di Ermanno Pavesi
1. La psichiatria fra positivismo e reazione al positivismo
Nel Manuale critico di psichiatria Giovanni Jervis scrive: “Con il nome generico di “antipsichiatria” venivano identificate nel decennio ’60-70 una serie di tendenze che ponevano in discussione tutti i dogmi della “scienza” psichiatrica tradizionale”.
La psichiatria – la specializzazione della medicina che si occupa di disturbi psichici – è una disciplina piuttosto recente, che ha raggiunto una certa autonomia solo nel secolo XIX. La medicina occidentale dall’antichità fino all’epoca moderna aveva inquadrato i disturbi psichici in una visione generale dell’uomo che teneva certamente conto della sua realtà biologica, ma che costituiva un’antropologia di tipo filosofico. Nel corso degli ultimi secoli il progresso medico ha cercato di localizzare la malattia in strutture anatomiche sempre più precise. Questo processo è culminato verso la metà del secolo XIX anche nella nascita della psichiatria positivistica moderna, ben caratterizzata dalla tesi di Wilhelm Griesinger (1817-1868) – da molti considerato come il fondatore della psichiatria moderna di lingua tedesca – secondo cui le malattie mentali sono malattie del cervello. Se fino ad allora le malattie psichiche erano state di competenza dei medici internisti, nasce allora una psichiatria “scientifica” strettamente collegata alla neurologia, che pretende fra l’altro di essere l’unico approccio scientifico ai problemi della vita psichica, patologici e non, ed è critica nei confronti di approcci non positivisti.
Le reazioni a questo riduzionismo non tardano: in alcuni ambienti protestanti tedeschi, per esempio, disturbi psichici vengono fatti rientrare nella competenza della pastorale religiosa, sottolineando anche la possibilità della loro origine demonologica; a cavallo fra i secoli XIX e XX nei paesi di lingua tedesca si diffondono movimenti “alternativi”, che criticano lo stile di vita, l’alimentazione e l’abbigliamento della società cittadina e industriale, ne ritengono necessaria una riforma e sostengono che anche le malattie psichiche sono causate da un genere di vita non in armonia con la natura; quindi propongono vegetarismo, naturismo, astinenza dall’alcol e così via, e criticano, a volte in modo molto radicale, la psichiatria del tempo, accusata d’interessarsi soltanto degli aspetti biologici delle malattie.
Una critica radicale alla psichiatria positivista proviene anche dal Surrealismo – movimento culturale e artistico fondato nel 1918 da André Breton (1896-1966) – che, denunciando la cultura ufficiale e i valori della civiltà occidentale, propone pure il superamento della distinzione fra normalità e pazzia fino all’idealizzazione del delirio. Significativa al proposito, e interessante documento “antipsichiatrico”, è la Lettera ai primari dei manicomi, comparsa sulla rivista La Révolution surrèaliste nel 1925: “Non solleveremo qui il problema degli internamenti arbitrari, per evitare la fatica di facili dinieghi. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ospiti, perfettamente pazzi stando alla definizione ufficiale, sono stati, anch’essi, arbitrariamente internati. Non ammettiamo che si ostacoli il libero svilupparsi di un delirio che è legittimo, logico tanto quanto qualsiasi altra serie di idee o di atti umani. La repressione delle reazioni antisociali è, per principio, altrettanto chimerica quanto inaccettabile. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale […].
“Senza insistere troppo sulla natura assolutamente geniale insita nelle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo adatti ad apprezzarle, affermiamo l’assoluta legittimità della loro concezione della realtà e di tutte le azioni che da essa derivano”.
Già in questo documento sono presenti diversi temi dell’antipsichiatria: il malato è vittima dell’oppressione sociale e la sua incapacità di conformarsi ai canoni della società viene repressa come reazione antisociale. D’altra parte, la pazzia viene interpretata non solamente come anormalità, ma anche come originalità e genialità che trasgredisce la norma ma che, contemporaneamente, può esprimere lo spirito umano in modo più spontaneo, al di fuori di ogni schematismo convenzionale.
2. Psichiatria sociale e antipsichiatria in Italia
Mentre le forme precedenti di antipsichiatria avevano interessato per lo più solo marginalmente gli specialisti, a partire dagli anni 1960 si sviluppa un movimento antipsichiatrico che coinvolge ampiamente anche addetti ai lavori. Questo movimento, sorto nei paesi anglosassoni, si diffonde progressivamente in tutto l’Occidente dove, pur facendo riferimento ad alcuni autori comuni come Ronald David Laing (1927-1989), David Cooper e Thomas Stephen Szaz, assume forme diverse nei diversi paesi, a seconda delle tradizioni psichiatriche e delle condizioni dell’assistenza nel settore.
Questo sviluppo ha senz’altro numerose cause:
– a partire dagli anni 1950 sono introdotti nella terapia psichiatrica nuovi psicofarmaci, che in certi casi consentono per la prima volta di agire efficacemente contro i sintomi delle più gravi malattie mentali. Queste nuove terapie aprono possibilità di cura fino ad allora inimmaginabili, e ciò comporta una trasformazione radicale della strategia terapeutica, del ruolo di tutti i terapeuti e anche una nuova organizzazione degli istituti di cura, ospedali psichiatrici compresi;
– l’organizzazione psichiatrica esistente non era nella situazione migliore per affrontare questa trasformazione, in parte per ragioni presenti in diversi paesi – generalmente l’assistenza psichiatrica è la Cenerentola del sistema sanitario -, ma anche per motivazioni tipicamente italiane, raramente prese in adeguata considerazione. Lo stesso Jervis sostiene che un’istituzione come il manicomio era un “centro di potere molto rilevante nell’equilibrio della comunità locale, oltre che un campo di manovre clientelari e un serbatoio di voti”. L’amministrazione dei manicomi non aveva sempre avuto come obbiettivo primario l’assistenza agli ammalati: “È significativo, a questo proposito – scrive il medesimo psichiatra -, che moltissimi manicomi abbiano un numero enorme – talora superiore a quello del personale addetto a compiti di custodia e curativi – di impiegati e di dipendenti che svolgono compiti marginali o parassitari. Ciò si spiega – ma solo in parte – col clientelismo delle assunzioni”. L’arretratezza dei manicomi dipendeva non tanto dalla psichiatria quanto dal clientelismo degli amministratori locali durante la Prima Repubblica e, in certi casi, anche dall’ideologizzazione del personale che, assunto con criteri politici, era talora più propenso a partecipare a una conduzione di tipo assembleare del manicomio che non a prendersi cura dei pazienti in modo professionale.
Il movimento antipsichiatrico denuncia l’arretratezza e il disservizio dell’assistenza psichiatrica, non si limita però a chiederne un adeguamento, ma pretende un mutamento radicale nell’approccio al problema, per esempio con l’applicazione di categorie sociologiche nella diagnosi delle malattie mentali.
Un punto importante è l’interpretazione della malattia mentale come devianza: “La follia – afferma lo stesso Jervis – è anzitutto un giudizio di devianza; in pratica è il nome che si dà a certe violazioni delle regole del vivere sociale”. La diagnosi psichiatrica non avrebbe un valore scientifico, ma dipenderebbe da categorie socioculturali ed etichetterebbe le persone non corrispondenti a un determinato modello sociale secondo i passaggi: deviante, non normale, anormale, malato. Alla psichiatria spetterebbe quindi una funzione organica al “sistema”: farsi carico dei devianti, provvedere al loro ricupero, al loro reinserimento sociale e, nel caso non fosse possibile, garantire la loro esclusione per mezzo dell’istituzionalizzazione. Questi concetti vengono spesso integrati in una concezione marxista, per cui la malattia psichica è conflitto psichico, ripercussione di contraddizioni e di tensioni sociali. Come secondo Karl Marx (1818-1883) la storia è storia della lotta di classe, così, per una psichiatria di orientamento marxista, la storia del malato è una storia di oppressione. Quindi, secondo lo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), “l’unica possibilità che ci resti è di conservare il legame del malato con la sua storia – che è sempre storia di sopraffazioni e di violenze – mantenendo chiaro da dove provenga la sopraffazione e la violenza”.
Nella prospettiva dell’antipsichiatria questa storia di violenza comincia all’interno della famiglia per proseguire nella scuola e nella fabbrica: “La famiglia nucleare – sostiene Jervis – è la macchina che costantemente fabbrica e riproduce forza-lavoro, sudditi consumatori, carne da cannone, strutture di ubbidienza al potere; e anche nuovi individui condizionati in modo tale da ricostituire nuove coppie stabili, procreare altri figli, ricreare altre famiglie, e così perpetuare il ciclo. […]
“Gran parte dei disturbi mentali nascono proprio da queste contraddizioni; la famiglia contemporanea, nel momento stesso in cui comincia a non funzionare più, continua a fabbricare e condizionare dei bambini che le si rivolteranno contro, o che non riuscendo a rivoltarsi diventeranno nevrotici o psicotici; oppure cittadini conformisti, soddisfatti della loro mortale ubbidienza, mediocrità e normalità”.
L’antipsichiatria accusa la scienza ufficiale di concentrare la propria attenzione sulla malattia individuale e sulle sue basi biologiche, trascurando l’origine sociale dei disturbi psichici. La pratica psichiatrica sarebbe quindi antiterapeutica in quanto i ruoli psichiatra-paziente riprodurrebbero in forma nuova i rapporti di potere e di sopraffazione alla base dei disturbi da curare.
“Il nuovo psichiatra sociale – scrive Basaglia -, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, lo psicologo di fabbrica, il sociologo industriale (per non citarne che alcuni) non sono che i nuovi amministratori della violenza del potere, nella misura in cui – ammorbidendo gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle sue istituzioni – non fanno che consentire, con la loro azione tecnica apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale”.
L’antipsichiatria auspica che lo psichiatra rifiuti il proprio ruolo, sottolinei l’origine sociale dei disturbi psichici e s’impegni nell’eliminazione delle contraddizioni sociali e quindi per la trasformazione della società: sempre secondo Basaglia si deve “[…] continuare a minare – ora attraverso la comunità terapeutica, domani attraverso nuove forme di contestazione e di rifiuto – la dinamica del potere come fonte di regressione, malattia, esclusione e istituzionalizzazione a tutti i livelli”.
L’antipsichiatria ha denunciato senz’altro a ragione la scarsa attenzione di alcuni indirizzi psichiatrici verso i fattori sociali coinvolti nell’insorgere di malattie psichiche e rilevanti per il loro decorso, ma ha portato a eccessi e all’ideologizzazione del problema della malattia mentale. Per esempio, non è accettabile il concetto molto vago di violenza come trauma all’origine di disturbi psichici, che, nel caso della famiglia, può indicare non solo violenze vere e proprie, come abuso sessuale o maltrattamenti, ma anche solo l’educazione impartita da genitori che svolgono seriamente la loro funzione. La famiglia in sé diventa, in questa prospettiva, un'”istituzione della violenza”.
Il movimento antipsichiatrico ha ispirato anche la legge n. 180 del 1978, nota come Legge Basaglia, che ha abolito gli ospedali psichiatrici e ha così impedito di trovare una soluzione al problema della degenza psichiatrica. Il sospetto di fondo nei confronti della pratica e della terapia psichiatriche non permette la progettazione di strutture atte alla cura e alla riabilitazione di malati psichici, in quanto un intervento di questo tipo viene considerato una forma di esclusione, di colpevolizzazione e di punizione del paziente.
Per approfondire: vedi la storia del movimento antipsichiatrico, in Bruno Callieri, voce Psichiatria, in Enciclopedia del Novecento, vol. V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1980, pp. 748-777 (pp. 765-767); l’ideologia, in Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria, 2a ed., Feltrinelli, Milano 1975; e in Franco Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, 7a ed., Einaudi, Torino 1974.