di Alfredo Mantovano
L’aborto nell’ordinamento giuridico della Repubblica Italiana
L’aborto in Italia prima della legge n. 194/1978
Prima del 1975 l’aborto in Italia non era consentito, e anzi veniva sanzionato dalle norme contenute nel titolo X del libro II del codice penale; tuttavia, la giurisprudenza applicava con una certa frequenza come causa di giustificazione lo “stato di necessità”, previsto dall’articolo 54 dello stesso codice, ritenendo non punibile l’intervento abortivo reso necessario per salvare la vita della gestante e, in taluni casi, anche per ragioni di salute, purché gravi: era una soluzione che valutava l’interruzione della gravidanza in termini di illiceità, salvo rinunciare all’applicazione della pena nel caso concreto, in presenza di circostanze di fatto rigorosamente verificabili.
Il primo sensibile mutamento di rotta avviene nel 1975, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 che, pur riconoscendo “fondamento costituzionale” alla “tutela del concepito” nell’articolo 2 della Costituzione, posto a garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, compie un salto logico quando afferma che “[…] non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”, quasi che si possa distinguere fra persona in senso assoluto e persona in senso relativo. Questa decisione ha, di fatto e di principio, aperto la strada all’aborto, che sarebbe stato introdotto dopo tre anni, perché ha consentito la soppressione del feto quando la gravidanza – per riprendere i termini usati dai giudici di Palazzo della Consulta – “implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della donna”; la causa di giustificazione costituita dallo stato di necessità veniva in questo modo notevolmente dilatata, perché, rispetto all’articolo 54 del codice penale, era eliminato il limite dell’attualità del pericolo ed era stabilita in via generale la prevalenza della salute della madre sulla vita del nascituro, pur restando, a differenza di quanto avverrà con la legge n. 194/1978, il filtro dell’accertamento medico del danno o del pericolo per la salute medesima.
La disciplina introdotta dalla legge n. 194
La legge italiana sull’aborto, la n. 194 del 22 maggio 1978, recante Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, indica la pratica abortiva con l’eufemismo “interruzione volontaria della gravidanza”, ulteriormente occultato nell’uso corrente sotto la sigla i.v.g.; quindi, suddivide in modo del tutto arbitrario la vita infrauterina in tre periodi, fissando per ciascuno di essi una differente disciplina e avendo come esclusivo criterio di riferimento i rischi per la salute della donna.
Il primo periodo, regolamentato dagli articoli 4 e 5, coincide, pur se in modo non del tutto esatto perché le dichiarazioni della gestante sul momento iniziale della gravidanza hanno un peso decisivo, con i primi novanta giorni della gestazione, nel corso dei quali è di fatto ammesso l’aborto senza limiti. Ogni ragione è valida, dalle condizioni economiche, sociali e familiari, alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, alla previsione di anomalie o malformazioni del nascituro: ciascuna di queste ragioni, in quanto si traduca in “un serio pericolo” per la salute fisica o psichica della donna, legittima il ricorso all’aborto, gratuito o assistito. Si tratta di un insieme di indicazioni estremamente generiche, la cui ampiezza preclude qualsiasi concreto accertamento, peraltro non previsto e non prevedibile; bisognerebbe chiarire, per esempio, come sia medicalmente verificabile il pericolo per la salute psichica della gestante derivante dalle preoccupazioni economiche relativamente al futuro mantenimento del concepito: l’ipotetico riscontro dovrebbe in tal caso riguardare la denuncia dei redditi, il benessere psicologico della donna, o ambedue?
Quanto alle modalità per ottenere l’intervento, la gestante si può rivolgere al consultorio, o a una struttura sociosanitaria, oppure al proprio medico di fiducia: costoro, secondo la previsione di legge, dovrebbero indurla a riflettere e dissuaderla dall’aborto, prospettando le possibili alternative. Se ravvisano l’urgenza dell’intervento, rilasciano un certificato con il quale la donna può immediatamente recarsi ad abortire; altrimenti redigono ugualmente un certificato che attesta la gravidanza e la richiesta presentata dalla donna: costei, decorso il termine di sette giorni, è legittimata a ottenere l’intervento di aborto. In concreto, non ha alcun rilievo la ragione avanzata dalla gestante a sostegno della propria decisione: poiché non è prevista alcuna verifica della sua fondatezza, l’esito, anche qualora il soggetto interpellato non ravvisi né l’urgenza né la sussistenza dell’indicazione, è comunque il rilascio di un pezzo di carta che, fotografando un dato obiettivo, la gravidanza, e una dichiarazione di volontà, l’intenzione di interromperla, autorizza l’interruzione.
Il secondo periodo, disciplinato dagli articoli 6 e 7, è quello compreso fra il quarto mese di gravidanza e la possibilità di vita autonoma del feto, e quindi – in considerazione della dipendenza di quest’ultima dalle attrezzature mediche e dalla perizia degli ostetrici – non è determinabile a priori: in tale arco temporale l’aborto può praticarsi per motivi terapeutici in senso lato, e perciò anche con riferimento alla salute psichica della donna, ed eugenetici, con riferimento a timori di malattie del nascituro; queste indicazioni vanno medicalmente accertate, pur se la genericità delle formulazioni non consente una verifica rigorosa.
Infine, il terzo periodo è quello compreso fra il momento della vitalità del nascituro e la nascita: l’aborto è praticabile solo se è in pericolo la vita della donna.
La legge n. 194 prevede inoltre l’assenso dei genitori o del tutore per l’interruzione della gravidanza della minore e dell’interdetta e, in mancanza, l’autorizzazione del giudice tutelare, nonché la facoltà per i medici di sollevare obiezione di coscienza.
Diciotto anni di legge n. 194: bilancio di un fallimento e di una strage
“La legge si propone: di azzerare gli aborti terapeutici; di ridurre gli aborti spontanei; di assistere quelli clandestini. Si propone inoltre di favorire la procreazione cosciente, di aiutare la maternità, di tutelare la vita umana dal suo inizio”: con queste parole uno dei relatori della legge sull’aborto, l’on. Giovanni Berlinguer, ne riassumeva gli intenti e gli obiettivi; diciotto anni costituiscono un tempo più che bastevole per verificare se questi ultimi siano stati conseguiti.
Gli “aborti terapeutici” sono quelli “legali” tout court, perché, come si è detto, l’articolo 4 riunisce le varie circostanze la cui semplice evocazione autorizza a ricorrere all’intervento interruttivo sotto un’unica e vaga indicazione di salute. Dal 1978 al 1995, invece di azzerarsi, gli “aborti terapeutici”, in tal senso intesi, hanno superato i tre milioni e mezzo, con una media di poco inferiore ai duecentomila all’anno, e un rapporto annuo che è di un aborto per ogni tre o quattro nati vivi: quindi si tratta di una pratica abortiva diffusa capillarmente, che non può spiegarsi con situazioni eccezionali o con difficoltà insuperabili. D’altra parte, il profilo medio della donna che fa ricorso all’aborto, ricostruibile sulla base dei dati diffusi annualmente dal ministero della Sanità, rinvia a una gestante che nella gran parte dei casi è coniugata, non separata né divorziata, in età compresa fra i venticinque e i trentaquattro anni, con sufficiente livello di istruzione, e con non più di due figli, pertanto in condizioni ottimali, almeno sotto questi profili, per accogliere il nascituro.
La legge n. 194 ha fallito pure sul versante della lotta alla clandestinità perché, sempre in base alle stime ministeriali, l’aborto clandestino si attesterebbe attualmente fra le cinquanta e le sessantamila unità all’anno. Ancora: la maggiore coscienza e responsabilità della procreazione è tutta da dimostrare, perché l’area della recidività fra chi ricorre all’intervento di i.v.g. supera del 30% coloro che hanno già abortito almeno una volta. Quanto all’aiuto alla maternità e alla tutela della vita umana, resta solo la constatazione di una grande ipocrisia perché, senza che esista nell’ordinamento giuridico una legislazione di reale accoglienza della vita, la legge n. 194 ha conferito il “diritto” di sopprimere ciò che fa diventare madre, e quindi di violare irreparabilmente la vita umana.
Prospettiva di riforma
La revisione della legislazione italiana sull’aborto, per avere connotati di serietà, deve muoversi lungo quattro direttrici interdipendenti, che ribaltino la logica di banalizzazione della vita oggi dominante.
a. Va affermato senza incertezze che l’essere umano, in base a constatazione naturale e non come esito di una determinata impostazione religiosa confessionale, è tale dal concepimento, e quindi da quel momento ne va garantita l’intangibilità: l’articolo 1 della legge n. 194 tutela formalmente la vita umana “fin dal suo inizio”, ma trascura significativamente di riconoscere quando si ha quell'”inizio”.
b. Deve introdursi un’articolata serie di misure che aiutino la maternità in genere, e quella difficile in particolare. Per lo Stato non può essere indifferente che una famiglia sia senza figli, o ne abbia soltanto uno, o due, o quattro, oppure dieci: anche in virtù del richiamo costituzionale all’uguaglianza sostanziale e della protezione accordata alla famiglia numerosa, il nucleo familiare non può ancora essere ritenuto una somma di individui, ma diventare soggetto autonomo, in ogni settore, da quello tributario a quello sanitario, fino a quello scolastico.
c. Il volontariato, che ha dato ottima prova di sé, nonostante gli ostacoli frapposti, per limitare l’aborto e per stimolare all’accoglienza, va potenziato e dotato, nella prospettiva dell’aiuto alla vita, degli strumenti operativi e dei mezzi economici necessari, così come è stato fatto per i volontari che operano sul fronte della tossicodipendenza.
d. Si deve ripensare a misure, anche penalistiche, che dissuadano dalla pratica abortiva: non ha senso proclamare l’intangibilità della vita e ometterne la tutela sotto questo profilo, come sarebbe assurdo immaginare che l’esortazione a essere buoni sia sufficiente a proteggere l’esistenza di chi è già nato, indipendentemente dalla configurazione del delitto di omicidio. Le sanzioni saranno ovviamente graduate a seconda dei soggetti della vicenda abortiva: la posizione del medico che pratica l’intervento interruttivo non può essere equiparata a quella della gestante, e le difficoltà che incontra quest’ultima non sono le stesse dei parenti che la inducono o la costringono all’aborto. Tuttavia resta ferma la necessità di una valutazione di disfavore dell’ordinamento giuridico verso la soppressione della vita umana, pur se ancora prenatale.
Alfredo Mantovano
Vedi anche: L’aborto procurato o IVG (interruzione volontaria della gravidanza): tecnica ed etica (di Diletta Rossi)
Per approfondire: sulla legge n. 194/1978, vedi il commento a tutt’oggi più completo, in Carlo Casini e Francesco Cieri, La nuova disciplina dell’aborto (Commento alla legge 22 maggio 1978 n. 194), CEDAM, Padova 1978; sui singoli aspetti accennati nell’esposizione, i miei articoli Aborto, difesa della vita e Costituzione, in Cristianità, anno XV, n. 151, novembre 1987; Dieci anni di aborto in Italia, ibid., anno XVI, n. 161, settembre 1988; Aborto anno undecimo: dal “caso Mangiagalli” a “Provvedimenti in difesa della maternità”, ibid., anno XVII, n. 177, gennaio 1990; Aborto anche “in pillole”, ibid., anno XVIII, n. 184-185, agosto-settembre 1990; e Aborto “legale” 1978-1996: bilancio di un fallimento, ibid., anno XXIV, n. 256-257, agosto-settembre 1996, pp. 3-6. Cfr. anche Mauro Ronco, L’aborto in quattro paesi dellEuropa Occidentale: legislazione e cause, in Quaderni di Cristianità, anno II, n. 4, primavera 1986, pp. 3-19.