Marcel De Corte, Cristianità n. 25 (1977)
Per una filosofia dell’economia
I BISOGNI DELL’UOMO
La maggior parte degli studiosi di biologia insiste a buon diritto sulla importanza della nozione di bisogno come elemento determinante dei comportamenti umani. Non meraviglia ritrovarla al centro stesso dei comportamenti economici. La polivalenza di questa nozione e la sua varietà quasi inesauribile ne rendono però difficile la interpretazione scientifica. Infatti, il bisogno è qualcosa che varia moltissimo non solo secondo le civiltà, le società e i gruppi nel tempo e nello spazio, ma secondo gli individui, in ogni istante della loro esistenza e secondo le circostanze in cui si trovano. Come cogliere una realtà tanto particolareggiata e tanto sfuggente? Si sa, infatti, che non si dà scienza dell’individuale: soltanto l’universale può essere oggetto di scienza. Non meraviglia, quindi, che la nozione di bisogno sia stata, nella maggior parte dei casi, considerata dagli economisti come un postulato della ricerca, piuttosto che come un oggetto della ricerca stessa. Si parla costantemente del bisogno in economia, e se tale nozione è indispensabile per illuminare i fenomeni economici, molto raramente è essa stessa messa in chiaro.
Inoltre, i bisogni economici, che sono evidentissimamente di ordine materiale, sono, nella loro realtà, inseparabili dagli altri bisogni umani di ordine affettivo, intellettuale, spirituale, ecc. Non vi è uomo sulla terra che beva o mangi come se fosse puramente e semplicemente la sede di una reazione chimica.
Infine, come misurare adeguatamente un bisogno, senza tradirlo, senza farne svanire la sostanza essenzialmente qualitativa? Ora, l’economia moderna, come per altro tutte le altre scienze positive, tende a diventare una scienza di quanto è misurabile.
Ci si trova dunque di fronte a un paradosso epistemologico inaudito: l’economia è fondata su una realtà che le sfugge. Per questa ragione i sistemi interpretativi più diversi si costruiscono attorno a questa nozione fondamentale. Dall’origine, la scienza economica è dilacerata tra i poli estremi del «liberalismo» e del «collettivismo», anch’essi divisi, e i risultati di questa divisione sono oggetto di innumerevoli misture più o meno arbitrariamente dosate. Ci si può quindi chiedere se l’economia non sia preventivamente soggetta a una opzione assolutamente soggettiva da parte di chiunque si accinga a chiarirne il contenuto, e se questa opzione non sia più o meno inconsapevolmente nascosta sotto una qualche cortina fumogena. L’economia diventa così il campo chiuso di interminabili dispute sulle quali si inseriscono le passioni individuali e sociali. Il suo significato reale nella vita degli uomini è abbandonato a se stesso, oppure soggetto a interventi estranei alla sua natura, da parte di chiunque possieda uno strumento di potere capace di influenzarlo.
Scopo di questa nota è mostrare che è possibile superare questa contraddizione apparente, che fa della economia una conoscenza di ciò che essa non conosce. Questa possibilità può, secondo noi, divenire reale soltanto se si arriva a orientare verso un bisogno essenziale e universale la molteplicità incoerente e inesauribile dei bisogni economici e di altro genere. Ora, un tale drenaggio è svolto spontaneamente dall’uomo stesso, che è soggetto di questi bisogni diversi. Esiste infatti nell’uomo un bisogno fondamentale verso cui convergono tutti gli altri bisogni, il bisogno di essere felice. «Beatos nos omnes volumus», notava Cicerone, e Pascal sottolineava che «tutti vogliono essere felici, anche coloro che si impiccano». La felicità è il fine ultimo di tutte le attività umane, qualsiasi esse siano, e si definisce come uno stato in cui non manca nulla, in cui tutti i bisogni dell’uomo sono soddisfatti. «Una sola cosa è necessaria – scriveva con spirito e profondità Chesterton – tutto il resto è vanità delle vanità».
Gli Antichi avevano profondamente analizzato questa nozione di felicità, di cui abbiamo perso il segreto. Sia che si tratti di filosofi pagani, come Platone e Aristotele, o di pensatori cristiani, come per esempio sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino, tra loro c’è accordo nel concepire la felicità dell’uomo nella realizzazione piena delle sue facoltà specificamente umane: l’intelligenza e la volontà, concepite come incarnate in un corpo che fa parte anch’esso della essenza dell’uomo. Siccome l’intelligenza è superiore alla volontà, che non si può esercitare senza di essa, e siccome entrambe, a loro volta, sono superiori alla materia, essi classificano le attività umane in tre gruppi gerarchizzati: le attività contemplative, attraverso le quali l’intelligenza dell’uomo si nutre della verità e tenta di conoscere la realtà fino al suo Principio ultimo; le attività cosiddette pratiche, attraverso le quali la volontà, illuminata dalla ragione, si orienta verso il Bene che la soddisfa; le attività dette «poetiche» (dal verbo greco poiein, che significa fare), attraverso le quali l’uomo trasforma il mondo esteriore della materia in modo da trarne le cose necessarie al suo sostentamento. La filosofia (o la teologia), la morale e la tecnica sono le attività più specifiche dell’essere umano, e la terza è subordinata alle prime due, e la seconda a quella che la precede. Queste attività vengono esercitate nella misura in cui i rispettivi oggetti si sottraggono loro, e gli uomini pervengono, per quanto possibile, alla felicità, nella misura in cui il loro esercizio si equilibra gerarchicamente. Rispetto all’uomo, le prime due attività gli sono immanenti: esse restano in lui per perfezionarlo, mentre la terza è una attività transitiva e passa in una materia, che è a essa esterna, per portarla a perfezione. Rispetto al loro oggetto, le prime due sono teocentriche, mentre la terza è antropocentrica.
Come rivela la storia, l’attività propriamente tecnica dell’uomo si è sviluppata lentamente fino a un’epoca che si può fissare, in modo non approssimativo, nel Rinascimento. Non si semplificano eccessivamente le cose dicendo che la tecnica e l’economia che ne derivano fino ad allora sono state stagnanti: poche invenzioni nuove, una produttività quasi uguale ogni anno, una situazione che si può qualificare come statica o anche di penuria. Perciò, per compensazione, si sono sviluppate in modo particolare le attività speculative e pratiche dell’uomo: i bisogni spirituali, intellettuali e affettivi dell’essere umano furono più soddisfatti dei bisogni materiali.
Con il Rinascimento assistiamo al fenomeno inverso: la tecnica e l’economia si separano a poco a poco dalla morale e dalla filosofia (e così anche dalla teologia), e acquistano quella completa autonomia che sappiamo essere loro propria al giorno d’oggi. Al teocentrismo si sostituisce l’antropocentrismo. Sorge l’umanesimo e l’uomo, con le parole di Cartesio, si proclama «signore e padrone della natura». Questo rovesciamento della gerarchia delle attività ha prodotto una serie di invenzioni tecniche straordinarie e, per la prima volta nella sua storia, l’uomo è passato da una economia di penuria a una economia di abbondanza, che, se non si estende ancora a tutto il pianeta, è però desiderata, a livelli diversi, mai inesistenti, da tutti i suoi abitanti. Un dinamismo economico senza precedente ha sostituito l’economia statica d’altri tempi.
Nessuno può negare che si tratti di un enorme progresso: non è assolutamente negativo che l’umanità veda allontanarsi lo spettro della carestia e dei conflitti prodotti dalla scarsità dei beni materiali. Ma come ogni medaglia ha il suo rovescio, ogni progresso comporta una contropartita: chiodo scaccia chiodo, dice il vecchio proverbio. L’attività tecnica ed economica dell’uomo moderno ha provocato non soltanto una serie di «ricadute» di cui cominciamo a misurare le conseguenze nefaste, ma la sua espansione sregolata, priva di ogni subordinazione a fini superiori, sta per distruggere l’uomo e per privarlo della sua natura specificamente intelligente e volitiva. L’umanità evolve verso «il formicaio perfetto e definitivo» previsto dal genio di Valery. Per la prima volta nella sua storia l’economia, diretta da una tecnica che vuole bastare a se stessa ed essere fine a se stessa, gira al contrario: invece di produrre per consumare, l’uomo moderno è costretto a produrre per produrre. Nella economia attuale, il pieno impiego e la espansione economica continua sono considerati obiettivi essenziali che bisogna assolutamente perseguire e raggiungere, pena la decadenza. Il prodotto nazionale lordo in crescita ininterrotta è diventato il criterio assoluto della salute delle nazioni e dei lavoratori che ne fanno parte. Orbene, è chiaro che non si può impiegare altra gente e aumentare ogni anno la produzione nazionale (e internazionale), se non si consumano di più i beni così prodotti in eccesso da produttori in eccesso. La finalità normale della economia è così rovesciata. L’uomo deve consumare per lavorare. Sotto i nostri occhi sorge una società detta società dei consumi, che in realtà è la conseguenza necessaria di una economia basata essenzialmente sui produttori, a qualsiasi livello si pongano. I consumatori sono trattati da vacche grasse in periodo di prosperità e da vacche magre in periodo di carestia. I bisogni dei consumatori sono così subordinati, quando non sacrificati, ai bisogni dei produttori.
Il divorzio delle attività tecnico-economiche delle attività morali e speculative dell’uomo, la inversione da esso provocata della finalità della tecnica e della economia non ha smesso di sconvolgere, il pianeta. Non è esagerato sostenere che la rivoluzione permanente in cui è immersa l’umanità, oppure, più precisamente, il disordine in cui vive e le sue innumerevoli conseguenze in tutti i campi, derivano da questa causa prima, troppo raramente colta, più raramente ancora analizzata.
Tra tutte le conseguenze che, a questo punto, potrebbero attirare la nostra attenzione, ci limiteremo in questa sede a sottolineare la profonda trasformazione del ruolo dello Stato. Sotto la influenza crescente di una economia incentrata sui produttori, si sono organizzati gruppi di pressione economica, che non solo fanno sentire tutto il loro peso sulle decisioni dello Stato, ma fanno in modo che questo abbandoni sempre più la sua funzione essenziale di garante dell’interesse generale, per diventare il servitore degli interessi privati dei produttori. La natura stessa della economia resta turbata fino ai suoi fondamenti. Se è vero, come abbiamo detto prima, facendo riferimento alle evidenze del buon senso più elementare, che si produce per consumare e che la soddisfazione dei bisogni del consumatore costituisce il solo e unico fine della attività tecnico-economica, lo Stato moderno, preda dei gruppi di pressione, va consolidando sempre più l’inversione della economia e la orienta così contro senso. Questo può farlo soltanto distogliendo l’economia dal campo essenzialmente privato che è a essa proprio e socializzandola da cima a fondo. Infatti, una economia al servizio del consumatore può essere soltanto privata, poiché solo il consumatore in carne e ossa è capace di consumare i beni materiali prodotti e solo lo stesso consumatore privato è capace di determinare i bisogni che aspira a soddisfare. La volontà dello Stato si sostituisce così alla sua e la sua libertà di scelta si sterilizza a poco a poco nella sua radice materiale. L’uomo diventa sempre meno libero in tutti i campi. La sua liberazione dalla natura domata dalla tecnica ha come corrispettivo il suo asservimento alla collettività, allo Stato e al potere dei gruppi che dirigono lo Stato.
Ma una economia la cui finalità funzioni a rovescio costa, per definizione, molto cara: servono sempre più mezzi, e mezzi onerosi, per rovesciare il suo corso naturale. Assistiamo così a uno spettacolo eccezionale: una economia i cui strumenti tecnici sono senza confronto e la cui capacità di produrre è enorme, che si inceppa sempre più. Un malessere diffuso, che talora esplode in crisi monetarie imprevedibili, tormenta una prosperità economica senza precedenti. Invano questa economia a rovescio tenta di creare nuovi bisogni. Come nota George Friedmann «la moltiplicazione anarchica dei bisogni mantiene lo squilibrio e, a sua volta, ne èstimolata». Siamo di fronte a un circolo vizioso nel vero senso della parola. Il dinamismo della economia non può essere distolto all’infinito dal suo fine naturale, senza rischio di esplosione.
Per questa ragione mai l’economia è stata più potente e mai è stata più fragile. Mai è stata più in grado di aiutare gli uomini e mai è stata più atta a privarli delle loro differenze specifiche e a fare di essi unicamente dei «lavoratori» costretti a produrre continuamente… Le attività propriamente umane rischiano così di scomparire a vantaggio della sola attività tecnico-economica che si sviluppa all’infinito…
Se vogliamo approdare al 2000 con speranza, dobbiamo risolvere assolutamente il problema dell’uomo posto di fronte al fenomeno inedito del dinamismo della economia. È ora, è più che ora. Questo problema può essere risolto soltanto a due condizioni: da una parte l’economia deve essere resa al suo fine naturale e rimessa al servizio del consumatore, e dall’altra deve essere reintegrata in una concezione dell’uomo che subordini l’attività di produzione e di consumo dei beni materiali alla attività morale e alla attività contemplativa dello spirito. In altri termini, il potere deve essere ricollegato alla saggezza.
La prima condizione sarà realizzata quando l’economia ridiventerà, o piuttosto diventerà, una autentica economia di mercato in cui i produttori migliori saranno ricompensati per i servizi che rendono dalle scelte operate dai consumatori, e quando lo Stato, invece di essere arbitrariamente giudice e parte come oggi, ritornerà a svolgere la sua funzione di arbitro indipendente delle forze in azione. La seconda condizione sarà a sua volta realizzata quando l’attività economica dell’uomo sarà di nuovo inquadrata in un sistema morale fondato sull’ordine naturale e quando il mercato sarà soggetto a regole, cioè reintegrato in un clima di costumi tale che il comportamento materiale degli uomini possa articolarsi con il loro comportamento superiore: le strutture giuridiche della economia potranno in questo modo prolungare lo slancio della natura umana verso il suo compimento il più pieno possibile.
Non diciamo che queste due condizioni siano facilmente realizzabili nelle circostanze attuali, in cui tutte le attività umane girano artificialmente a rovescio. Diciamo semplicemente che rispondono al bisogno più profondo dell’uomo, il bisogno naturale di felicità. Diciamo semplicemente che il dinamismo della economia è per noi l’occasione, se è finalizzato e quindi regolato, per realizzare, per quanto possibile, la felicità alla quale l’uomo aspira.
Siamo dunque aiutati nel nostro compito dalla natura e dalla tecnica. Le ragioni di speranza, quindi, non mancano. Inoltre, natura malorum remedia demonstrat, come dice l’adagio medico. A noi dunque, se siamo ragionevoli, Se vediamo le cose come sono e come devono essere, tocca diffondere queste ragioni fondate sulla realtà attorno a noi.
Non si conosce esempio di intrapresa che, rispondendo al bisogno più fondamentale dell’essere umano, non abbia, con il tempo, garanzia di successo.
MARCEL DE CORTE