarmente importante perché è avvenuto in Pennsylvania, uno Stato in bilico nel 2016 e allora strappato da Trump ai Democratici facendo breccia tra gli operai bianchi impoveriti. Il fatto che oggi lì i Repubblicani perdano non è un segnale incoraggiante in vista delle elezioni “di medio termine” con cui il 6 novembre prossimo gli Stati Uniti rinnoveranno per intero la Camera federale e per un terzo il Senato. Già nel 2016 la vittoria presidenziale in extremis di Trump fu accompagnata da una perdita di seggi del Partito Repubblicano nelle concomitanti elezioni per il Congresso federale. Un altro segnale sconfortante, precedente, è stata la sconfitta del candidato Repubblicano Roy Moore alle elezioni suppletive per un seggio al Senato federale svoltesi il 12 dicembre in Alabama. E sconfortante quella sconfitta lo è stata anzitutto e soprattutto perché Moore ha incarnato visibilmente l’uomo che difende cause giuste nel modo sbagliato, con il rischio di aprire alla pericolosa equiparazione fra conservatorismo ed estremismo o addirittura sedizione. Tant’è che Moore ha perso in primis i voti di molti conservatori che la pensano esattamente come lui, ma che i suoi modi hanno spaventato.
- Queste prime sconfitte introducono il tema dei prossimi mesi e anni: come resisterà il conservatorismo all’uragano Trump, cataclisma divenuto inevitabile nel 2016 per uscire dal “buco nero” del governo dei Democratici, ma non per questo sempre necessario (fatte salve le cose buone che Trump ha fatto e che farà)? Soprattutto, come ne verrà trasformato? Una indicazione importante viene proprio dalla citata sconfitta elettorale di Saccone in Pennsylvania, avvenuta per soli 627 voti di scarto, pari allo 0,2 dei suffragi espressi. Quelle elezioni suppletive sono state rese necessarie dalle dimissioni, rassegnate il 21 ottobre, di Tim Murphy, 64enne, Repubblicano, il quale, nonostante i proclami pubblici di antiabortismo, ha costretto la propria amante, Shannon Edwards, 32 anni, a sopprimere il figlio suo che portava in grembo. Quando la notizia si è diffusa, il Partito Repubblicano per intero, a cominciare dai vertici e dalle sue figure istituzionali, ha messo rapidamente Murphy alla porta richiamando i cittadini al voto. Un partito politico che nel cuore dell’Occidente secolarizzato decida di agire in modo tanto drastico mettendo a repentaglio un prezioso seggio alla Camera, già uscita ridimensionata dal voto del 2016, con una sconfitta possibile, e poi fattualmente realizzatasi seppur di misura stretta, in nome di una questione di principio non negoziabile è cosa più unica che rara. Se il Partito Repubblicano dovesse perdere le elezioni nel novembre venturo, sarà comunque questo Partito Repubblicano. Uno “zoccolo” buono da cui ripartire.
Marco Respinti
Lunedì, 19 marzo 2018, San Giuseppe