Roberto De Mattei, Cristianità n. 21 (1977)
Il «prodotto» Carter
L’opinione pubblica europea – e quella italiana in particolare – si chiede in queste settimane, con legittima apprensione, chi sia realmente James Earl Carter, trentanovesimo presidente degli Stati Uniti d’America, cercando di decifrare, tra le pieghe del “personaggio”, le incognite del suo programma futuro.
Un’immagine corre nel mondo: quella dell’”uomo nuovo”, simbolo dell’”America dalle mani pulite”, che rialza la bandiera dell’onestà e del coraggio, infangata dagli scandali dell’era nixoniana. “Io – dice di se stesso il neo presidente – sono un uomo del Sud e un americano. Sono un agricoltore, un ingegnere, un padre e un marito, un cristiano, un uomo politico e un ex-governatore, un progettista, un uomo d’affari, un fisico nucleare, un ufficiale di Marina, un appassionato di canottaggio e, tra le altre cose ancora, un ammiratore delle canzoni di Bob Dylan e dalle poesie di Dylan Thomas” (1). E quasi a offrire al lettore il filo conduttore della sua vita, appone a emblematica epigrafe della sua autobiografia questo pensiero di Reinhold Niebuhr (2):
L’oneroso dovere degli uomini politici
è quello di far trionfare la giustizia
in un mondo corrotto.
Alla Realpolitik di Kissinger subentra dunque l’idealismo politico di Carter. Si tratta – precisa La Stampa, il quotidiano italiano che con più forza ha parteggiato per il candidato democratico – di un “ritorno esplicito alle radici idealistiche della politica e della democrazia americana” (3) e Carter – come scrive il direttore di Stampa sera, Ennio Caretto, presentando la sua biografia italiana – sarà certamente “il nuovo Kennedy“, “il moralizzatore e il riorganizzatore dell’America in crisi” (4).
L’unica nota dissonante nel coro levatosi dagli organi di informazione di ogni colore è singolarmente venuta dallo stesso proprietario de La Stampa e presidente della Fiat, Giovanni Agnelli. “Questo Carter lo considero un prodotto un po’ mostruoso dei mass-media americani“, ha detto infatti l’avvocato Agnelli, in un commento a caldo (5), che ha il pregio della schiettezza un po’ brutale che può permettersi chi non è solo spettatore, ma in certo senso protagonista, o sceneggiatore, della vicenda in questione. “La sua elezione – ha aggiunto – segna, a mio giudizio, la grande vittoria dei giornali liberal, come il New York Times e la Washington Post. Questo mondo intellettuale ha voluto dimostrare – e c’è riuscito – la grande forza della cultura e della libertà. Prima hanno distrutto Nixon, poi hanno inventato un candidato alla Casa Bianca ed, infine, l’hanno imposto all’opinione pubblica del paese“.
Non resta altro da fare, a questo punto, che farci illustrare “chi è Carter” proprio dai giornali che, secondo l’avvocato Agnelli, lo hanno “inventato” e quindi “imposto all’opinione pubblica del paese“.
“Fino al 1973 – racconta Laurence Stern sulla Washington Post – le credenziali di Carter in politica estera erano limitate, se si eccettuano le missioni commerciali che organizzava per vendere all’estero i prodotti della Georgia“. Tutto cominciò, quando “verso la fine del 1973, Carter fu invitata a pranzo a Londra insieme a David Rockefeller della Chase Manhattan Bank, mentre faceva una delle sue visite di propaganda commerciale. In quel periodo Rockefeller, con l’aiuto di Brzezinski, stava organizzando la Commissione Trilaterale, divenuta la prestigiosa assemblea che annovera fra i suoi membri gli uomini di affari e politici di rilievo e i cervelli della politica estera del Nord America, dell’Europa Occidentale e del Giappone“. Fu in quell’occasione che “David Rockefeller e Zbig (Zbigniew Brzezinski) ebbero la sensazione che Carter sarebbe stato la persona ideale per la Commissione Trilaterale” (6).
Anche Leslie H. Gelb, sul New York Times, citando fonti confidenziali, conferma che Brzezinski è stato il primo “a notare Carter, a prenderlo sul serio. Ha passato un’infinità di tempo con Carter, gli ha parlato, gli ha mandato libri e articoli, lo ha educato“. L’”educatore” di Carter, scrive Gelb “è anche quello che si avvicina di più al modo di Kissinger di puntare al potere. Kissinger fece i suoi primi passi nella Fondazione Fratelli Rockefeller, Brzezinski stese sistematicamente la sua rete qualche anno fa, collaborando alla fondazione della Commissione Trilaterale, un’organizzazione intesa a rendere più strette le relazioni tra l’Europa Occidentale, il Giappone e l’America del Nord. Henry ebbe come patrono Nelson Rockefeller, Zbig ha David Rockefeller, Presidente della Commissione. Insieme Zbig e David hanno selezionato persone provenienti dal nucleo della Comunità (“l’Establishment di politica estera di banchieri e avvocati di Wall Street”) per assorbirle nella Commissione. Jimmy Carter, allora semplice governatore della Georgia, con qualche remota idea di vincere le parziali del suo partito per la presidenza, fu uno degli outsider scelti” (7).
Il New York Times e la Washington Post, che con disinvoltura forse eccessiva ci hanno illustrato nella scorsa primavera i retroscena del “reclutamento” e della “educazione” del candidato da “imporre all’opinione pubblica“, hanno più discretamente taciuto dopo la sua elezione. Ma a incrinare ulteriormente l’immagine di un Carter self-made men, cavaliere senza macchia e senza paura in lotta contro i potentati economici, è intervenuto in compenso un organo di stampa altrettanto informato quale Le monde diplomatique, ricordando agli ignari che “in realtà la candidatura di Carter è stata di lunga mano preparata e sostenuta fino alla vittoria da uomini che rappresentano il più alto livello di potenza. Tra essi, i presidenti della Chase Manhattan Bank, della Banca d’America, della Coca Cola, Bendix, Caterpillar, Lehman Brothers, Sears and Roebuck, Texas Instruments, Exxon, Hewlett-Packard, C.B.S. ecc. Questi uomini, con qualche universitario, dei sindacalisti (acciaio, automobile) e soltanto dieci uomini politici, tra cui beninteso Jimmy Carter e il nuovo vice-presidente Walter Mondale, costituiscono la branca americana della Commissione Trilaterale” (8).
“Perché il produttore di noccioline di Plains sia stato ammesso in questo gruppo di pressione così esclusivo – scrive Franco Pierini su Il Giorno, in una corrispondenza da New York che mi sembra riassumere un po’ tutta la vicenda – è ancora abbastanza misterioso. Ma si sa che l’origine del rapporto passa attraverso il presidente della Coca-Cola, che ha la sede principale ad Atlanta, capitale della Georgia. Paul Austin, presidente della Coca-Cala, conosce Carter, al quale ha probabilmente finanziato la campagna di governatore, e lo presenta al gruppo Rockefeller. Il tipo di Plains piace a David Rockefeller, che lo presenta al professor Brzezinski. E qui scoppia il colpo di fulmine. I due si intendono alla perfezione. “Zbig”, come gli amici chiamano il professore, trova che Carter è il tipo perfetto per essere ricostruito e riciclato, per essere messo in orbita verso grandi destini. Dal 1972 al 1974 avviene la spettacolare operazione di indottrinamento di Jimmy Carter da parte dei migliori esperti del gruppo. Politica estera, tecnica di governo, economia vengono rapidissimamente assorbiti dall’allievo. Carter studia da presidente degli Stati Uniti. Il 12 dicembre 1974 Jimmy annuncia in famiglia che sipresenterà per la Casa Bianca. Lo guardano come se fosse un po’ matto. In quel momento nessuno crede in lui. Ma lassù a Nuova York c’è qualcuno di molto potente che ci crede. E ha avuto ragione.
“Dopotutto – continua Pierini – il gruppo Rockefeller è più o meno lo stesso che ha fatto la fortuna di Henry Kissinger, passato da professore di Harvard alla funzione di mago della politica internazionale degli Stati Uniti nell’era – appunto – kissingeriana. Brzezinski è esattamente l’omologo di Kissinger e, se tutto andrà come sembra, diverrà il segretario di Stato di Carter. Dunque ora si sa chi ha sostenuto il produttore di noccioline della Georgia. Il suo isolamento non è così totale e le sue origini non sono così dal nulla come il candore della maggior parte del pubblico ha accettato di credere. I potentati dell’East stanno saldamente dietro l’uomo che ha fatto la sua campagna elettorale combattendo contro le multinazionali, i clan di potere, le mafie di tutti i generi che inquinano la vita politica americana” (9).
Una volta appurato “come nasce Carter”, non è difficile prevederne il programma, che ha del resto già un nome: trilateralismo. Un termine, apprendiamo, nato negli Stati Uniti negli anni ‘70 con la creazione della Commissione Trilaterale, a indicare l’organizzazione delle società a capitalismo avanzato secondo le linee di un triangolo i cui punti “sono naturalmente gli Stati Uniti, l’Europa Occidentale e il Giappone” (10). Il fine, secondo l’”educatore” di Carter e l’”ideologo” della Trilaterale Zbigniew Brzezinski (11), è la creazione di una “comunità di nazioni sviluppate” (12) per arrivare, attraverso il gioco dei grandi organismi internazionali come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, a una comune pianificazione di obiettivi economici e politici, in vista del superamento della divisione del mondo in due blocchi e del grande “compromesso storico” tra “neocapitalismo della postdistensione e comunismo pluralistico” (13) che aprirà l’era della nuova pace e del nuovo ordine mondiale. Gli Stati, in questa prospettiva, non solo dovranno svolgere “un maggiore controllo dell’economia per assicurare la continua crescita della produzione e l’accumulo del capitale“, ma dovranno anche “assumersi molte delle funzioni che una volta avevano le famiglie, le Chiese, le associazioni private” (14). Bisogna avere infatti “la realistica consapevolezza che non si può tornare ad un mondo più semplice, che ci accingiamo a dover vivere in un mondo di grosse organizzazioni, di specializzazioni e di gerarchia. Inoltre deve esservi l’accettazione della esigenza dell’autorità nell’ambito delle diverse istituzioni della società” (15).
Dietro Carter dunque, la Commissione Trilaterale, il nuovo “club dei ricchi” (16), che si è affiancato a organismi già sperimentati come il Bilderberg Club e il Council on Foreign Relations (17). Dietro la Commissione Trilaterale il suo ideologo Zbigniew Brzezinski, più dietro ancora il suo creatore David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank e del Council on Foreign Relations, ed esponente di punta del Bilderberg.
“David Rockefeller non è quasi mai nominato nelle enciclopedie, nei “Chi è”, negli indici alfabetici dei libri. Questo silenzio è emblematico del tipo di potere che la famiglia ha assegnato al 61enne fratello del vice-presidente Nelson, col quale condivide una fortuna considerata la più grande del mondo: un potere dietro le quinte, immenso quanto la forza e il peso della Chase Manhattan Bank” (18). Un “potere dietro le quinte” – ben conosciuto da chi cerca di dipanare il filo rosso dei rapporti tra la setta comunista e l’élite supercapitalista – che è quasi un “marchio di fabbrica” e offre la migliore garanzia che James Earl Carter sarà l’”uomo nuovo” per un copione antico.
ROBERTO DE MATTEI
Note
(1) JIMMY CARTER, A 5 anni vendevo noccioline, trad. it., Sperling and Kupfer, Milano 1976, p. 10.
(2) Ibid., p. 6.
(3) La Stampa, 5-11-1976.
(4) In FABIO GALVANO, Jimmy Carter, un sudista contro Washington, SEI, Torino 1976, p. 9.
(5) Il Corriere della Sera, 4-11-1976.
(6) Washington Post, 8-5-1976.
(7) The New York Times Sunday Magazine, 23-5-1976.
(8) Le Monde diplomatique, novembre 1976. Nello stesso, numero Diane Johnstone scrive: “Tra gli 84 membri nordamericani troviamo trentadue capi o alti responsabili di diverse imprese, tra cui sette presidenti di banca; venti intellettuali, tra cui dieci professori, sei capi di istituti di ricerca o di insegnamento, gli editori di tre pubblicazioni, tra cui Time e Foreign Affairs e un giornalista, Carl Rowan, che sembra essere il “Token Black” (Negro simbolico) dell’organizzazione; tre alti funzionari; tre sindacalisti; quattordici uomini politici, tra cui un parlamentare canadese, dieci membri del Congresso americano e tre ex-governatori. Intellettuali, funzionari o uomini d’affari, sono generalmente uomini dell’establishment che si trovano un giorno nel consiglio di amministrazione di grandi società, il giorno dopo in alti posti del governo o anche in qualche cattedra universitaria“.
(9) Il Giorno, 4-11-1976.
(10) RICHARD H. ULLMAN, Trilateralism: “partnership” for what?, in Foreign Affairs, ottobre 1976.
(11) Cfr. Le Monde diplomatique, cit.
(12) ZBIGNIEW BRZEZINSKI, U. S. Foreign Policy: The Scarch for Focus, in Foreign Affairs, luglio 1973.
(13) Cfr. L’Europeo, 5-9-1975. Cfr. anche, tra l’altro, La lettre d’information di Pierre de Vilmarest, 22-11-1976.
(14) The Crisis of Democracy, Report on the governability of democraties to the Trilateral Commission, cit. in L’Espresso, 18-1-1976.
(15) Intervita a Samuel P. Huntington della Commissione Trilaterale, in Prospettive Americane, 1-6-1976, p. 4
(16) la Repubblica, 20-8-1976.
(17) Membro del Council on Foreign Relations e del Bilderberg Club, oltre che, ovviamente, della Commissione Trilaterale, è il nuovo segretario di Stato Cyrus Vance, “l’uomo politico più liberal che sia mai stato ai vertici dell’establishment della Difesa Americana” (Paese sera, 4-11-1976).
(18) Il Giorno, 5-12-1976.