È stata ripubblicata a distanza di quarantacinque anni dalla sua prima edizione italiana l’opera dello storico Robert Conquest (1917-2015) e di altri studiosi statunitensi, Il costo umano del comunismo. Russia, Cina, Vietnam, edita da D’Ettoris (Crotone 2017, pp. 240, euro 19,90). Abbiamo intervistato al riguardo il dottor Oscar Sanguinetti, di Alleanza Cattolica e direttore dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale di Milano, che ha tradotto, curato e introdotto la nuova edizione.
D. A distanza di cento anni dalla rivoluzione bolscevica e dopo il crollo di buona parte dei regimi socialcomunisti, taluni ridimensionano o tentano di giustificare i crimini comunisti.
R. Che il comunismo internazionale, nel suo itinerario verso la conquista del mondo, abbia prodotto una quantità inverosimile di massacri, di guerre civili e convenzionali, di violenze e d’ingiustizie di ogni tipo, è un dato di fatto che ai nostri giorni ben pochi — solo se ancora accecati dall’ideologia — mettono in discussione. Si discute eventualmente sulle fasi, sulle responsabilità particolari e sulla gravità dei diversi episodi, ma nessuno oggi può ignorare lo stretto legame fra comunismo — almeno quando è al potere — e crimini contro l’uomo e la donna.
La stantia tesi giustificazionista dei crimini comunisti secondo cui essi sarebbero stati compiuti necessariamente al fine di eliminare ogni resistenza all’avanzata ineluttabile modulata dalla dialettica storica verso la dittatura del proletariato, quindi verso la meta della giustizia sociale totale, oggi che dal comunismo sono caduti molti veli non tiene più.
La storia del Novecento, specialmente ora che molte censure preventive sono cadute e nuovi documenti si sono resi disponibili, mette in luce in modo sempre più drammaticamente lampante come, ovunque vi sia stato un movimento comunista, dalla Spagna al Nepal, esso sia stato causa di devastanti conflitti civili, ciascuno dei quali ha comportato un numero indescrivibile di lutti e di danni. Il comunismo novecentesco ha prodotto — e produce — vittime in due momenti: quando cerca di conquistare il potere in uno Stato — con il terrorismo, l’insurrezione, la guerra civile e convenzionale — ma, soprattutto, quando lo ha conquistato e la minoranza rivoluzionaria comunista inizia a tradurre in realtà il suo progetto utopistico e anti-naturale di società aggredendo in maniera terroristica il corpo sociale.
Oggi quando si scrive «terrorismo» si pensa subito e solo alle bombe, ai kalashnikov e ai coltelli che purtroppo affollano le cronache televisive; in ogni modo a gesti efferati di pochi che lo Stato di diritto combatte. Nel caso del totalitarismo comunista, invece, del terrore — e George Robert Acworth Conquest lo mette bene in luce — è artefice lo Stato.
Aleksandr Solženicyn (1918-2008) nei primi anni 1970 — quindi relativamente a poca distanza dal rapporto Conquest — avvalora le stime del professore di statistica russo, emigrato in Germania nel 1943 e poi negli Stati Uniti nel 1950, Ivan Alekseevič Kurganov (1895-1980), secondo il quale le vittime del comunismo sovietico ammontavano a quel tempo a 66,7 milioni, più circa altri 55 milioni di mancate nascite (deficit demografico) causate dalla morte dei precedenti.
Con la lodevole eccezione del Libro nero del comunismo — che è comunque una iniziativa di privati, cui manca ogni investitura pubblica e persino il «bollino blu» accademico —, uscito in Francia nel 1997, e degli sforzi di studiosi indipendenti come Vladimir Konstantinovič Bukovskij — che ha pubblicato in Occidente migliaia di documenti di capitale importanza trafugati dagli archivi del KGB, i servizi segreti sovietici, durante gli anni della presidenza di Boris Nikolaevič Eltsin (1931-2007) — o come Vasilij Nikitič Mitrokhin (1922-2004) — che ha passato ai britannici migliaia di documenti sulle attività di destabilizzazione svolte all’estero dai servizi segreti sovietici —, ben pochi sono andati a cercare la documentazione più compromettente delle malefatte degli apparati repressivi, segreti e pubblici, dell’immenso impero sovietico. Eppure la burocrazia sovietica teneva minuziosa traccia di ciascuno dei crimini che le forze repressive commettevano, redigendo per ogni arrestato, fucilato, inviato nelle prigioni e nei campi, un dossier più o meno nutrito.
D. In quale contesto storico-politico nasce il rapporto?
R. Il costo umano del comunismo è la traduzione italiana di tre documenti statunitensi: il primo, sul comunismo sovietico, preparato nel 1970 per il Senato statunitense dallo storico Robert Conquest, grande studioso della Rivoluzione comunista; il secondo, sul comunismo in Cina, redatto nel 1971 dallo studioso e ambasciatore americano in Corea del Sud Richard Louis «Dixie» Walker (1922-2003), allora Direttore dell’Institute of International Studies dell’Università della South Carolina; e il terzo, sul comunismo in Vietnam, coordinato nel 1972 da James Oliver Eastland (1904-1986), senatore democratico del Mississippi. I tre testi sono stati per lungo tempo l’unico serio tentativo di contare le vittime del comunismo internazionale, almeno nei principali teatri geopolitici in cui nei primi anni 1970 dominava o stava drammaticamente per instaurarsi.
Non si trattava di una operazione a sfondo neutro o di un mero esercizio computistico accademico bensì, agli inizi della presidenza repubblicana di Richard Milhous Nixon (1913-1994), di superare l’irenismo kennediano e di mettere in campo un argomento «forte» nella «battaglia delle idee» che allora, in anni non solo di apogeo della potenza militare sovietica ma anche di forte revival marxista-leninista negli ambienti intellettuali dell’Occidente, tornava a essere particolarmente accesa.
I tre rapporti promossi dal Senato americano rappresentano palesemente uno strumento al servizio della guerra psicologica, segnata già allora dal tremendo gap esistente fra l’enorme macchina propagandistica comunista e l’esile voce dell’apparato culturale anti-comunista, che affiorerà nitido durante la guerra in Vietnam, persa dagli Stati Uniti e dai loro alleati nelle piazze e sui media, piuttosto che sul campo.
D. Tutti e tre i rapporti parlano di «costo umano» del comunismo. In che senso si deve intendere questa espressione?
R. Il comunismo nasce e cresce storicamente nella prima metà del Novecento, ossia in un crogiolo infinito di guerre, di rivoluzioni, di carestie, di drammi sociali, che comportano nel loro complesso un numero astronomico di vittime. In realtà, però, quando parlano di vittime, i rapporti non intendono i caduti nelle guerre di cui sono protagonisti Paesi a regime comunista, né le vittime militari e civili delle guerre intestine di cui alla fine la fazione comunista risulta vincitrice e nemmeno chi è morto a causa di situazioni di povertà o di maggiore morbilità frutto del disordine sociale causato dalle guerre e dalle rivoluzioni. I rapporti considerano invece, correttamente, i morti — cui andrebbero aggiunti i feriti, nel corpo e nello spirito, e i danni morali e materiali subiti dalle comunità aggredite — frutto dell’aggressione diretta o indiretta che le classi dirigenti comuniste scatenano nei confronti delle rispettive società per attuare i propri disegni d’ingegneria sociale e per «ripulirle» dai nemici e dagli oppositori — individui o intere classi di persone —, consapevoli o meno, applicando in pieno la logica della lotta di classe. Il «costo umano» del comunismo comprende quindi tutti coloro che i comunisti uccidono, direttamente o privandoli della libertà e ponendoli in contesti di impossibile sopravvivenza, in quanto li considerano nemici politici, ossia nemici di classe, oppositori politici, membri del clero, credenti, nazionalità «refrattarie», reazionari «irrecuperabili» o, anche, «compagni caduti in disgrazia».
Fucilati con o senza processo; torturati a morte nelle celle della polizia segreta; condannati alla deportazione nell’«arcipelago GULag», a costruire a mani nude canali a cinquanta gradi sotto zero o imprigionati nelle centinaia di micidiali Laogai cinesi, molti dei quali ancora attivi; privati del senno nelle cliniche psichiatriche; massacrati e sepolti nelle foibe e nelle fosse comuni come quelle di Katyń; imprigionati fino a morire di stenti; fatti perire di fame attraverso carestie create artificialmente, come i kulaki, i contadini benestanti ucraini — nella strage, per alcuni genocidio, nota come Holodomor: tutti costoro, vittime della terrificante macchina di morte allestita sulla Terra dai regimi marxisti-leninisti, entrano nel computo del «costo umano» del comunismo.
L’altissimo valore che esso assume stando ai rapporti del 1970-1972 non è il risultato di difficoltà contingenti del progresso del movimento rivoluzionario o frutto della crudeltà di singoli personaggi come Iosif Vissarionovič Džugašvili detto «Stalin» (1878-1953) o Pol Pot (1925-1998). Ovunque il comunismo ha conquistato il potere su uno Stato immediatamente ha iniziato a «macinare» vite umane. Il comunismo, applicazione della dottrina della lotta di classe mondiale propugnata da Karl Heinrich Marx (1818-1883) e da Friedrich Engels (1820-1895) e scatenata da Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924), da Stalin, da Mao Zedong (1893-1976) e da Hồ Chí Minh (1890-1969), è criminogeno per natura, ha come esito strutturale e fatale il «classicidio» e come cause primarie l’ateismo militante e il totalitarismo politico-sociale.
D. Il bilancio del costo umano del comunismo tracciato dai tre rapporti è però una valutazione solo parziale e necessariamente «in progress» della tragedia comunista.
R. In primis per ragioni cronologiche. Il saggio sull’URSS di Conquest — in buona parte un «taglia e cuci» del suo Il grande terrore (1) — si ferma alla fine dell’epoca di Stalin e non registra le vittime dei crimini perpetrati in URSS durante il periodo bellico e post-bellico, come, per esempio, lo sterminio dei russi e delle altre nazionalità che avevano collaborato con i tedeschi, in certi casi «restituiti» a Stalin, insieme ad antichi emigrati, dagli stessi Alleati; e come l’epurazione dei reduci rimasti esposti all’influenza nociva nei Paesi capitalisti occupati.
E, ancora, mancano all’appello le vittime della repressione delle rivolte anti-comuniste nei Paesi occupati dall’Armata Rossa nel 1944-1945, che in taluni casi si protrarranno fino agli anni 1960. E quelle della «cintura esterna» dell’impero: Berlino nel 1953; Varsavia e Budapest nel 1956; Praga nel 1968 e, se vogliamo, l’Afghanistan sovietizzato degli anni 1980. Penso soprattutto alle migliaia di vittime della repressione ungherese, ai caduti nei combattimenti e agli uccisi dalle centinaia di carri armati del Patto di Varsavia affluiti nelle vie della capitale, ma anche alle migliaia di processati e fucilati dalle corti marziali nei mesi e negli anni successivi al novembre 1956.
I rapporti su Cina e Vietnam, invece, fanno stato delle vittime del comunismo ai primi anni 1970, nel primo caso a vent’anni circa dalla conquista comunista del potere, nel secondo quando il Vietnam del Nord era comunista da circa tre lustri. E in entrambi i casi, con l’aggiunta del Vietnam del Sud, la macchina repressiva continuerà per decenni a macinare vittime.
Oltre al limite cronologico, vi è poi quello geografico.
Un computo globale del costo umano del comunismo avrebbe dovuto prendere in considerazione gli altri Paesi già a quel tempo sottoposti a regimi comunisti, per esempio Cuba e la Corea del Nord, nonché i Paesi dell’Europa orientale: Albania, Jugoslavia, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Bulgaria, Germania dell’Est, in cui i partiti comunisti, ascesi al potere, con poche varianti, nei primi anni del secondo dopoguerra, mietevano vittime su vittime nella loro «pulizia di classe» e nella loro lotta anti-religiosa.
Infine, un ultimo importante e inevitabile limite sta nel fatto che i dati pubblicati si riferiscono a Paesi dove era proibito l’accesso a organismi di indagine stranieri e dove in generale tutti i dati ufficiali erano ampiamente censurati e manipolati a seconda delle esigenze del regime, specialmente, come si può immaginare, quando si trattava di dati relativi alle vittime di politiche repressive o di carestie o di lavoro forzato e incarceramenti.
Quelli che abbiamo davanti, in conclusione, sono dati imprecisi e in buona misura congetturali, ma non per questo da scartare. Forse Conquest e i suoi colleghi possono aver evidenziato qualche insufficienza di tipo scientifico-metodologico, ma va detto che l’oggetto di cui si sono occupati non era dei più facili.
D. Davanti a questa tragica realtà qualcuno potrebbe obiettare che non è più così: i Paesi a regime comunista non uccidono più; oggi, chi più chi meno, sono cambiati e l’ideologia comunista si è «defilata»; quei Paesi si sono «aperti» all’Occidente e al benessere e il comunismo «convertito» al capitalismo non fa più paura.
R. Pur non negando significativi addolcimenti del regime in Cina, nel Vietnam unificato, a Cuba e in altri Stati nel periodo successivo alla data dei tre rapporti, si può rispondere che l’addolcimento è stato graduale e ha conosciuto momenti di «alta» e di «bassa», e che nei secondi il «tasso criminogeno» del comunismo è stato indubbiamente tutt’altro che basso. Senza dimenticare che nell’operazione di dissoluzione delle classi «reazionarie» il «grosso» del lavoro era già stato svolto con successo; dunque restava ben poco da livellare e bastava solo ostacolare il fatale riprodursi delle disuguaglianze e delle gerarchie naturali.
Se il sistema totalitario sovietico è imploso — o, comunque, ha mutato «pelle» — e, dunque, ci si trova di fronte a un nuovo regime, forse autoritario, ma per molti aspetti simile alle liberal-democrazie occidentali, nella Repubblica Popolare Cinese il partito controlla ancora totalmente la vita sociale di un 1,4 miliardi di uomini e di donne, sui quali gli esperimenti di ingegneria sociale, con i loro inevitabili «scarti di produzione», sono tutt’altro che terminati.
Ed è un fatto che ancora oggi in Cina i campi di lavoro forzato, i Laogai, sono migliaia — 1.422 al 2008 — e si calcola che la popolazione in essi imprigionata assommi a circa 10 milioni di persone; i vescovi non-collaborazionisti scompaiono e riappaiono — magari dopo una o più decine di anni di lavoro forzato — a piacimento del regime; la politica demografica uccide non-nati e neo-nati a decine di migliaia; i credenti sono perseguitati e le etnie — 56 in totale — diverse da quella maggioritaria, la han, specialmente quella uigura, sono represse e discriminate.
Tutto ciò non può non avere, almeno indirettamente, un alto «costo umano». Il comunismo oggi non uccide più gli oppositori con il classico colpo di revolver alla nuca, ma non smette di produrre vittime: di certo non più con i ritmi degli anni 1920-1970, di cui fanno stato le decine di milioni di morti rilevati da Conquest e dai colleghi, ma l’essenza criminogena e illiberale dei regimi comunisti, dove il potere del partito non è controllato da alcuna istituzione superiore; dove le informazioni interne filtrano all’estero solo in maniera controllata e «distillata»; dove un cittadino può sparire senza che nessuno se ne accorga o se ne giustifichi la sparizione, continua a esistere e a «produrre» «costo umano».
Infine, si obietta che i dati del rapporto Conquest e colleghi siano superati. Ed è vero: oggi, dopo la rimozione del Muro, la fine dell’URSS e momenti di maggiore apertura del regime succeduto al comunismo in Russia — anche se per il Vietnam, la Cina e Cuba, tuttora comuniste permangono forti difficoltà ad elaborare calcoli precisi —, i dati che è possibile mettere insieme sono molti di più e decisamente più affidabili. Ma quello che è assolutamente certo è che i calcoli recenti ampliano di molto, non riducono, i risultati del rapporto americano degli anni 1970.
D. Quali effetti ha avuto il rapporto sulla situazione politica di allora?
R. Il peso è stato vicino allo zero. Negli Stati Uniti d’America il lavoro di Conquest e compagni avrà diffusione in ambienti intellettuali e mediatici abbondantemente controllati dai liberal e in piena e forsennata campagna delle sinistre di ogni tinta per la sconfitta americana in Vietnam del Sud, dunque sarà degnato solo di un’attenzione fuggevole e sarà destinato all’oblio.
Non ho idea di quanto sia accaduto nei Paesi occidentali dopo la pubblicazione dei rapporti, ma non risultano a oggi edizioni in francese, in spagnolo o in tedesco. Pare quindi che la traduzione italiana, pur menomata, sia stata un unicum. Però anche da noi, nonostante il vantaggio della traduzione, il rapporto non avrà sorte migliore: qualche eco vi sarà nei minoritari — e allora ridotti alla semi-clandestinità dalla pressione socialcomunista — ambienti culturali e politici della destra nazionale — promotori dell’edizione —, ma anche lì sarà accolto come un déjà-vu o, comunque, con scarsa convinzione di farne uso adeguato.
Eppure, forse sull’onda del successo elettorale anti-comunista del 1972 — sicuramente prodotto della reazione ai progressi dissolutori conseguiti dai movimenti rivoluzionari a partire dal 1969 —, il rapporto americano poté uscire nella collana di volumi che il settimanale «laico» di destra liberal-nazionale il Borghese — fondato da Leopoldo «Leo» Longanesi (1905-1957) e allora diretto da Gianna Preda (pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi; 1921-1981) e dal sen. Mario Tedeschi (1924-1993), esponenti di una destra quanto meno di dubbia purezza dottrinale, ma dal forte e appuntito impegno anti-comunista — meritoriamente affiancava alla rivista.
Possiamo chiederci tuttavia: perché solo in Italia? Per capirlo, è probabilmente sufficiente scorrere l’elenco degli autori e dei titoli della collana, alcuni, è doveroso dirlo, tutt’altro che di scarso valore. Ci si accorge così che alle spalle dell’iniziativa editoriale de il Borghese doveva esserci almeno qualche «aiutino» da parte degli ambienti diplomatici — per non dire di più — «atlantici».
Nel medesimo ambiente fiorivano anche altre piccole iniziative editoriali anti-comuniste. Per esempio, vi trovava diffusione, a partire dal 1967 e fino al 1975, il mensile Documenti sul comunismo, edizione italiana, curata dal vaticanista Emilio Cavaterra (1925-2014), del bimestrale francese Est&Ouest — promosso da Georges Albertini (1911-1983) e da Boris Souvarine (1895-1984), come B.E.I.P.I. (1949-1955) — che, fra il 1956 e il 1991 sarà una delle poche fonti d’informazione sul comunismo al di là del «sipario di ferro». La rivista, pubblicata a Parigi dall’Association d’Études et d’Informations Politiques Internationales, raccoglieva la voce di ambienti di esuli dell’emigrazione e del samizdat, l’auto-editoria clandestina diffusa dagli ambienti dell’opposizione dei Paesi dell’Est, nonché notizie e «suggerimenti» di qualche agenzia d’informazioni governativa.
Concludendo sul punto, che si sia trattato di un episodio, di una mossa reattiva in un contesto decisamente assai sfavorevole per la destra politica italiana, lo prova anche il fatto che dal 1973 a oggi Il costo umano del comunismo non è stato mai più riedito. L’ambiente che lo promosse a suo tempo, sia per ragioni storico-politiche, sia per ragioni anagrafiche, non c’è più, così come la destra in cui si inseriva si è diluita nel centro-destra degli anni berlusconiani, ha goduto di briciole di potere ma si è poi pressoché dissolta. Inoltre, la Guerra Fredda è finita e con essa le «strutture d’interesse» americane nel nostro Paese.
D. Che senso ha riproporre oggi, a oltre quarant’anni di distanza e dopo i mutamenti subiti dall’orbe comunista, questa opera?
R. Riparlarne serve per prima cosa a ricordare che il comunismo e la morte sono stati stretti sodali per decenni e non hanno ancora «divorziato» e, visto che il comunismo domina su quasi un miliardo e mezzo di nostri contemporanei, aiuta il nostro prossimo a tenerlo a mente.
Poi, vale anche a dare un segnale: in Italia l’anti-comunismo non è morto. Non solo gli anti-comunisti ci sono ancora, ma ricordano tutto per filo e per segno.
Ricordano le montagne di cadaveri prodotte dall’«esperimento comunista» sulla pelle dei popoli, delle famiglie, delle nazioni, delle chiese, di miliardi di uomini e di donne, ricchi e, più spesso, povera gente. Rievocare e commemorare quei milioni di morti senza nome — anche se molti nomi sarebbe possibile fare e qualcuno ne è stato fatto — per i quali nessuno, né grande, né piccolo, dei loro carnefici materiali o morali ha mai pagato in alcuna forma. Morti che oggi ricevono qualche forma di onoranza in monumenti e musei solo nei Paesi europei usciti dal socialismo reale all’inizio degli anni 1990, ma che a livello globale vantano solo un dimesso — ancorché del tutto meritorio — memorial, eretto dalla Victims of Communism Memorial Foundation, cioè da privati, collocato in una aiuola all’incrocio fra la Massachusetts Avenue e la New Jersey Avenue della capitale federale americana, inaugurato da George Walker Bush nel 2007.
Né dimenticano quelle centinaia di migliaia di cristiani anonimi, cattolici e ortodossi, protestanti e di altra confessione — ma anche islamici, Testimoni di Geova e buddisti —, uccisi per la loro fede, che costituirono lo zoccolo duro della resistenza al comunismo per decenni, in Europa e nel mondo, e che solo dal pontificato del polacco san Giovanni Paolo II (1978-2005) hanno cominciato a essere metaforicamente riesumati e beatificati.
Gli anti-comunisti di oggi non credono affatto che il comunismo «sia finito», ma ritengono che continui sotto altre spoglie. E che, anzi, proprio grazie alla metamorfosi che ha attuato, almeno da noi, abbia ripreso quota e sia riuscito ad arrivare dove ancora non era arrivato, cioè nella «stanza dei bottoni», con il vecchio volto, sebbene addolcito dal fascino intellettuale del gramscismo e dal pauperismo della «austerità» berlingueriana, autentica parodia evangelica.
Ovviamente si dirà che non ha più senso dire che forze politiche come il Partito Democratico odierno siano forze comuniste o post-comuniste. Ed è vero, se si guarda alla sua composizione e ai sempre più incolori programmi. Ma ciò che è decisivo per riconoscere in forze politiche come quella evocata la «vecchia talpa» sempre al lavoro, sono i fini e, in parte, i metodi.
Oggi i comunisti occidentali non indossano più i colbacchi rosso-stellati della CEKA, né portano al collo i fazzoletti rossi dei partigiani omicidi del «Triangolo Rosso» post-bellico: oggi non vogliono più imporre la dittatura del proletariato — anche perché il proletariato non c’è più… —, né vogliono la collettivizzazione integrale dell’esistenza, troppo povera e squallida, ma seguitano a coltivare il medesimo odio filosofico — «pensato» non più con le categorie della dialettica materialistica, ma con quelle del nichilismo post-moderno — per tutto ciò che vi è di stabile, di naturale e di sacrale nell’esistenza umana, da cui era animato il «vecchio» comunismo. E solo l’anti-comunismo «dottrinale» dei cattolici di ieri e di oggi può comprenderlo e diffidare, non certo l’anti-comunismo «democratico» che ho evocato più sopra.
Gli anti-comunisti non ignorano neppure che, se i comunisti russi e occidentali hanno cambiato «ragione sociale», i comunisti «asiatici», anch’essi cambiati esteriormente, sono ancora lì, al potere, con le loro bandiere rosse e le gigantografie di Mao, imperturbabili, senza aver fornito la minima giustificazione per i milioni di cadaveri su cui si fonda il loro potere, ancora persuasi, nonostante i fiumi di sangue versato e la miriade di sofferenze inflitte al loro popolo, che il comunismo, magari non più quello «di guerra», ma quello «liberalizzato» e «capitalistico», sia un valido progetto per lo sviluppo dei popoli del mondo e per attuare la giustizia sociale.
In conclusione, per non dimenticare che è esistita una ideologia e un movimento che hanno prodotto nella storia almeno cento milioni di morti e continuano a produrne dove sono al potere; per ricordare il dovere di condannarne la memoria e la realtà; per sottolineare l’esigenza di opporsi, oggi come un tempo, a qualunque riedizione, sotto qualsiasi forma e con qualsiasi metodica si presenti, del socialismo e del collettivismo; per opporsi a ogni realtà che incarni la medesima ispirazione gnostica e «perfettistica» del comunismo e che voglia ripercorrere in altre forme lo stesso itinerario di schiavitù e di morte, in questo centenario della Rivoluzione di Ottobre e dell’inizio del dramma, abbiamo ripubblicato Il costo umano del comunismo.
Note:
(1) Cfr. R. Conquest, Il grande terrore. Le «purghe» di Stalin negli anni Trenta, 1968, trad. it., Mondadori, Milano 1970.