Alfredo Mantovano, Cristianità n. 383 (2017)
1. I dati reali
Migliaia di persone che fuggono da persecuzioni e da guerre sono bloccate da mesi ai confini dell’Unione Europea (UE) e rischiano la vita nel gelo di improvvisati campi di raccolta nei Balcani o in qualche isola dell’Egeo. Contemporaneamente un terrorista di origine extra-comunitaria, benché formalmente espulso e segnalato come pericoloso, si è trovato libero di circolare fra più di uno degli Stati europei senza essere mai controllato, fino a quando non ha commesso una strage, la sera del 19 dicembre 2016, al mercatino natalizio di Berlino. Anche l’organizzatore degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 ha potuto dapprima muoversi tra la Francia e il Belgio senza essere fermato, dopo aver seminato la morte per le strade della capitale francese, e poi nascondersi per quasi cinque mesi a Bruxelles. Contemporaneamente 2,7 milioni di siriani, costretti a lasciare le loro città devastate, sono trattenuti in Turchia, qualificata «Stato terzo sicuro» in virtù di un accordo sottoscritto fra l’UE e il governo di Ankara (1). Schizofrenie e contraddizioni interessano più settori dell’UE nel suo insieme e dei singoli Stati che la compongono, ma si manifestano in modo ancora più evidente e drammatico sul terreno dell’immigrazione.
Seguire quel che accade su questo versante impone di aderire il più possibile alla realtà, cogliendone le continue variazioni, e perciò di abbandonare ogni tipo di approccio ideologico. Nel 2010 le persone sbarcate in modo irregolare sulle coste italiane sono state 4.406. Nel 2016 sono state 181.436: quaranta volte di più in appena sei anni. Coloro che arrivano via mare sono peraltro solo una parte dell’insieme dei migranti irregolari che giungono in Italia e in Europa; in anni recenti, per esempio nel 2015, la via principale d’ingresso nell’UE ha riguardato i Balcani più che il Canale di Sicilia. È necessario aggiungere che fra i migranti che oltrepassano la frontiera europea in modo irregolare è cresciuta in modo significativo l’aliquota di chi fugge da persecuzioni o da guerre e per questo non può essere trattato allo stesso modo del migrante per ragioni economiche. Perciò chi ambisce a comprendere le vicende dell’immigrazione con un minimo di adesione all’oggettività del reale deve lasciare da parte la macchina fotografica e munirsi di una videocamera. Il fenomeno non tollera di essere inquadrato sfogliando un album di immagini statiche: va seguito osservando i fotogrammi di scene che mutano di frequente, e talora in pochi mesi si manifestano differenti per quantità e qualità.
Un approccio serio deve considerare almeno quattro livelli d’interesse e, quindi, d’intervento:
a) quello della comunità internazionale. L’incremento significativo di richiedenti asilo rende obbligatoria una prima considerazione: se milioni di persone preferiscono la fuga, accompagnata da ogni tipo di rischio, alla permanenza nel luogo di origine e mettono in pericolo la propria vita, accade perché negli ultimi anni i conflitti si sono moltiplicati. Si riducono i profughi non se nei loro confronti si alzano barriere — trattandoli, come si è visto, peggio dei terroristi —, ma se si riducono le guerre. L’impegno degli organismi internazionali e delle alleanze fra gli Stati andrebbe rivolto prioritariamente in tale direzione: il riferimento è non soltanto alla cruciale area della Siria e dell’Iraq, ma anche a quel che accade in Eritrea, in Nigeria, nel Pakistan, per citare i luoghi di più consistente provenienza dei richiedenti asilo;
b) quello dell’UE, profondamente divisa al proprio interno quanto agli strumenti giuridici per affrontare la sfida: le regole stabilite dalla Convenzione di Dublino, e dalle disposizioni che l’hanno modificata, appaiono superate e causano ulteriori problemi, ma l’Unione non compie alcun passo serio per il loro adeguamento alla situazione attuale. Ed è profondamente divisa anche per le divergenti volontà dei governi dei singoli Stati, di apparente impossibile composizione;
c) quello dell’Italia, geograficamente più di altri esposta verso il Mediterraneo, certamente fra i Paesi più gravati per l’accoglienza, che alterna nella gestione dell’emergenza generosità e competenze a furbizie e incapacità;
d) quello della comunità ecclesiale, chiamata anzitutto — come altre realtà non istituzionali coinvolte dal fenomeno — a constatarne la reale attuale configurazione senza automatismi concettuali e a fornire risposte che vadano oltre la pur impegnativa accoglienza materiale e il soddisfacimento delle necessità prioritarie.
2. Il ruolo della comunità internazionale
Flussi migratori imponenti e trasferimenti forzati di milioni di persone in seguito a guerre e a persecuzioni hanno non pochi precedenti, anche relativamente recenti. È sufficiente ricordare quanto accaduto in occasione degli ultimi due conflitti mondiali: nel 1945 i profughi in Europa hanno raggiunto la cifra complessiva di circa 40 milioni di persone, in condizioni non più semplici di quelle attuali, con gran parte delle città europee ridotte in macerie e con confini ridefiniti che hanno impedito a tanti tedeschi e a tanti polacchi — per menzionare due fra i popoli più colpiti — di tornare nelle abitazioni che erano stati costretti a lasciare. Qualcosa di simile è accaduto anche dopo: si pensi all’esodo in poche ore di 250.000 persone dall’Ungheria, nel novembre 1956, per sfuggire alla repressione sovietica.
È superfluo elencare i conflitti in corso, all’origine di tanti esodi: la presenza dello Stato Islamico (IS) in Iraq e in Siria, la guerra di tutti contro tutti nel territorio di quest’ultima, il conflitto in Libia, l’occupazione di aree importanti della Nigeria da parte di Boko Haram, la pesante situazione in Eritrea, le persecuzioni etnico-religiose in Pakistan e in Afghanistan, per ricordare i più significativi.
La comunità internazionale, e in particolare gli Stati occidentali, dovrebbero avvertire l’obbligo di solidarietà nel rimuovere le cause di queste fughe, avendo peraltro su ciascuno di questi scenari o propri contingenti militari o propri interessi strategici, anche economici, oppure entrambi. Quand’anche quest’obbligo non fosse percepito come tale, dovrebbe quanto meno essere sentito il dovere di riparare il danno: gli Stati Uniti d’America (USA) e gli Stati europei che nel 2011 hanno aggredito la Libia, provocando la caduta del regime di Muʿammar Gheddafi (1942-2011) e l’avvio di un conflitto interno che da quel momento non ha trovato soluzione, con ricadute sui traffici dei migranti, avrebbero l’obbligo quanto meno di rimettere insieme i cocci di un contenitore che hanno dolosamente rotto. La scelta dell’amministrazione statunitense — sotto la presidenza del Premio Nobel per la pace Barack Hussein Obama con Hillary Clinton come segretario di Stato — di sostenere finanziariamente e con armi le milizie di al Nursa in Siria in funzione anti-Assad si è tradotta in un oggettivo incremento della destabilizzazione dell’area: al Nursa è il nome di al Qaeda in Siria, frange di essa sono poi passate fra i combattenti dello Stato Islamico. Una parte delle armi adoperate da quest’ultimo sono state fornite dall’Arabia Saudita, che a sua volta le ha ricevute e le riceve dagli USA, in virtù di accordi pluriennali, di recente rinnovati per un quinquennio. Se le responsabilità statunitensi e dell’UE sono così evidenti, dovrebbero spingere a una chiara e univoca inversione di rotta e alla definizione di una linea comune, con la costruzione di una vera alleanza contro il terrorismo e contro l’oppressione di interi popoli.
L’atteggiamento nei confronti dello Stato Islamico da parte degli USA e dell’UE è consistito all’inizio in una drammatica sottovalutazione della sua portata devastante, quindi nel rifiuto di allestire una forza militare multinazionale che lo fronteggiasse sul campo, e in un momento successivo nell’andare in ordine sparso, pur dopo l’intervento della Federazione Russa nello scenario mediorientale. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) il Medio Oriente, nel quale oggi risiede il 5 per cento della popolazione mondiale, provoca il 53 per cento dei rifugiati del mondo. Tutto ciò dipende pure dagli Stati dell’area, in particolare Arabia Saudita, Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, tanto prodighi di assistenza e di aiuti alle milizie dello Stato Islamico quanto restii ad accogliere un solo profugo al proprio interno. Dedicare attenzione all’accoglienza e alla dislocazione dei profughi è importante: è miope però ritenere che gran parte del lavoro coincida con ciò e non con l’argine da porre alle cause delle fughe e degli esodi, cioè a quei conflitti che USA ed UE e i loro alleati nelle aree di crisi hanno o favorito, o non prevenuto, e continuano a non contrastare.
È lecito domandarsi fino a che punto i responsabili degli USA e dell’UE colgano i profili qualitativi e le dimensioni di un fenomeno di così consistenti proporzioni. Nell’estate 2015 larga parte dell’Europa, delle istituzioni che la governano e dei singoli Stati è «andata in tilt» perché parte del loro territorio è stata raggiunta da 350.000 migranti lasciati uscire dalla Turchia. È iniziata quella paranoia che prosegue ancora, e che si manifesta — come ho detto — obbligando tanti potenziali profughi al gelo dei Balcani, ovvero opponendo la più dura resistenza all’attuazione del piano di distribuzione fra i 28 Stati dell’Unione Europea di coloro che hanno già ottenuto il riconoscimento di rifugiati. Se valessero ovunque i medesimi parametri, che cosa si dovrebbe dire in Giordania, in Iraq, in Egitto, nel Kurdistan iracheno, la cui somma di sfollati ospitati supera quella dell’intera UE? Che cosa si dovrebbe dire in Libano? Questo Paese-chiave dello scenario mediorientale ha una superficie pari a circa la metà della Puglia e una popolazione eguale ai residenti della Puglia: contando su poco più di 4,2 milioni di abitanti su circa 10.000 kmq di estensione, ha ricevuto in cinque anni 1,1 milioni di profughi, in prevalenza dalla Siria; in proporzione, è come se in Italia in un quinquennio fossero arrivati 15 milioni di profughi. E come dimenticare l’accoglienza data dagli abitanti di Erbil e della piana circostante ai 120.000 fuggiti in poche ore da Mosul nell’agosto del 2014? Il numero degli sfollati dalla Siria, su una popolazione che nel 2011 ammontava a circa 18 milioni di abitanti, è prossimo a 11 milioni di persone, e di esse 4 milioni hanno oltrepassato i confini siriani, per trovare rifugio non solo in Giordania, in Iraq, in Egitto, ma anche, nella quantità più consistente — circa 2,7 milioni di persone — in Turchia.
3. Il ruolo dell’Unione Europea
L’UE non segue comportamenti univoci verso gli Stati che accolgono migranti in fuga. Non esistono accordi di collaborazione e di sostegno con gli Stati oggi duramente impegnati per l’accoglienza; si pensi, oltre che al Libano, di cui ho detto, alla Giordania: 630.000 profughi per 6,2 milioni di abitanti. Esiste invece un accordo sull’immigrazione con la Turchia, nonostante quest’ultima abbia adoperato la quantità di profughi provenienti dalla Siria che si trovano nei propri confini come uno strumento di pressione nei confronti della stessa UE: il presidente Recep Tayyip Erdoğan si è mostrato tanto generoso nell’accoglierli, quando Bashar Hafiz al-Assad doveva essere messo in difficoltà, quanto minaccioso nel prospettarne l’invio verso la Grecia e verso i Balcani, nel momento in cui, a partire dall’estate del 2015, lo scenario regionale e gli interessi dello Stato turco sono cambiati. La guerra sul territorio siriano è iniziata nella primavera del 2011 e contemporaneamente si è avviato l’esodo dalla Siria alla Turchia; l’emergenza dei profughi provenienti dalla Siria è però esplosa in Europa soltanto quattro anni dopo: perché?
Perché soltanto dal luglio del 2015 Ankara ha iniziato ad aprire i propri confini verso l’Europa e a facilitare il deflusso di una piccola parte dei 2,7 milioni di siriani progressivamente riparati in Turchia. Quest’ultima, dopo aver per lungo tempo permesso, se non favorito, l’ingresso in Siria di combattenti che da tutta Europa attraverso i confini turchi sono andati a dare man forte allo Stato Islamico, ha certamente facilitato — in funzione anti-Assad, anti-curdi e anti-Iran — l’espansione dello stesso IS, curando l’addestramento di ex militari iracheni dell’esercito del presidente Saddam Hussein (1937-2006) e favorendo al confine turco-siriano contrabbandi di ogni genere, dalle armi al petrolio, dagli uomini ai passaporti. Quando, anche a seguito di queste scelte, il presidente Erdoğan ha iniziato a trovarsi in difficoltà, sia con gli aderenti all’Alleanza Atlantica (NATO), di cui la Turchia è parte, sia con la Russia, sia al proprio interno, nei confronti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e delle sue basi in area curda, e dell’intero movimento curdo, ha pensato bene di reagire mettendo in difficoltà l’Europa e svuotando taluni dei centri di raccolta dei profughi: così nei mesi di luglio e di agosto del 2015 ben 350.000 di loro hanno attraversato i confini turchi, riversandosi nelle isole della Grecia o risalendo dai Balcani.
Quest’atteggiamento ha pagato, ovviamente solo in favore della Turchia. Nonostante la dura repressione nei confronti dei curdi e di tutti coloro che sono stati identificati come potenziali oppositori interni, nel marzo del 2016 la Turchia ha raggiunto con l’UE un’intesa sui migranti, non più rinegoziata, neanche dopo il tentativo di golpe del luglio 2016 e la ancora più pesante repressione che ne è seguita. In base all’accordo, la Grecia rimanda in Turchia tutti i migranti che giungono sul proprio territorio e che non hanno titolo a ottenere l’asilo o la protezione umanitaria. Il che presuppone un vaglio rapido e approssimativo delle richieste di riconoscimento dello status di rifugiati proposte in Grecia, in spregio alle regole delle quali l’UE impone il rigoroso rispetto a tutti gli altri Stati che la compongono, Italia in testa. I profughi che la Grecia non riesce a rimandare in Turchia vengono bloccati sulle isole elleniche dell’Egeo, a cominciare da Lesbo. La Turchia s’impegna a trattenere i profughi nel proprio territorio e in cambio ottiene dall’UE una somma complessiva di circa 6 miliardi di euro e facilitazioni sui visti d’ingresso in Europa dei cittadini turchi. I 28 Stati dell’Unione hanno inoltre concordato di ripartire in modo proporzionale nel territorio di ciascuno di essi il numero complessivo di 72.000 rifugiati: un tetto di profughi incomparabilmente inferiore a coloro che sono fuggiti e che fuggono da guerre e persecuzioni in direzione dell’Europa. Il ricollocamento è peraltro rimasto allo stato iniziale, in seguito al rifiuto di singoli Stati membri dell’Unione di rispettare questa voce dell’intesa. L’esito è stato quello di lasciare bloccati nel fango di Idomeni o nei contenitori metallici di Patrasso o nelle tende di Lesbo o nel ghiaccio dei confini serbi profughi siriani e iracheni che hanno perso familiari e beni sotto le bombe o di fronte all’avanzata dell’IS, o afgani e pakistani che scappano dall’applicazione letterale della sharia, la legge islamica: mentre uno degli attentatori di Parigi è rimasto tranquillo per quattro mesi a Molenbeek, il quartiere a maggioranza islamica di Bruxelles, dopo le stragi compiute…
Si può e si deve discutere delle misure sull’immigrazione adottate in via provvisoria dal presidente degli USA Donald Trump subito dopo il suo insediamento. Ma se una parte consistente delle riserve viene espressa dall’UE o dai leader degli Stati più importanti che ne fanno parte sarebbe dignitoso un minimo di coerenza: il presidente USA ha fissato a 50.000 il limite dei rifugiati da ammettere negli States nel 2017; è un tetto, esattamente come quello fissato a quota 72.000 — e non rispettato — dall’UE. Ha sospeso temporaneamente l’ingresso negli USA da sette Paesi a maggioranza musulmana, in attesa di ridefinire e riorganizzare il sistema dei controlli; il blocco UE dell’ingresso dei profughi dal «Paese sicuro» Turchia è invece a tempo indeterminato e riguarda tutte le nazionalità. Ha rilanciato la costruzione del Muro al confine con il Messico: in realtà, un completamento, poiché un terzo dei 3200 km programmati è già realizzato, per iniziativa dei predecessori di Trump, senza paragonabile clamore di critiche, mentre ampie zone del confine sono così inaccessibili da non averne bisogno. Intende rendere più efficienti i controlli biometrici negli aeroporti: quelli che la Commissione europea aveva deciso oltre dieci anni fa e che il Parlamento europeo aveva poi fermato in nome della privacy. Nella sostanza, Donald Trump sembra muoversi — è una prima valutazione, che attende la conferma dai fatti — all’insegna del pragmatismo e della sperimentazione: criticarlo pesantemente da parte di chi finora ha fatto molto peggio, avendo più tempo a disposizione, non rende la critica credibile.
3.1 La Convenzione di Dublino e l’iniziativa tedesca sui rifugiati. Un problema serio a livello europeo — di ordine giuridico, ma con una pesante pregiudiziale di ordine politico — è la Convenzione di Dublino, che disciplina all’interno dell’UE l’asilo e l’accoglienza dei rifugiati: sottoscritta il 15 giugno 1990, è stata modificata, fra l’altro, dal Regolamento comunitario n. 343 del 2003. L’intento delle sue disposizioni in origine era apprezzabile: puntava a garantire al richiedente asilo che la sua domanda fosse esaminata da uno Stato dell’Unione, evitandogli di essere mandato da uno Paese all’altro senza che qualcuno accettasse di esaminarne l’istanza. Per raggiungere tale obiettivo la Convenzione individuava un criterio oggettivo: lo Stato UE responsabile dell’esame della richiesta, indipendentemente dal luogo in cui la stessa sia stata presentata, è quello nel quale è avvenuto il primo ingresso. Questo criterio oggi — in un contesto del tutto diverso da quello del 1990 — è fonte di seri problemi: la sua applicazione letterale fa sì che i 1.015.078 profughi sbarcati sulle coste comunitarie nel 2015 e i 370.034 del 2016 vengano ripartiti, quanto a istruttoria della domanda di protezione e ad accoglienza, prima e dopo l’esame della stessa, soltanto fra Italia e Grecia (e Spagna, in minima parte) (2). È sensato?
Che non lo sia è sembrato in un primo momento averlo riconosciuto il cancelliere tedesco Angela Merkel, che nell’agosto del 2015 ha rilanciato il tema della revisione di Dublino, ha aperto le porte della Germania — che in termini assoluti ospita il maggior numero di rifugiati in Europa — ai profughi provenienti dalla Siria, a prescindere dalla regola dello Stato di primo ingresso, e ne ha accolti in numero significativo. Per qualche giorno è sembrato un gesto politico importante e un passo preliminare alla revisione di Dublino, nella prospettiva di una distribuzione equilibrata in proporzione all’estensione territoriale e alla popolazione di ciascuno Stato membro; nel giro di pochi giorni questa prospettiva ha però mostrato una serie di gravi limiti. Intanto per il suo carattere isolato: i media hanno insistito — e insistono tuttora — nel mandare le immagini registrate alla frontiera fra Ungheria e Serbia, non invece quelle dei governanti degli Stati europei che rifiutano anche solo d’iniziare un confronto sulla ripartizione dei profughi, assumendo responsabilità certamente superiori a quelle dei poliziotti ungheresi che presidiano i confini di quel Paese.
È facile puntare il dito contro Stati come l’Ungheria o in generale dell’Est europeo, che manifestano le maggiori resistenze a far entrare i profughi e ad accoglierne secondo un piano di ripartizione concordato. Suscita amarezza il fatto che avviene da parte di Paesi i cui cittadini in momenti critici passati sono stati accolti a braccia aperte da altri Stati europei: ho già ricordato l’esodo di 250.000 ungheresi nel novembre 1956, nessuno dei quali è stato respinto una volta oltrepassato il confine. Ma ha un sapore altrettanto amaro che queste critiche provengano da Bruxelles, o da Parigi, o da Madrid, e non tengano conto che l’Ungheria ha una popolazione di circa 10 milioni di persone: che ne arrivino centinaia di migliaia in pochi giorni, come è accaduto nell’estate del 2015, ma anche nei mesi successivi, che li si debba accogliere senza fruire di sostegni europei, con la Convenzione di Dublino che incombe, non giustifica la reazione di rigetto, ma ne fa cogliere le motivazioni. Soprattutto se si tiene conto che nel solo 2015 le richieste di asilo proposte in Ungheria sono state 177.135; per avere un metro di confronto, in Italia sono state 84.085, con una popolazione 6 volte superiore, e in tutta l’UE 1.332.170.
Il secondo limite dell’iniziativa della Merkel è stata la sua estemporaneità: l’apertura tedesca è durata qualche giorno, per essere poi rapidamente seguita addirittura dalla sospensione del Trattato di Schengen, e quindi dal ripristino dei controlli alla frontiera con l’Austria; il che ha confermato che neanche lo Stato più forte e più ricco d’Europa da solo riesce a reggere l’impatto.
Il terzo limite in realtà riguarda l’intera Unione: prima o poi si arriverà a una ripartizione del carico degli arrivi in relazione a una serie di indici, fra cui la proporzione alla popolazione di ciascuno Stato, la sua estensione territoriale e il suo prodotto interno. In previsione di ciò, la Merkel ha preceduto gli altri: accogliendo in pochi giorni centinaia di migliaia di siriani, ha orientato i flussi d’ingresso e si è assicurata — nella prospettiva della loro stabilizzazione sul territorio tedesco — persone mediamente istruite e potenzialmente integrabili con facilità sia quanto al lavoro sia quanto alla capacità di socializzare. Quando all’orizzonte sono comparsi profughi di altre nazionalità, per esempio afghani o eritrei, ha chiuso le frontiere. È vero che nel 2015 in Germania sono state presentate più domande di asilo che in ogni altro Stato dell’UE: 476.620 su un totale europeo di 1.332.170; ma è altrettanto vero che il 96 per cento dei richiedenti era di origine siriana. Alla fine le scelte della Germania sono state un boomerang per l’intera Europa, sia perché a poche centinaia di chilometri da casa nostra migliaia di migranti sono fermi in quella che è stata definita la trappola dei Balcani — in Macedonia, in Croazia, in Slovenia, al freddo, con aiuti limitati e senza prospettive —, sia perché i ricollocati negli Stati dell’Unione sono stati veramente in numero esiguo: nel 2016 2.654 persone dall’Italia (circa l’1,5 per cento rispetto a coloro che sono giunti sulle nostre coste) e 7.338 persone dalla Grecia.
3.2 Il contrasto in mare e il Migration compact. Di fronte alle emergenze in atto, le discussioni in sede europea oscillano fra frequenti rinvii e voci prive di qualsiasi aggancio alla realtà. Due esempi? Il contrasto via mare dei traffici illeciti di migranti e il cosiddetto Migration compact. A scadenze ricorrenti, i Consigli dei primi ministri dell’UE, o singoli Commissari dell’Unione, rilanciano sulla necessità di rendere efficiente il dispositivo navale e di potenziare agenzie come era Frontex, e come è oggi la Guardia costiera europea: trascurando che, quando una imbarcazione di dieci metri prende il largo dalle coste libiche con cento persone a bordo, la sola misura che impongono le norme marittime, e prima ancora il buon senso e il senso di umanità, è di impedire che finiscano in acqua. Tentare il contrasto o il respingimento in mare equivale a condannare quelle persone alla morte, allungando un elenco di vittime che da tempo ha superato le svariate migliaia. E quand’anche si riuscisse nell’impresa di ricondurre in Libia i migranti fermati in mare, nessuno dice quale sarebbe la loro sorte. Continuare a evocare investimenti su questo versante — come emerge da un documento non ufficiale elaborato ai primi di gennaio del 2017 dal governo di Malta, quale presidente di turno dell’UE — significa continuare a non risolvere nulla. Se s’intende realmente evitare che natanti di fortuna tentino l’attraversamento del Canale di Sicilia o dell’Egeo, è necessario evitare che partano: è necessario, cioè, potenziare il contrasto a terra, come — in un tempo e con scenari differenti — quindici anni fa l’Italia fece con successo in Albania.
Quando si parla di soccorso nel Mediterraneo, si parla soprattutto dell’operazione Mare nostrum, disposta dal governo guidato dall’on. Enrico Letta nell’estate del 2013 con le migliori intenzioni, all’indomani di una delle più terribili tragedie consumate al largo dell’isola di Lampedusa. Essa ha certamente condotto in salvo dalle acque territoriali libiche ai porti italiani decine di migliaia di persone. Al di là delle intenzioni, ha però manifestato limiti gravi, confermati dalla tragica circostanza che — durante il suo corso — i morti in mare si sono moltiplicati, soprattutto di fronte alla Libia. È accaduto che la maggiore vicinanza delle navi italiane alle coste libiche ha indotto i trafficanti di migranti a far partire imbarcazioni più precarie e più affollate, nella prospettiva che avrebbero dovuto percorrere poche miglia marine: non si contano quelle che si sono rovesciate dopo poche centinaia di metri dalle coste, facendo affogare migliaia di persone, a fronte delle poche decine perite nel periodo di vigenza degli accordi fra Libia e Italia, mentre Gheddafi era ancora leader. E comunque la intravista maggiore facilità di attraversamento del Mediterraneo ha trasmesso il messaggio che la Libia era il posto giusto, anche per chi proveniva da molto lontano, per percorrere l’ultimo tratto verso l’Europa. Mare nostrum è terminata, ma il carico dei soccorsi nel Mediterraneo continua a gravare in larga misura sull’Italia: si salvano vite umane, tante altre continuano a perire con l’illusione di essere raccolte in mare e di farcela, e i trafficanti continuano a operare. Fra costoro esistono criminali, ma anche frange terroristiche per le quali l’organizzazione dei tragitti della disperazione costituisce una entrata lucrosa.
Quel che manca, e incide negativamente, è un atteggiamento compatto dei principali partner europei nei confronti della Libia: un patto che, oltre a porre i trafficanti di uomini nella impossibilità di nuocere, garantisca a chi è giunto fino alle coste del Mediterraneo provenendo, per esempio, dalla Nigeria o dall’Eritrea una verifica seria della propria condizione, con commissioni di asilo costituite ad hoc sotto l’egida dell’UE, o dell’ONU, o di entrambe. A quel punto il trasferimento in uno dei Paesi europei, secondo un criterio di equa distribuzione, di coloro che hanno ricevuto il riconoscimento di rifugiati, avverrebbe senza rischi per la vita. Il persistente contrasto fra gli Stati comunitari sulla Libia, e il parallelo caos sul territorio libico, con milizie e fazioni che si contrappongono senza alcuna iniziativa europea, impedisce che una soluzione del genere — la più seria e ragionevole — si realizzi.
Altrettanto distante dalla realtà è apparsa la proposta del precedente presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi del cosiddetto Migration compact: esso consiste nell’incremento degli aiuti economici e finanziari agli Stati dai quali provengono i migranti in cambio di controlli più efficaci alle frontiere. È una di quelle idee il cui unico effetto è di allungare i tempi di soluzione: se ne parla da quando è stata avanzata, ciascuno dei 28 componenti dell’UE manifesta una posizione differente e aleggia la consapevolezza che non si raggiungerà mai un risultato. Si continua a discuterne, se è vero che il Consiglio straordinario europeo che si terrà a Roma il 25 marzo 2017, nel sessantesimo anniversario dalla firma dei trattati europei, vedrà ancora questa voce all’ordine del giorno. S’immagini per un momento che in quel Consiglio dei capi di governo dell’UE — o in altro successivo — la richiesta italiana venga accolta, e che la Germania, che finora ha manifestato le maggiori riserve, concordi perfino sulle modalità di finanziamento. S’immagini — pur se è necessaria molta fantasia — che dal giorno successivo le istituzioni europee e dei singoli Stati inizino a realizzare nel concreto il Migration compact.
Passiamo in rassegna i partner africani possibili fruitori degli aiuti per opere socialmente utili — da finanziare con degli eurobond — destinate dal piano a frenare le partenze dai rispettivi territori, così come prevede la proposta. Cominciamo con l’Eritrea, dal cui territorio proviene, subito dopo la Nigeria, il più consistente numero di persone che sbarcano in Italia: essa dal 1993 è sottoposta a un regime totalitario che organizza una repressione interna, causa principale delle fughe in direzione dell’Europa. Come funzionerebbe il Migration compact? L’UE si farà comunicare direttamente l’IBAN del conto corrente del presidente a vita Isaias Afewerki? O invierà una propria missione europea — che sarebbe accolta verosimilmente a braccia aperte — per controllare la corretta destinazione degli aiuti? Proseguiamo con la Nigeria, sul cui territorio intere aree sono sottratte al controllo del governo e occupate da Boko Haram: il Migration compact verrebbe adoperato per convincere la comunità di un villaggio in prevalenza cristiano ad abbellire le proprie case, o per indurre i capi di Boko Haram a fare i buoni e a non costringere alla fuga chi non accetta la sharia, la legge islamica? Vogliamo parlare della Somalia, o del Mali, o dei tanti territori dai quali chi decide di andarsene lo fa perché altrimenti viene ucciso o — se donna — sottoposta a violenze e schiavizzata?
Per concludere sul punto. L’UE mostrerà nell’immediato d’interessarsi seriamente di immigrazione quando concorderà: a) un intervento in sicurezza in Libia, nei termini prima illustrati; b) la vera ripartizione dei rifugiati in modo proporzionato fra i suoi 28 componenti; c) l’intelligente revisione della Convenzione di Dublino. E ovviamente quando si renderà protagonista di iniziative di contrasto serio alle persecuzioni e al terrorismo, d’intesa con USA e Federazione Russa. Se invece continuerà a porre al centro dei suoi vertici, tanto numerosi quanto inconcludenti, la tutela dei confini, il contrasto in mare e gli aiuti ai Paesi di provenienza, ciò costituirà indice sicuro della persistente non-volontà di affrontare la questione. E questa inerzia non resterà senza effetti: abbandonare alcuni Stati membri alla gestione in proprio degli aspetti emergenziali accentuerà le spinte ostili all’UE, aumenterà i viaggi della disperazione e le morti in mare, farà crescere gli spettacoli indegni di migliaia di persone costrette al gelo ai confini dell’Unione. In breve, renderà cronica la patologica incapacità di affrontare la sfida più drammatica che oggi l’Europa ha davanti a sé, ponendo a rischio la sua stessa sopravvivenza come Unione.
4. Il ruolo dell’Italia
Nel settembre del 2016, parlando a New York all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’allora premier Matteo Renzi «avvertiva» la comunità internazionale, e soprattutto l’Unione Europea, che se fossero ancora mancati aiuti adeguati per fronteggiare l’emergenza immigrazione nel Mediterraneo l’Italia sarebbe stata costretta a far da sé. Non sembra che l’annuncio sia stato seguito da fatti concreti, né a livello internazionale, né in Europa. Quell’intervento legittima però una domanda: ci sono misure che un singolo Stato è in grado di adottare, se non per risolvere, quanto meno per circoscrivere l’entità dei problemi dell’immigrazione? La risposta è affermativa e la fornisce in parte l’insieme di iniziative che il ministro dell’Interno del nuovo governo Gentiloni, sen. Marco Minniti, ha avviato fin dal suo insediamento: esse per un verso vanno nella direzione di riprendere in mano il governo politico della questione dopo anni di abbandono, per un altro verso si ricollegano al lavoro svolto dai governi italiani fino al 2011.
È pregiudiziale mettere da parte, insieme agli annunci e alle proposte roboanti — quella del Migration compact ne è un esempio —, atteggiamenti che potrebbero definirsi «furbi» e in realtà si sono rivelati poco lungimiranti. Un saggio di ciò è stata, per più mesi nel 2015, la scelta non dichiarata, ma praticata, di non identificare una parte di coloro che arrivavano via mare: in tal modo per quei profughi l’Italia non risultava Stato di primo ingresso ai sensi della Convenzione di Dublino, se ne favoriva la fuoriuscita dal nostro territorio per raggiungere qualche altro — e più gradito ai migranti — Stato europeo, e si alleggeriva il carico dell’accoglienza e delle pratiche di asilo. In termini assoluti, e nella divergenza fra le quantificazioni operate dalla Commissione UE e quello del governo italiano, il numero dei non-identificati attraverso quest’aggiramento è stato di non meno di 25.000 unità: la decisione è stata ammessa dal ministro dell’Interno dell’epoca, on. Angelino Alfano, in un’intervista al Corriere della Sera del 31 agosto 2015 ed è confermata dai dati del ministero dell’Interno, che per il 2015 indicano 153.842 persone sbarcate e 128.796 foto-segnalamenti effettuati. La differenza — almeno 25.000 persone lasciate passare senza identificarle — va incrementata per avere un’idea della quantità di migranti non regolari con il consistente numero di extra-comunitari che sono entrati in Italia nello stesso anno per via diversa dal mare. La «furbizia» — come ogni furbizia — è durata poco: il primo risultato è stata la chiusura di alcuni valichi, dal Brennero a Ventimiglia, con le scene indecorose di migranti ammassati nella stazione di Bolzano o sugli scogli a pochi metri dal confine francese. Il secondo è stato una sorta di commissariamento dell’Italia: l’UE ha imposto all’Italia l’apertura di centri di registrazione dedicati ai migranti — i cosiddetti hotspot —, inizialmente presidiati da delegati della stessa Unione, appartenenti a Europol e a Frontex. Se si fossero dedicate maggiori energie alla revisione di Dublino, si sarebbe evitata una brutta figura e si sarebbe perso meno tempo.
Gli aspetti salienti e problematici della situazione italiana attuale sono i seguenti. Come nel resto dell’Europa, i migranti che fuggono da persecuzioni e da guerre sono aumentati in quantità e in percentuale rispetto ai migranti economici. La media delle domande di asilo e di protezione accolte si attesta nel 2015 e nel primo semestre del 2016 a poco meno del 40 per cento delle richieste presentate. Giova ricordare che, a fronte di una domanda di asilo, il provvedimento della Commissione cui è demandato il suo esame può essere: 1) di accoglimento, e quindi di riconoscimento dello status di rifugiato, qualora sia dimostrata la persecuzione di quella persona: nei diciotto mesi prima ricordati un decreto di questo tipo ha riguardato il 5 per cento delle richieste; 2) di attribuzione della protezione sussidiaria, consistente in uno status simile a quello di rifugiato, qualora il richiedente non dimostri una persecuzione personale in base alla Convenzione di Ginevra, ma venga valutato come esposto al rischio di danno grave (condanna a morte, tortura, minaccia alla vita per una guerra interna o internazionale) in caso di rientro nel proprio Paese. Nel 2015 è stata riconosciuta per il 14 per cento delle richieste e nel primo semestre 2016 per il 13 per cento; 3) di attribuzione della protezione umanitaria, quando comunque vi sia una situazione di pericolo: ha riguardato, per esempio, nel 1999 i profughi dal Kossovo. Nel 2015 essa è stata riconosciuta per il 22 per cento delle richieste e nel primo semestre del 2016 per il 18 per cento; 4) d’inammissibilità o di rigetto: provvedimenti di questo tipo hanno interessato il 59 per cento delle domande nel 2015 e il 64 per cento nel primo semestre 2016. Ai primi posti fra le nazionalità di provenienza degli sbarcati nel 2016 non vi sono siriani o iracheni, per evidenti ragioni di prossimità geografica, ma nigeriani (37.551) ed eritrei (20.718): Nigeria ed Eritrea sono aree nelle quali la persecuzione diretta e/o l’esistenza di sanguinosi conflitti interni provoca fughe in massa.
Il sistema della prima accoglienza è in forte affanno. Al 31 dicembre 2016 lo Stato italiano gestiva — direttamente o tramite associazioni di volontariato, onlus, enti territoriali — l’accoglienza e il mantenimento di 176.554 persone: di esse 820 erano negli hotspot, cui prima facevo cenno, con tempi di permanenza di poche ore, finalizzata alla identificazione, 14.694 all’interno dei Centri di prima accoglienza, 23.822 nel sistema cosiddetto SPRAR — che interessa coloro che hanno già avuto il riconoscimento di una protezione — e ben 137.218 in «strutture temporanee». Quest’ultima espressione indica strutture ricettive private — alberghi e bed&breakfast — con costi elevati e servizi spesso inadeguati, ovvero immobili reperiti e gestiti da onlus o cooperative con le quali sono strette convenzioni. Una tale parcellizzazione garantisce solo un enorme dispendio finanziario e non permette né la verifica del rispetto di standard minimi di decoro per gli ospiti, né il controllo completo delle presenze: gli allontanamenti volontari non sono pochi e ciò provoca ulteriori problemi.
I tempi per l’esame delle domande di asilo si sono notevolmente dilatati, in dipendenza dell’incremento delle domande medesime, con un trend crescente: nel 2015 le richieste sono state 84.000 circa, il 30 per cento in più rispetto al 2014; nello stesso anno le richieste esaminate sono state 71.000. Nel primo semestre del 2016 le richieste sono state 54.000 circa, il 64 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2015: le richieste esaminate sono state 50.000. Il dato riguardante l’intero 2016 è di 123.000 domande, con una pendenza a fine anno di 105.744 procedimenti. La media del tempo che intercorre fra la presentazione della richiesta e la decisione della Commissione di asilo variava fra il mese e i due mesi fino al 2010; per il 2016 è stata quantificata in 266 giorni; ciò vuol dire che spesso oltrepassa l’anno di attesa. Durante questo periodo, che cresce ulteriormente se colui che ha ricevuto un decreto di rigetto lo impugna — come gli è consentito — davanti al giudice ordinario, il richiedente è assistito dallo Stato e non svolge alcuna attività di lavoro: rappresenta un costo, per lo meno per il tempo di dilatazione dell’attesa di una decisione definitiva sulla sua domanda, e vive ordinariamente nell’ozio. Chi arriva da esperienze tragiche non ha tanta pazienza e con tempi lunghi di risposta rischia — soprattutto se di giovane età — di diventare preda di circuiti criminali, quando non terroristici. Se si lascia un ventenne eritreo, che arriva in Italia dopo un viaggio durato due anni, nell’incertezza per un altro anno, o più, sulla propria sorte, l’attesa è in sé rischiosa e potenzialmente eversiva.
L’area della clandestinità è aumentata senza controllo, senza che negli ultimi cinque anni vi sia stato uno sforzo politico-istituzionale per prevenirla o per contrastarla. Qualche cifra rende meglio l’idea: nel 2015, a fronte di 153.842 sbarcati le istanze di asilo sono state 83.970. Che fine hanno fatto gli altri 70.000? Si tratta a tutti gli effetti di persone che non hanno alcun titolo di regolare soggiorno: sono privi perfino di quel permesso provvisorio rilasciato nell’attesa che una Commissione di asilo esamini la domanda. Sempre nel 2015, rispetto alle domande esaminate i dinieghi sono stati il 59 per cento (41.503), lo status di rifugiato è stato riconosciuto nel 5 per cento dei casi, mentre il 36 per cento circa ha ricevuto protezione sussidiaria o umanitaria, come prima ho ricordato. Questo vuol dire che dei migranti entrati in Italia nel solo 2015 oltre 110.000 non avevano alcun titolo per restarvi: o perché la loro domanda di asilo era stata respinta o perché non l’avevano nemmeno inoltrata. Nel 2016 il dato è cresciuto in proporzione e in assoluto: le persone giunte via mare in Italia sono state 181.436, il 17.94 per cento in più del 2015. I soggetti che nel 2016 hanno avuto una espulsione effettiva, con riaccompagnamento nel Paese di origine, sono 5.789, appena il 5 per cento degli irregolari arrivati. Negli ultimi quattro anni, l’estensione della clandestinità è dunque cresciuta a un ritmo che può stimarsi in 100.000 unità all’anno: non tutti sono rimasti in Italia, ma i maggiori controlli alle frontiere francese e austriaca predisposti negli ultimi due anni fanno stimare che oggi la gran parte dei migranti irregolari resti nel nostro territorio. Quest’area finora è stata semplicemente ignorata, provocando un obiettivo incremento di criminalità, anche terroristica. In un sistema sicurezza — quello italiano — che è probabilmente il migliore in Europa, è in tal senso significativa la vicenda di Anis Amri (1992-2016), il tunisino autore della strage al mercatino natalizio di Berlino del 19 dicembre 2016. Amri è arrivato in Italia nel 2012 non per compiere un attentato, vi è giunto su un barcone, ha commesso reati comuni, è stato giudicato, condannato e condotto in carcere, al cui interno si è «radicalizzato»; terminata l’espiazione, la sua potenzialità criminale lo ha fatto collocare per breve tempo in un CIE-Centro di Identificazione ed Espulsione, dal quale è stato poi rimesso in libertà, con un decreto di espulsione non eseguito. Per la parte corrispondente all’identificazione, alla punizione e all’osservazione carceraria il sistema ha funzionato. Le lacune sono state nel seguito: ho detto che l’espulsione non è stata effettiva perché la Tunisia non ha collaborato per il suo rientro, ed è stato fatto uscire dal CIE perché i posti erano pochi. Di fatto, un personaggio che — in base alle leggi esistenti in Italia e in Europa — mai avrebbe potuto circolare liberamente si è invece mosso senza ostacoli, fino alla strage di Berlino. Quanti personaggi come Amri godono oggi dell’agibilità a lui così generosamente riconosciuta, in virtù della rinuncia politica — in vigore fino al dicembre 2016 — a far funzionare il sistema delle espulsioni?
Sono in preoccupante aumento anche i minori stranieri non accompagnati, che nel 2016 hanno raggiunto il numero di 25.772: il doppio di quanti ne sono arrivati nel 2015 (12.360) e nel 2014 (13.026). Più ancora degli altri dati relativi all’immigrazione, questo non tollera di essere considerato un semplice numero.
4.1 L’Italia: quel che può fare da sola. Torno al quesito iniziale. Se questi sono i nodi più problematici della situazione, che cosa può fare da sola l’Italia?
Può anzitutto abbattere i tempi per l’esame delle richieste di asilo. Le Commissioni territoriali a ciò delegate erano 20 nel 2010, quando le persone sbarcate in tutto l’anno erano poco meno di 4.500. Oggi le Commissioni territoriali sono 40, il doppio del 2010, a fronte di un numero di persone sbarcate nel 2016 pari a 40 volte quelle di 6 anni fa. Devono essere significativamente aumentate: non può obiettarsi che costano, perché costa molto di più il notevole allungamento dei tempi di attesa della decisione. Vi è stato negli ultimi due anni un adeguamento degli uffici giudiziari chiamati a pronunciarsi sul ricorso contro il rigetto della domanda, la cui presentazione comunque obbliga a non allontanare lo straniero e a mantenerlo fino alla pronuncia definitiva del giudice: non è ancora sufficiente, ma è un passo importante. Come è interessante l’annuncio del ministro Minniti di studiare un iter processuale più accelerato, che salti qualche grado del giudizio di impugnazione.
Nella stessa direzione va introdotto uno strumento inspiegabilmente assente nel nostro ordinamento: la lista dei «Paesi sicuri», cioè l’elenco degli Stati che non vanno ritenuti luoghi di persecuzione o che necessitino di protezione umanitaria, sì che l’accertata provenienza da uno di essi precluda e renda inammissibile la domanda. La scelta di non dotarsi di quest’elenco costringe le Commissioni a istruire le relative domande, con un notevole spreco di tempo e di energie quando non ve ne è alcun presupposto, e con il costo del mantenimento del richiedente finché la procedura non è esaurita. Quali persecuzione o emergenza umanitaria vi sono, per esempio, in Marocco? Eppure la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato presentato da un cittadino di tale Stato viene esaminata con le medesime modalità di quella proposta da una nigeriana cristiana fuggita da un’area dominata da Boko Haram. È veramente singolare che oggi — in virtù del vergognoso accordo fra l’UE e la Turchia — la prima consideri la seconda «Stato sicuro», permettendo che la Grecia faccia tornare indietro perfino turchi di etnia curda, e Roma non consideri «sicura» Rabat.
Sempre nella prospettiva dell’abbattimento dei tempi, chi vieta di istituire corsie preferenziali anche in entrata? Se il richiedente asilo è un medico di Aleppo che si presenta con quel che resta della propria famiglia, con il certificato di battesimo e magari con le foto della propria casa distrutta dalle bombe, vi è necessità di un’istruttoria approfondita?
Fra le misure che il nuovo ministro dell’Interno ha prospettato per i richiedenti asilo in attesa della definizione del proprio status vi è l’avvio a lavori socialmente utili. Sono incomprensibili le resistenze che una misura del genere incontra: per quel che è dato di comprendere, si tratterebbe di prestazioni a tempo determinato, che permettono di avere impegnata una parte della giornata, che fanno acquisire delle competenze utili nell’ipotesi della successiva permanenza in Italia e che rientrerebbero nel complesso del trattamento di accoglienza.
Va ridotta l’area dell’irregolarità. Passare dal recente disinteresse politico per il fenomeno alla coerente applicazione della legge — europea e italiana —, che impone di espellere tutti coloro che non hanno un regolare titolo di soggiorno, oggi si scontra con la quantità di persone che andrebbero ricondotte a casa. E tuttavia si può iniziare con quelli — come Anis Amri — segnalati come pericolosi durante l’osservazione in carcere o che commettono reati che, per via dei benefici riconosciuti, non conducono in un istituto di pena. Perché una espulsione sia effettiva è necessario: a) identificare in modo sicuro il soggetto e la sua nazionalità; b) accordarsi con lo Stato di origine perché lo riprenda con sé; c) impedire che egli si dilegui finché sono in corso l’identificazione e la trattativa con lo Stato in questione. Quanto ad a), vanno potenziati gli hotspot, che attualmente sono soltanto 5, ciascuno con poche centinaia di posti, collocati in corrispondenza dei luoghi dello sbarco. Potrebbe essere utile un adeguamento normativo per dissuadere dal rifiuto della propria identificazione: far derivare l’immediata espulsione o — se ve ne sono le condizioni — il respingimento da una condotta del genere, che denota l’assenza del minimo di lealtà nei confronti dello Stato che sta accogliendo e sta iniziando a ospitare, ha una sua logica e farebbe cadere il numero degli irregolari senza nome. Quanto a b), da sempre gli Stati di origine resistono alla riconsegna di propri cittadini, o rifiutando la collaborazione o realizzandola al minimo (da 3 a 5 per volta sui voli di linea); da sempre questi ostacoli sono superati con un’interlocuzione diretta, che inserisca la gestione dei flussi migratori nel quadro più ampio della cooperazione: se non si negozia non si fa un passo in avanti. In quest’ottica l’avvio di «missioni» dell’attuale ministro dell’Interno negli Stati di provenienza dei migranti irregolari è una strada obbligata. Quanto a c), la capienza dei CIE — ridotti ad appena 5 — è segnalata oggi a 1.601 posti, ma la ricettività effettiva è di 359, cioè nulla.
Sui CIE è necessario soffermarsi. Il ministro dell’Interno ha indicato l’ampliamento della rete di questi Centri, immaginandone uno per ogni regione, come necessario per il funzionamento del sistema delle espulsioni. È un passaggio indispensabile: la garanzia di rimpatrio dell’irregolare è la sua collocazione in una struttura di sicurezza che ne precluda la fuga. I tempi di permanenza nei CIE sono cambiati nel corso degli anni: ora ci si è attestati su un massimo normativo di 90 giorni, estensibili a 12 mesi — con autorizzazioni intermedie da parte dell’autorità giudiziaria — se il soggetto costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica. Sono tempi tali da permettere l’identificazione e l’accordo con lo Stato d’origine. Un CIE capiente in ogni regione permette un controllo della clandestinità più agganciato al territorio, fornisce risposte tempestive, evita la dispersione di energie dei poliziotti costretti a viaggiare dalla Toscana alla Sicilia per collocare l’irregolare in un CIE. Esige la collaborazione di tutti: per una regione e per chi ci abita avere un CIE al proprio interno è garanzia di sicurezza, fa isolare chi è realmente pericoloso e contiene l’indiscriminata reazione anti-migranti delle popolazioni. Se governatori di importanti Regioni italiane e qualche autorevole uomo di Chiesa confermano la decisa opposizione a tale estensione conviene che completino il ragionamento. Conviene che affermino con chiarezza quel che ne consegue logicamente, e cioè che a loro avviso: a) nessuno dei soggetti che giunge in Italia in modo irregolare può essere espulso; b) al più può essere invitato ad allontanarsi volontariamente; c) se intende restare gli è consentito di farlo, pur se la sua identità è ignota. Conviene che lo dicano in modo aperto, consapevoli che la loro posizione è contraria alle norme UE e a quelle italiane, confermate da commissioni, governi e maggioranze di diverso orientamento. Sapendo che questa posizione abolisce la nozione di irregolarità, conferma l’incremento dell’effetto-richiamo in Italia, concorda in modo esplicito con l’aumento annuale di 100.000 clandestini registrato negli ultimi 4 anni, al lordo di coloro che hanno utilizzato il nostro territorio solo come area di transito, e rende impotenti di fronte alla libera circolazione dei non pochi Anis Amri che sono fra noi.
5. Il ruolo della comunità ecclesiale
Nel Magistero e nella tradizione della Chiesa la cura e la pastorale dei migranti hanno sempre occupato un posto significativo. Il Magistero ha più volte esortato, nel rispetto della dignità di ogni persona, a non sovrapporre — per quanto possibile — le differenti figure del migrante e del rifugiato. Di ritorno dal viaggio in Svezia, colloquiando con i giornalisti sul volo Malmö-Roma il 1° novembre 2016, Papa Francesco ha ricordato che «si deve distinguere tra migrante e rifugiato. Il migrante dev’essere trattato con certe regole perché migrare è un diritto ma è un diritto molto regolato. Invece, essere rifugiato viene da una situazione di guerra, di angoscia, di fame, da una situazione terribile e lo status di rifugiato ha bisogno di più cura, di più lavoro» (3). Nelle sue parole non vi è l’apertura indiscriminata che una lettura strumentale propaganda. Vi è anzi l’esigenza che, una volta accolto il profugo, vi sia uno sforzo serio teso alla sua integrazione: «Credo che in teoria — ha aggiunto nella stessa occasione — non si possa chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti […] di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più». La prudenza diventa così il faro per orientare su questo terreno; la prudenza, sottolinea il Papa, non la paura. Quest’ultima è «[…] il più cattivo consigliere per i Paesi che tendono a chiudere le frontiere». Come esempio concreto di «prudenza», ripartendo da uno Stato che da sempre è fra i primi nell’accoglienza dei rifugiati — nel 2015 terzo in Europa in cifre assolute, con 162.550 domande di asilo presentate, dopo la Germania e l’Ungheria — Papa Francesco ha citato «un funzionario del governo svedese» che gli aveva descritto «[…] qualche difficoltà perché vengono tanti che non si fa a tempo a sistemarli, trovare scuola, casa, lavoro, far imparare la lingua. La prudenza deve fare questo calcolo. […] io non credo che se la Svezia diminuisce la sua capacità di accoglienza — così conclude il Pontefice — lo faccia per egoismo o perché ha perso quella capacità; se c’è qualcosa del genere è per quest’ultima cosa che ho detto: oggi tanti guardano alla Svezia perché ne conoscono l’accoglienza, ma per sistemarli non c’è il tempo necessario per tutti».
Lo stesso Magistero esorta a prestare attenzione ai bisogni materiali, che per i migranti vanno dalla primissima accoglienza agli interventi sanitari, dalle necessità alimentari e di vestiario alla disponibilità di alloggi; ma invita a non dimenticare altre esigenze. Uno dei profili più significativi della tragedia di chi fugge da persecuzioni e da guerre è costituito dalle famiglie:
— che si ritrovano dimezzate o diminuite nel numero dei propri componenti a seguito delle morti per atrocità nei luoghi d’origine o durante la fuga;
— che si dividono, pur se desiderano stare insieme, alcuni rimanendo nella zona di provenienza e altri tentando la fuga;
— che si dividono talora per la materiale impossibilità di continuare a convivere, poiché violenza e persecuzione abitano nella famiglia di origine, per esempio con l’imposizione di un matrimonio non voluto o di pratiche religiose e pseudo-tradizionali ostili alla più elementare dignità umana;
— che hanno difficoltà, una volta raggiunte terre più tranquille, a mantenere quella pratica religiosa e quello stile di vita che seguivano prima delle persecuzioni o delle guerre.
Proprio perché cibo e alloggio non esauriscono le necessità, un terreno di aiuto concreto, superato quanto serve per la sopravvivenza, è ricomporre — per quel che si può — il nucleo familiare, facendo in modo che i componenti di una famiglia proseguano a vivere nel medesimo luogo, e magari vengano raggiunti da chi è rimasto. Le varie realtà ecclesiali, se ancora sopravvivono nei luoghi nei quali si combatte e dai quali si fugge — quasi sempre restano fino all’ultimo — sono fra le più capaci di tenere vivi questi legami, mentre le realtà ecclesiali operanti in Occidente possono concorrere a far ritrovare gruppi familiari dispersi. A fianco di ciò vi è l’esigenza di sostenere moralmente e spiritualmente chi ha vissuto e vive una esperienza così carica di sofferenza. Compete anzitutto ai cristiani di qui e alle nostre comunità ecclesiali farsi carico di questa situazione: il lavoro è in qualche modo più agevole se il migrante proviene da aree cristiane; se proviene da altre zone, la proposta — non certo l’imposizione — della speranza fondata su Cristo farà guardare al futuro in modo diverso e positivo.
Ciò è tanto più necessario allorché le famiglie dei migranti s’imbattono in leggi e costumi antitetici ai loro: la testimonianza e la cura dei cristiani che accolgono in Europa e in Occidente possono vincere le diffidenze di chi lascia una persecuzione cruenta e materiale e rischia d’imbattersi in una persecuzione incruenta e ideologica; vi è una differenza fra le due, ma riguarda il modo dell’ostilità, non l’esistenza dell’ostilità verso i cristiani. Una pastorale diffusa e omogenea per questa fascia di persone, che cresce di numero e che mostra necessità anche in senso lato culturali e spirituali, è indilazionabile. Di fronte a una fede cristiana che in Europa e in Occidente incide sempre di meno nella vita quotidiana, la testimonianza di chi per quella fede ha perso familiari e beni, lavoro e patria ottiene più effetti immediati: è di esempio e di sprone per ciascuno di noi, che vive qui; illumina su quanto sia vicino il rischio di perdere la nostra libertà religiosa e sulla necessità di non tardare nello scongiurarlo; è di conforto a queste persone, poiché permette di dare un senso al loro sacrificio; in qualche modo, capovolge la logica: non sono loro a dover ringraziare noi che li accogliamo, ma noi a essere grati a chi oggi — nonostante tutto — è stato disposto a lasciare tutto pur di mantenere la fede.
Note:
(1) I dati sulle migrazioni forzate sono tratti dalla pagina Global trends del sito web dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), <https://www.unhcr.it/news/comunicati-stampa/newscomunicati-stampa3024-html.html>. Tutti i siti web citati nelle note al testo sono stati consultati il 22-2-2017.
(2) I dati sugli arrivi via mare sono tratti dalla omonima pagina del sito web dell’UNHCR, <http://data.unhcr.org/mediterranean/regional.php>.
(3) Francesco, Conferenza stampa del Santo Padre durante il volo di ritorno dalla Svezia, del 1°-11-2016, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 2/3-11-2016. Tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.