Giovanni Cantoni, Cristianità n. 31 (1977)
Sulla strada del “compromesso storico”
IL “COMPROMESSO CULTURALE”
I
LA LETTERA DI BERLINGUER
La lettera di Berlinguer è una proposta comunista di collaborazione con l’episcopato e con i cattolici, per la costruzione comune di una società “pluristicamente” laicista.
Dunque, l’on. Berlinguer ha risposto alla lettera a suo tempo inviatagli da mons. Bettazzi, e la sua risposta è andata oltre un consueto scambio di cortesie o di opinioni brevi, per tentare una esposizione consistente dello status, della condizione ideologica del PCI, e quindi una coerente difesa della politica comunista nei confronti degli istituti assistenziali ed educativi privati, cattolici e no.
1. LA PRETESA «DEIDEOLOGIZZAZIONE» DEL PCI
L’intesa compromissoria, secondo i comunisti, è possibile, poiché il PCI avrebbe rinunciato a professare «esplicitamente» e «dogmaticamente» il marxismo-leninismo, bastandogli applicare la sua filosofia materialistica ateistica «praticamente» e «metodicamente», nell’analisi, nella tattica, nella strategia.
Circa il primo tema – lo status ideologico del PCI -, il segretario generale comunista afferma perentoriamente: «[…] è forse esatto dire […] che il Partito comunista italiano come tale, e cioè in quanto partito, organizzazione politica, professa esplicitamente la ideologia marxista, come filosofia materialistica ateistica? Proprio per i chiarimenti sopra dati, risponderei di no» (1).
Quali sono «i chiarimenti sopra dati», che dovrebbero escludere la professione esplicita della «ideologia marxista, come filosofia materialistica ateistica», da parte del PC «come tale, e cioè in quanto partito, organizzazione politica»?
La prova consisterebbe, secondo l’on. Berlinguer, nella presenza, nello statuto del PCI, dell’articolo 2 che recita: «Possono iscriversi al Partito comunista italiano i cittadini che abbiano raggiunto il diciottesimo anno di età e che – indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche – accettino il programma politico del partito e si impegnino: a operare per realizzarlo, ad osservare lo Statuto, a lavorare in una organizzazione di partito» (2).
La prova, per dire il meno, è scarsamente probante, se, accanto all’articolo 2 citato dall’on. Berlinguer, si ricorda un taciuto articolo 5, comma b, che dice: «Ogni iscritto al partito ha il dovere di: […] accrescere continuamente la propria conoscenza della linea politica del partito e la propria capacità di lavorare per realizzarla; leggere, sostenere e diffondere il giornale e le pubblicazioni del partito; acquisire e approfondire (salve restando le disposizioni dell’articolo 2) la conoscenza del marxismo-leninismo e applicarne gli insegnamenti nella soluzione delle questioni concrete» (3).
Il carattere probante dell’articolo 2 a sostegno della tesi dell’on. Berlinguer diminuisce in modo ancora più vistoso se si hanno presenti e il dettato del comma c del citato articolo 5 e i commi e, f e g dell’articolo 18, che definisce organizzativamente il cosiddetto «centralismo democratico».
Al comma c dell’articolo 5 si dice: «Ogni compagno ha il diritto di sostenere presso gli organismi del partito le proprie opinioni, anche se divergenti da quelle contenute nelle direttive di orientamento e di lavoro. Deve però, intanto, realizzare le direttive regolarmente adottate secondo il principio di subordinazione della minoranza alla maggioranza, del singolo alla organizzazione, dell’organizzazione inferiore alla superiore, principio che assicura l’assoluta unità nella azione» (4).
I commi e, f e g dell’articolo 18 suonano in questi termini:
«e) la minoranza deve accettare e applicare le decisioni della maggioranza;
«f ) le decisioni degli organismi superiori sono obbligatorie per gli organismi inferiori;
«g) non sono ammesse azioni che violano la linea politica e le norme dello Statuto, non è tollerata l’attività frazionistica né alcuna azione che possa rompere o minacciare l’unità e la disciplina del partito» (5).
Ricordato, infine, che nel preambolo dello statuto si sottolinea che il «centralismo democratico» è il «fondamentale principio» della organizzazione del PCI; che, sempre in detto preambolo, si dichiara: «Il Partito comunista italiano […], mentre avanza su una via autonoma e nazionale – la via italiana al socialismo -, attinge alla ricca e multiforme esperienza del movimento operaio internazionale, dell’Unione sovietica, della Cina popolare e di tutti i paesi di nuova democrazia e partecipa allo scambio di esperienze con i partiti comunisti e operai di tutto il mondo» (6); e che tale Statuto del Partito comunista italiano è stato confermato dal 14º congresso del PCI, tenuto dal 18 al 23 marzo 1975, che cosa rimane dei «chiarimenti» offerti dall’on. Berlinguer? Qual è il senso vero dell’articolo 2, così come si ricava dall’esame interno del testo statutario comunista e da una sua lettura non superficiale o almeno non settoriale, isolata?
L’articolo 2 dichiara che si può entrare nel PCI provenendo dalle più diverse esperienze e condizioni, ma che, dopo l’adesione al partito, si deve approfondire il marxismo-leninismo e, se non professarlo (si sarebbe tentati di dire: de internis nec secta, ma è proprio vero?), si è certamente tenuti a praticarlo, cioè ad «applicarne gli insegnamenti nella soluzione delle questioni concrete». E quanto disposto dai commi citati dell’articolo 18 è a naturale tutela di questa «ortodossia».
Ma l’argomentazione dell’on. Berlinguer non termina a questo punto. Infatti, subito dopo avere negato il carattere esplicitamente marxista-leninista del PCI, con il conseguente materialismo e ateismo, il segretario generale comunista si esibisce in un passaggio tipicamente «dialettico», che, nel linguaggio dell’uomo comune, ancora sostenuto dal buon senso, si potrebbe qualificare e descrivere come un «lanciare il sasso e nascondere la mano». Eccolo: «Dicendo ciò [cioè negando «che il Partito comunista italiano come tale, e cioè in quanto partito, organizzazione politica», professi «esplicitamente l’ideologia marxista, come filosofia materialistica ateistica »], non intendo tuttavia affermare che l’elaborazione politica del nostro partito […] sia venuta e venga tuttora formandosi in modo meramente empirico, “praticistico”, senza alcun collegamento a principi, senza un’analisi scientifica della società e dello sviluppo storico, priva di un suo respiro ideale.
«In realtà – confessa l’on. Berlinguer -, quell’analisi e quell’elaborazione, nonché la condotta politica effettiva che si è intrecciata con esse, con quei tratti che contrassegnano la vita e la lotta dei comunisti italiani, non si sarebbero potute compiere al di fuori di quella grande, vivente lezione (che non è e non può essere un “credo ideologico”) trasmessa loro dai maestri del pensiero politico rivoluzionario, dai fondatori del movimento comunista, le scoperte e le invenzioni dei quali costituiscono un patrimonio decisivo a cui hanno attinto e attingono non solo il nostro partito, ma il movimento operaio e rivoluzionario di tutto il mondo, e da cui hanno preso vita molteplici […] esperienze di costruzione di società anticapitalistiche avviate sulla strada del socialismo. Senza tale patrimonio, infatti, senza l’analisi marxista – senza un marxismo, cioè, inteso e utilizzato criticamente come insegnamento, non accettato e letto dogmaticamente come un testo immutabile – sarebbero del tutto inspiegabili non solo le attuali posizioni del Pci, ma anche la stessa crescita della sua forza organizzata e dei suoi consensi elettorali» (7).
L’equilibrio parrebbe ristabilito, la verità dei fatti faticosamente ricomposta, sia pure con artifici di cui vedremo di misurare la portata: il PCI non è «praticistico», ma ha «un suo respiro ideale», costituito dalla «vivente lezione […] trasmessa […] dai maestri del pensiero politico rivoluzionario, dai fondatori del movimento comunista»; anzi, tale «patrimonio decisivo» spiega il successo del Partito Comunista stesso.
Dunque, l’on. Berlinguer dice: Signor Vescovo, noi non siamo esplicitamente marxisti-leninisti, ma operiamo ispirandoci al marxismo-leninismo, che è la ragione del nostro successo.
2. LA PRETESA «RINUNCIA» COMUNISTA ALL’ATEISMO DI STATO
L’intesa compromissoria, secondo i comunisti, è possibile, perché il PCI avrebbe rinunciato a «professare», esplicitamente, l’ateismo di Stato, bastandogli che «grandi masse di credenti, cristiani, cattolici» cooperino con il PCI – mediante «la stima, il consenso, la partecipazione convinta» – per la costruzione pratica di uno Stato socialista, cioè tematicamente «laico» e ateo.
Il discorso parrebbe in radice risibile, e in pratica esorcizzabile – sia pure dopo averne con fatica dipanate le evoluzioni «dialettiche» -, se la menzogna non giungesse, a questo punto, a sposarsi a una tale ostentata ingenuità da configurare un quadro di una sfrontatezza e di un cinismo decisamente sconcertanti.
A questo punto, infatti, l’on. Berlinguer dice la «grande bugia», la menzogna evidente: «Ora – si chiede retoricamente -, da questo grande patrimonio di orientamento ideale e culturale discende forse la concezione di un partito politico che professi una filosofia, e in particolare una metafisica materialistica e una dottrina atea, e che si proponga di imporre, o anche solo di privilegiare, nell’attività politica e nello Stato, una particolare ideologia e l’ateismo? Ancora una volta rispondo decisamente di no» (8).
A confondere il falso non mi pare assolutamente necessario scomodare nessun esperto, per quanto autorevole, ma semplicemente procedere nella lettura delle asserzioni immediatamente seguenti quelle riferite, che dovrebbero provarle e costituiscono piuttosto conferma dei proverbi secondo cui «le bugie hanno le gambe corte» e «il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi».
L’on. Berlinguer, infatti, non si perita di esibire subito la «prova» di quanto ha drasticamente affermato. E la prova non consiste in dotti riferimenti a neo-marxismi – a chi sostenesse, per esempio, il carattere non postulatorio dell’ateismo marxista, o a chi tentasse di provare la natura di interpolazione di tante inequivocabili proposizioni leniniane -; niente di tutto questo: il segretario generale comunista, subito dopo l’ultimo brano citato, dichiara testualmente che «la prova, del resto, sta nei risultati ultimi a cui ci ha portato, sul terreno politico e programmatico, quel nostro convincimento, che discende anch’esso dalla dottrina, cui ci ispiriamo, per il quale l’effettivo processo storico e sociale è senza dubbio influenzato dalle idee (e anche dalle ideologie), ma in cui idee e ideologie sono condizionate dai movimenti reali fino a modificarsi di fatto e ad assumere, secondo un organico sviluppo, nuove accezioni e nuove forme. La prova, cioè – insiste l’on. Berlinguer -, sta nelle adesioni che ricevono le nostre iniziative e i nostri atti concreti di politica interna e internazionale, nella stima che circonda il Pci qui e all’estero e in mezzo a tutti gli strati del nostro popolo: del che anche Lei,- signor Vescovo, pur con qualche riserva, ha voluto darci atto. Ebbene, come sarebbero stati possibili tali risultati, se il partito comunista non avesse perseguito e ricevuto il consenso, la partecipazione convinta anche di grandi masse di cittadini che atei non sono, ma sono credenti, cristiani, cattolici?» (9).
Sembra di sognare – certo un brutto sogno -, ma è proprio così: Signor Vescovo, la ragione profonda del nostro successo è la pratica del marxismo-leninismo, e il marxismo-leninismo non ha bisogno di professare l’ateismo. Infatti, praticando la dottrina che sostiene che il processo storico è determinato dai rapporti di produzione, passiamo di trionfo in trionfo nella costruzione pratica di uno Stato che si ispira al marxismo-leninismo, cioè di uno Stato ateo; ma in quest’opera siamo stimati da moltissimi, anche da un vescovo come Lei. Ora, come èpossibile essere stimati, sia pure con qualche riserva, da un vescovo, ed essere sostenuti dal suffragio di tanti credenti, ed essere atei? La vostra stima e il consenso di tanti cattolici provano che la dottrina a cui ci ispiriamo non è atea.
Ripeto: pare di sognare, ma l’argomentazione è questa, con il valore assolutamente nullo che è naturale attribuire a essa, e con una importanza tutt’altro che trascurabile, come «spia» della onestà intellettuale di chi cerca di accreditarla.
3. I COMUNISTI E GLI ISTITUTI EDUCATIVI E ASSISTENZIALI
Pluralismo «nelle» istituzioni e non pluralismo «delle» istituzioni: è la proposta comunista di una azione comune per la distruzione di corpi intermedi tematicamente cattolici.
Fatto il giro di boa di questo passaggio decisivo – o che almeno tale intende essere -, il segretario generale comunista si appresta ad affrontare il secondo tema, quello concreto, quello relativo agli istituti assistenziali ed educativi privati, cattolici e no.
A. LA PRETESA «SANA LAICITÀ» COMUNISTA
L’intesa compromissoria, secondo i comunisti, è possibile, purché i cattolici facciano proprio il democratismo laicista e anticristiano, frutto anche della tradizione liberale, e lo sviluppino verso il coerente e totalitario democratismo socialista.
Premette che lo Stato italiano, «quello che noi comunisti in misura così grande abbiamo contribuito a edificare con la Resistenza e la Costituzione, è uno Stato democratico […] sorto come conseguenza del pieno ingresso nella vita politica nazionale delle masse proletarie, contadine e popolari di orientamento comunista, socialista e cattolico; […] sorto dall’incontro e dalla partecipazione solidale di queste masse e dei loro partiti […], raccogliendo anche il miglior frutto della tradizione cavourriana e liberale […]. Per sussistere e svilupparsi in armonia con tale sua impronta sociale, politica e ideale questo nostro Stato italiano non può essere che laico, ossia non ideologico: solo così, solo in una pienezza di laicità, esso può esprimere veramente, in tutta la sua pregnanza, la propria originaria natura democratica.
«[…] il nostro Stato democratico dissolverebbe se stesso, si decomporrebbe, e lascerebbe decomporre e dissolvere la società, se non intervenisse con la maggior ampiezza possibile sul terreno dei servizi pubblici, sociali, civili, per soddisfare esigenze primarie del popolo.
«[…] Il nostro Stato democratico e pluralistico, soprattutto attraverso le sue autonome articolazioni locali, non può non assumere in proprio – ma per amministrarli democraticamente – fondamentali servizi civili e sociali per il bene della comunità nazionale. E democraticamente vuol dire che, anche all’interno delle strutture scolastiche, assistenziali e sanitarie cui i poteri pubblici danno vita, debbono poter entrare ed operare, a titolo pieno, con il loro patrimonio ideale e culturale, le diverse energie di tutti coloro che vogliano e siano capaci di soddisfare esigenze delle famiglie e dei cittadini. E qui si apre un largo spazio alla partecipazione degli appartenenti agli ordini e alle istituzioni religiose, alla iniziativa degli enti e della autorità ecclesiastiche, sol che si sforzino di comprendere la democrazia con le sue regole, e di appropriarsene, di contribuire a svilupparla non unicamente intendendola come moltiplicazione di corpi separati e incomunicanti, bensì come crescita di realtà sempre più ricche di una loro multiforme, pluralistica vita interna» (10).
Dunque, ci dice l’on. Berlinguer che la democrazia si esprime pienamente solo attraverso la laicità, cioè la non ideologia. Ergo, lo Stato democratico, che si deve interessare di tutto e di tutti, pena il proprio dissolvimento come Stato democratico – dal momento che non è settorialmente invadente, come lo Stato liberal-borghese, ma totalitariamente invadente -, in quanto democratico, se ne deve interessare laicamente, impedendo che nascano e – ove siano nate – vivano istituzioni ideologiche, corpi sociali separati, ma spingendo invece alla collaborazione in corpi sociali unitari persone che tale collaborazione offrano o prestino, eventualmente per eterogenee motivazioni ideologiche, ma senza intaccare la laicità della struttura, pena il mettere in forse e a repentaglio la sua democraticità, che si esprime precisamente attraverso questa laicità assoluta.
B. LA BEFFA DEL «COMPENSO» OFFERTO AI CATTOLICI
Se i cattolici accetteranno di cooperare alla propria distruzione, i comunisti concederanno loro di «partecipare» alle istituzioni dello Stato laicista e di darsi a «nuove» fantastiche missioni.
Prima di venire a conclusione, il segretario generale comunista unisce al danno evidente anche una sottile beffa. Alle sue precedenti affermazioni – la cui applicazione rinchiude i cristiani a testimoniare negli istituti promossi dai pubblici poteri -, aggiunge infatti: «Non ho tuttavia difficoltà a riconoscere che, anche quando lo Stato riuscirà ad assicurare un livello quantitativo e qualitativo sempre più elevato dei servizi sociali, dovrà essere, garantito il libero apporto delle organizzazioni cristiane e delle istituzioni ecclesiastiche nei campi di attività rivolte a soddisfare nuove esigenze per la costruzione di una società democratica, libera, più giusta, nuova» (11).
Non posso fare a meno di pensare che la sovrabbondante aggettivazione che chiude il periodo sia sgorgata assieme a una risata sarcastica. Dunque, dopo che gli istituti educativi e assistenziali cattolici saranno stati fagocitati dallo Stato democratico, e quindi laico, i cattolici sono «liberi» di lanciarsi in «nuove» avventure, di fare fronte a «nuove esigenze»: è una concessione al velleitarismo e alla «fantasia» delle «comunità di base», oppure l’ufologia è indicata come terreno aperto alla missione? Sotto l’egida comunista, è cominciata l’era della «fantassistenza»!
«Noi comunisti – conclude l’on. Berlinguer – vogliamo una società organizzata in maniera tale da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società “cristiana” o uno Stato “cristiano”: e non già perché siamo anticristiani, ma solo perché sarebbero anch’essi una società e uno Stato “ideologici”, integralisti» (12).
Come si può notare facilmente, siamo al «perché non possiamo non dirci cristiani» di crociana memoria, che però, organizzato gramscianamente, si fa aggressivo, perché continuiamo a «dirci cristiani», ma non li possiamo diventare! Anzi, non solo siamo autorizzati a «dirci cristiani», ma, nella prospettiva del compromesso storico, siamo forse costretti a «dirci cristiani», per salvare il pluralismo nelle istituzioni promosse dai poteri pubblici: purché non li possiamo realmente diventare, chiedendo il pluralismo delle istituzioni nate dalla società, nella prospettiva apostolica della omogeneità ideologica, sperando, cioè, di convertire tutti al cattolicesimo.
Al termine della lunga lettera l’on. Berlinguer sentenzia: «Sappiamo che tutto non può avvenire dall’oggi al domani, che questo processo di passaggio e di trasformazione (che è oggettivo nel quadro di uno sviluppo democratico) non può avvenire in modi drastici ed in tempi affrettati perché ciò porterebbe a conflitti che vanno evitati»; e richiama la perentoria dichiarazione di Togliatti: «Non vogliamo fa rissa tra cattolici e comunisti» (13).
Note:
(1) ENRICO BERLINGUER, doc. it.
(2) Statuto del Partito comunista italiano, in C. E. TRAVERSO, V. ITALIA e M. BASSANI, I partiti politici. Leggi e statuti, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano-Varese 1966, p. 146. Tale statuto ha subìto periodiche modifiche in occasione dei congressi del partito, ma le parti citate sono rimaste a tutt’oggi inalterate.
(3) Ibid., p. 147.
(4) Ibidem.
(5) Ibid., p. 151.
(6) Ibid., p. 145.
(7) ENRICO BERLINGUER, doc. cit.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Ibidem.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem. La sentenza togliattiana è ricavata dal famoso discorso di Bergamo del 1963.