di Giovanni Cantoni
1. Il termine “senso comune” e la sua accezione filosofica
Nel linguaggio dei filosofi il termine senso comune indica l’insieme organico delle certezze di fatto e di principio comuni a ogni uomo e precedenti ogni riflessione critica, cioè di quanto tutti spontaneamente sanno e pensano riguardo a quanto tutti hanno in comune come persone umane, e a quanto tutti sentono come vero, buono e giusto, anche se non se ne rendono conto formalmente o, pur rendendosene conto, non lo sanno giustificare razionalmente, compito questo specifico della scienza.
Proprio lo “stato della scienza”, cioè il livello scientifico o critico della ragione naturale quale si è venuto configurando almeno a partire da René Descartes (1596-1650) e dalla sua filosofia, basata sul dubbio metodico e quindi sulla sospensione dell’assenso relativamente a tutte le evidenze primarie, pone nella necessità di affrontare le più importanti posizioni filosofiche moderne — peraltro logicamente connesse fra loro come momenti dialettici di uno stesso circolo vizioso — quali sono il moderno razionalismo, forma secolarizzata dello gnosticismo, e il post-moderno scetticismo, espressione di irrazionalismo sostanziale, facendo riferimento al senso comune. Inoltre il rilievo sociale di razionalismo e di scetticismo nella forma di relativismo e di “pensiero debole” — senza dimenticare il sentimentalismo religioso e il fideismo teologico nonché il frutto totalitario del connubio fra relativismo e democrazia — rafforzano l’esigenza di tale riferimento. Perciò, benché sia corrente l’equiparazione linguistica fra senso comune e buonsenso, intesi come capacità di giudicare le cose nel modo più semplice e più adeguato, propria dell’individuo equilibrato e coerente o, più genericamente, della maggior parte degli uomini, s’impone di lasciare all’uso comune un termine di così largo impiego come buonsenso e di utilizzare senso comune per indicare una condizione innata dell’uomo, per la quale egli formula giudizi spontanei e universali e alla base di ogni ulteriore crescita di conoscenze e di cultura.
2. Il termine “senso comune” e la sua storia
Se il termine “senso comune” non appartiene al lessico della filosofia classica, cioè al pensiero greco e latino, la presenza di un sistema organico di certezze primarie, in cui i primi princìpi sono intimamente connessi all’esperienza, è riscontrabile nello stesso pensiero, nel quale tale sistema vive in una condizione di conoscenza irriflessa, immediata ma non per questo di sapore irrazionalistico, cioè è presente come realtà intuita ma non messa a tema, suscettibile di passare da “senso comune” a “filosofia del senso comune”. In questo itinerario si pone — e si risolve — il problema della puntualità della sua denominazione: «Siccome il senso fisico ha una certa conoscenza dell’oggetto sensibile corrispondente — nota san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) —, non è strano che il linguaggio usuale usi il verbo “sentire” per indicare anche la conoscenza intellettuale». E l’uso del termine latino sensus per indicare una funzione intellettuale non solo viene conservato nelle età seguenti, ma anzi si arricchisce, ben oltre la consuetudine tramandata dagli autori antichi e medioevali, con il ricupero intenzionale di concetti e di termini della classicità latina. Per esempio, l’umanista italiano Lorenzo Valla (1405-1457) ricupera l’espressione ciceroniana consensio communis per indicare le nozioni etiche comunemente accettate; l’umanista spagnolo Juan Luís Vives (1492-1540) parla di communis consensio e di sensus communis; il gesuita francese Claude Buffier (1661-1737) di sens commun; infine l’italiano Giambattista Vico (1678-1744) riprende il termine sensus communis definendolo «regola tanto di ogni prudenza che di eloquenza», generata dalla «somiglianza dei costumi fra le nazioni». Mentre l’uso in latino si viene precisando nello scrittore religioso tedesco Friedrich Christoph Oetinger (1702-1782) ed è confermato nel Magistero della Chiesa cattolica — nell’enciclica Pascendi dominici gregis, pubblicata da Papa san Pio X (1903-1914) nel 1907 contro il modernismo, sensus communis viene esplicitamente contrapposto a termini d’indole irrazionalistica apparentemente analoghi come “senso religioso” —, grazie a Vico, che parla di senso comune anche nelle sue opere in italiano — «Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutta una nazione, o da tutto il genere umano» —, il termine conquista una dignità e una specifica collocazione in tutte le lingue europee. Al tema e alla chiarificazione del termine hanno contribuito in modo particolare l’inglese Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury (1671-1713), lo scozzese Thomas Reid (1710-1796), il catalano Jaime Balmes (1810-1848), i francesi Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), domenicano, e Jacques Maritain (1882-1973), l’austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951), l’inglese George Edward Moore (1873-1958), finalmente gli italiani Enrico Castelli-Gattinara di Zubiena (1900-1977) e Luigi Pareyson (1918-1991). E accanto all’uso del termine corre, con formulazioni analoghe e tangenti, la stessa nozione, come nel francese Blaise Pascal (1623-1662), nel tedesco Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), e nell’ungherese Michael Polany (1890-1969).
3. Senso comune e mito, fede e dogma
Contro l’utopia di un cominciamento assoluto della filosofia, cioè di un pensare senza presupposti — un “pensare da zero” corrispondente filosofico del contrattualismo sociale —, i sostenitori della tesi secondo cui si dà una mito-metafisica, cioè una spiegazione della realtà elaborata in termini narrativi e poetici, talora ipotizzano alla sua base il mito come espressione pre-filosofica di una ricerca sapienziale che muove dal senso comune. Analogamente, le premesse razionali dell’atto di fede e il linguaggio dei dogmi, l’espressione delle verità di fede rivelate da Dio e proposte dalla Chiesa, elementi essenziali della fede cristiana, sono entrambi legati sempre e soltanto al senso comune. Infatti le certezze che rendono possibile l’accoglimento della rivelazione soprannaturale non sono legate alla filosofia, cioè al livello scientifico o critico della ragione naturale, bensì al livello comune e basilare di coscienza razionale, che costituisce il soggetto in persona capace di atti umani; e, quanto al linguaggio dei dogmi, se la forma dell’espressione dogmatica è culturalmente e storicamente databile, il suo contenuto è stato inteso e deve intendersi in termini di senso comune, ed è pertanto il medesimo per ogni cultura e per ogni tempo.
4. Filosofia del senso comune
Insieme dell’adeguatezza del termine e dell’importanza della nozione, quindi della ripresa di entrambi, è puntuale e argomentato promotore in Italia e nel mondo Antonio Livi, nato a Prato nel 1938, sacerdote dell’Opus Dei, discepolo dello storico francese della filosofia medioevale Étienne Gilson (1884-1978), socio ordinario dell’Accademia di San Tommaso nonché docente di filosofia della Conoscenza sia nella Pontificia Università Lateranense che nell’Ateneo Romano della Santa Croce. Il filosofo italiano, filosofo del senso comune, afferma che «[…] la filosofia del senso comune non è da confondersi con il senso comune»; e cita in proposito un articolo del 1981 dello studioso francese della comunicazione Francis Jacques: «Il senso comune è sostrato incomunicabile di ogni comunità di pensiero. […] Le proposizioni del senso comune sono implicitamente oggetto di una sorta di consenso universale. Esse regolano i nostri pensieri, sono il contesto di tutti i contesti, sono la condizione necessaria delle nostre deduzioni. Ma sono una condizione inespressa. Questo è il punto: il senso comune funziona senza parlare […]. Sostrato incomunicabile di ogni comunità di pensiero, il senso comune non può comunicarsi espressamente senza trasformarsi in una certa misura». «In conclusione — scrive sempre don Livi —: se il senso comune agisce “senza parlare”, ben ne può (e ne deve) parlare la filosofia»; ma soprattutto, ne devono tener conto i filosofi: diversamente producono costruzioni la cui incoerenza di fondo, dovuta al rifiuto del fondamento costituito dal senso comune, richiede di essere fronteggiata attraverso la rigidità dei sistemi e la proposta di ideologie.
5. Contenuti
I contenuti del senso comune sono essenzialmente l’universo, l’io come soggetto qualificato dall’anima, l’ordine morale o legge naturale e Dio. Tali certezze di fatto implicano l’intuizione dei princìpi primi e costituiscono le premesse razionali di un possibile atto di fede nell’incontro con la Rivelazione.
Dunque, il senso comune è costituito originariamente da questa evidenza, “le cose sono”, “res sunt” — la felice espressione è di Gilson —, vi è un insieme di cose, l’universo, tante cose che formano in qualche modo una totalità, il mondo, la realtà, che abbraccia l’attuale e il possibile, il presente e il passato e il futuro, le qualità sensibili e la sostanza conoscibile che attraverso tali qualità si presenta.
Quindi nel mondo, cioè nel tutto formato dalle cose che “vi sono”, la conoscenza spontanea e immediata distingue l’“io”, il soggetto della conoscenza stessa, un essere fra gli esseri, accomunato a essi dalla partecipazione comune all’essere, e distinto da essi, indiviso in sé e diviso dagli altri esseri, capace di libertà, di autodeterminazione rispetto ai valori che l’ordine dell’universo implica: «Il senso comune — nota padre Garrigou-Lagrange — dà il nome di “persona” a determinati enti che ai suoi occhi appaiono diversi da quegli altri che denomina “cose”. La persona è l’essere razionale e libero, padrone dei suoi atti, indipendente, sui iuris, diversamente da come è l’animale, la pianta, il minerale».
E la libertà dell’uomo e la necessità delle cose permettono l’identificazione in entrambi i casi di un fine, di una dinamica ordinata al suo perseguimento, di una legge morale e di natura, entrambe naturali.
Infine, le cose e le persone che sono e che sono ordinate e orientate consentono di passare all’ultimo contenuto del senso comune, Dio, causa dell’ordine delle cose e del loro stesso essere.
6. Un “circolo virtuoso”
Dunque, l’itinerario dal senso comune alla riflessione filosofica che si fonda su di esso e di cui la riflessione su di esso è parte, l’itinerario dal senso comune al mito e all’apertura alla Rivelazione viene sempre vissuto nella prospettiva del soggetto e del suo mondo culturale. E le crisi degli esiti filosofici — fino al dissolvimento della stessa filosofia — sono ampiamente attribuibili al rifiuto del fondamento; perciò — fra l’altro — ogni razionalismo, ogni scetticismo e ogni fideismo attivano la reiterazione di tale itinerario: per esempio — e per limitarsi al campo filosofico — «[…] è consueto, in ogni filosofia — nota don Livi —, procedere per ulteriori approfondimenti e ripercorrere la strada a ritroso, fino a trovare (e ritrovare sempre più sicuramente) il fondamento»: «[…] ci sono “corsi” e “ricorsi” anche nella conoscenza». Sì che si può accogliere come sapiente sintesi il “pensiero breve” affidato nel 1992 dal pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) ai suoi Sucesivos escolios a un texto implícito: «Il senso comune è la casa paterna alla quale la filosofia torna, ciclicamente, sfinita e stanca»; e non vi è chi non colga in esso l’eco della parabola evangelica del figlio prodigo: il logos dell’uomo non torna immediatamente al Logos di Dio, ma mediatamente al logos come dono di Dio all’uomo, cioè a cogliersi come dono divino.
Per approfondire: vedi don Antonio Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza & della fede, Ares, Milano 1990; Idem, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo (Vico, Reid, Jacobi, Moore), Massimo, Milano 1992; Idem, Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, Armando, Roma 1997; dello stesso, come strumento di riferimento teoretico centrato sul senso comune, vedi Lessico della filosofia. Etimologia, semantica & storia dei termini filosofici, Ares, Milano 1995; e, come strumento di riferimento storico sempre centrato sul senso comune, i tre voll. del corso di filosofia in quattro tomi La filosofia e la sua storia, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1996.