MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 237-238 (1995)
Alce Nero parla davvero
1. Relativismo culturale e religioni “tradizionali”
La questione della verità è la questione principale del secolo XX. La Chiesa cattolica — secondo il grande affresco delineato da Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor (1) — si batte perché vengano riconosciuti come primi preambula fidei l’esistenza della verità e la possibilità per gli uomini di conoscerla, contro un relativismo sempre più dilagante e aggressivo. Vi sono, peraltro, diversi relativismi. La caratteristica generale del relativismo — com’è stato affermato — consiste nel “considerare la verità come qualcosa di dipendente da una variabile indipendente che, come tale, la determina” (2). Le variabili indipendenti che determinano la verità nel relativismo possono essere le più diverse. Nel mondo contemporaneo è possibile anzitutto distinguere fra un relativismo razionalista e un relativismo volontarista. Per il relativismo razionalista, la variabile indipendente è la ragione. Il relativismo è perfettamente compatibile con il razionalismo e con la fiducia ingenua nei poteri della ragione e della scienza. Anzi, quasi sempre il razionalismo finisce per “[…] sboccare in un relativismo, nel senso che è vero solo quanto si relaziona gnoseologicamente in forma diretta ed efficace con la ragione umana, variabile indipendente in funzione della quale si determina la verità” (3) “relativa”. Nel relativismo volontarista è invece la volontà di potenza dell’uomo a imporre al reale la sua legge e quindi la sua verità che, in questa variante, è relativa nel senso che è soggettiva, anche se ciascuno potrà poi cercare di far prevalere la “sua” verità sulle altre. Un esempio di relativismo razionalista è costituito dal metodo massonico, così come oggi normalmente si presenta: da questo punto di vista la massoneria costituisce uno dei principali organizzatori sociali del relativismo (4). Il fenomeno del New Age — secondo cui ciascuno, molto letteralmente, è capace di creare un suo mondo — offre invece l’esempio oggi culturalmente più significativo di relativismo volontarista (5). Al relativismo volontarista può essere ricondotto anche il relativismo di un certo tipo di esoterismo che si presenta non solo come stile di pensiero e come metodo, ma anche come dottrina (6), secondo cui le diverse religioni e tradizioni spirituali offrono, nella loro veste pubblica ed “essoterica”, soltanto verità parziali e relative, mentre le verità più profonde che si situano al livello “esoterico” e segreto — per quanto siano “perenni”, da cui il nome di perennialism, “perennialismo”, dato nei paesi di lingua inglese alla principale corrente che rivendica la natura dottrinale dell’esoterismo —, rimangono inaccessibili al pensiero logico e possono essere accostate soltanto attraverso le corrispondenze, i simboli, l’analogia e l’immaginazione. Questo modo di intendere l’esoterismo — particolarmente nella sua versione perennialist — deve molto alla psicologia del profondo di Carl Gustav Jung (1875-1961).
Esiste anche un altro tipo di relativismo che serve, per così dire, da materia prima — e insieme da giustificazione che si pretende scientifica — per tutti gli altri relativismi che ho avuto occasione di menzionare. Si tratta del relativismo culturale, qualche volta definito “relativismo antropologico”, forse meno precisamente dal momento che i suoi sostenitori non sono soltanto antropologi, né si tratta di un punto di vista che tutta l’antropologia accademica contemporanea condivide. Secondo questa prospettiva la nozione di verità — nonché qualunque forma di criterio di giudizio o di valore — sono culturalmente determinate: nascono e vivono all’interno di una determinata cultura, al di fuori della quale non hanno né significato né utilità. Pertanto, se può essere — entro certi termini — legittimo formulare giudizi in termini di verità e di valore all’interno di una cultura specifica — per esempio la cultura occidentale e cristiana —, è totalmente fuorviante e inutile utilizzare criteri nati all’interno di una cultura per valutare o giudicare aspetti di culture diverse. Inoltre — si aggiunge volentieri oggi — non è “politicamente corretto”, e si risolve facilmente in una forma di imperialismo culturale, in quanto la cultura occidentale — che controlla largamente i mezzi di comunicazione e il mondo accademico internazionale — si serve semplicemente della sua posizione di forza per criticare e svalutare culture diverse. Naturalmente il relativismo culturale rende impossibili confronti significativi non solo nello spazio, ma anche nel tempo: così, per esempio, sarebbe privo di senso emettere oggi giudizi morali negativi sulla schiavitù nel mondo greco-romano o sul sacrificio umano nelle culture pre-colombiane, perché si tratterebbe ancora una volta di un tentativo di applicazione transculturale di criteri etici, applicazione che secondo il relativismo culturale è per definizione impossibile.
Il relativismo culturale è stato formulato nei suoi termini classici dall’antropologia positivista anglo-americana dell’Ottocento; una sua versione parzialmente diversa è stata proposta nel nostro secolo dallo strutturalismo, una filosofia che — com’è noto — ha avuto un particolare successo fra gli antropologi, soprattutto al di fuori del mondo di lingua inglese. Il relativismo degli strutturalisti è, per certi versi, più radicale ancora in quanto ritiene che sia possibile conoscere in modo adeguato soltanto le relazioni fra gli elementi di un sistema, ma non gli elementi di per sé stessi (7). Del relativismo culturale si è largamente servito — com’era facile prevedere — il relativismo razionalista. Ma se ne serve volentieri anche il relativismo volontarista, con facilità nella versione del New Age — dal momento che è agevole passare dalla non comparabilità fra le culture alla non comparabilità fra i mondi che ciascuno si crea — e, con maggiori incertezze, nella prospettiva esoterica, particolarmente nella versione perennialist. Capita infatti talora che autori della corrente perennialist — tipico è il caso dello studioso di scienze religiose Huston Smith — critichino in modo esplicito certe formulazioni del relativismo culturale che — intese in senso rigoroso — indurrebbero a considerare priva di senso anche la ricerca di un fondo “perenne” esoterico dietro le vesti “essoteriche” delle grandi religioni. Tuttavia — mentre per altri versi lo critica — la prospettiva perennialist si serve abbondantemente del relativismo culturale nel tentativo di demolire la pretesa di ciascuna prospettiva “essoterica” — e in particolare del cristianesimo — di essere universalmente valida e quindi esportabile al di fuori della sua cultura di origine (8). Naturalmente, il relativismo culturale — per essere credibile — non può limitarsi a enunciare teorie, ma deve fornire dati empirici ed esempi specifici. Uno degli esempi preferiti dal relativismo culturale — suscettibile, fra l’altro, di essere presentato con toni “forti”, che suscitano l’emozione e l’indignazione dei lettori — è quello degli indiani dell’America del Nord (9). Queste popolazioni sono state certamente vittima, nell’Ottocento, di un genocidio fisico. Centinaia di migliaia di indiani dell’America Settentrionale sono morti nel secolo scorso o perché sono stati semplicemente uccisi in massacri o in “guerre” dove la sproporzione tecnologica fra le due parti rendeva l’esito tragicamente scontato, o perché sono stati privati dei mezzi di sussistenza (10). A fronte di questa autentica tragedia sarebbe certamente interessante un’indagine culturale a proposito del diverso trattamento subìto dalle popolazioni pre-colombiane nell’America del Nord anglofona e, rispettivamente, nell’America Latina, e dell’atteggiamento radicalmente diverso della letteratura protestante e cattolica in tema di popolazioni “primitive”. Più che a questo genere d’indagini il relativismo culturale sembra interessato a un parallelo fra il genocidio fisico e quello che definisce genocidio culturale — o “etnocidio” —, che sarebbe consistito nello sradicamento delle tradizioni religiose degli indiani d’America, sostituite “a forza” dal cristianesimo. In base ai suoi presupposti il relativismo culturale non contesta soltanto il metodo delle missioni, o di alcune missioni, presso gli indiani, ma nega la legittimità stessa dell’impresa missionaria. D’altro canto — concluderà il relativista culturale — i fatti, per quanto riguarda gli indiani d’America, dimostrano empiricamente la tesi dell’incomunicabilità fra le culture, dal momento che il tentativo di cristianizzare queste popolazioni è largamente fallito. Le voci più nobili del mondo indiano non hanno accettato il cristianesimo e si limitano a lamentare tragicamente la progressiva distruzione della loro cultura. Benché nata con intenti diversi, la letteratura sugli indiani d’America è stata largamente utilizzata anche dal relativismo “esoterico” della scuola perennialist, che d’altro canto considera la tradizione religiosa degli indiani — venuti in contatto molto tardi con la civiltà occidentale — come un esempio unico di tradizione religiosa “pura” e non contaminata (11).
2. “Alce Nero”: gli anni giovanili, 1863-1890
Nicholas Black Elk (1866-1950), un sioux di una tribù dei lakota, è stato celebrato da esponenti della corrente perennialist come “uno dei più influenti maestri spirituali del ventesimo secolo” (12); anche specialisti accademici di storia delle religioni hanno concluso recentemente che — non soltanto nel suo ambiente culturale di origine — si tratta di un personaggio “venerato come uno dei più grandi santi che siano mai nati” (13). In Italia il suo nome è stato tradotto in “Alce Nero”, secondo una pratica — peraltro — contro cui molti indiani protestano dal momento che, dalla fine del secolo scorso, i nomi degli indiani d’America — originariamente soprannomi individuali — si sono trasformati in cognomi trasmessi nelle famiglie così come avviene per ogni altro cognome: così, la figlia di Nicholas Black Elk era nota come Lucy Black Elk fino al suo matrimonio con Leo Looks Twice, in seguito al quale cominciò a firmare Lucy Looks Twice — letteralmente “Lucy Guarda due volte” ma ormai, come accennato, i cognomi indiani vengono sempre più raramente “tradotti”.
Perché, precisamente, Nicholas Black Elk — o “Alce Nero” — è così famoso? Nicholas Black Elk nasce probabilmente nel 1866 — non esistono documenti anagrafici ma la data sulla sua pietra tombale, 1858, e quella più comunemente citata, 1863, sembrano entrambe errate — in una tribù, gli oglala, che si spostava lungo il fiume Little Powder, all’interno dell’attuale Stato del Wyoming. Gli oglala costituiscono una delle sette tribù dei lakota, che sono a loro volta — insieme ai dakota e ai nakota — una delle tre branche della popolazione nota come sioux (14). A nove anni — secondo uno schema che si ritrova in molte culture — il giovane Nicholas Black Elk si sentì “chiamato” attraverso un sogno a intraprendere l’attività di “guaritore”, pejuta wikasa nel dialetto degli oglala, comunemente tradotto “uomo medicina” come analoghe espressioni di altre lingue amerinde.
Come la letteratura scientifica sui sioux ha da lungo tempo mostrato (15), l’identificazione dei vari personaggi che in qualche modo nel mondo sioux venivano in contatto con il sacro sotto un’unica etichetta — “uomini medicina” o “stregoni” — è certamente fuorviante. La cultura sioux conosceva da una parte il pejuta wikasa, che si occupava di incantesimi e di guarigioni con riti piuttosto magici che religiosi, dall’altra il wikasa wakan — letteralmente “sant’uomo” —, che celebrava invece rituali prevalentemente religiosi. Nel linguaggio sioux dei nostri giorni i termini si sono confusi, ma erano ben distinti all’inizio del secolo. Il wikasa wakan era un personaggio assai più raro — e più rispettato — rispetto al pejuta wikasa. Un residuo linguistico attuale della distinzione consiste nel fatto che — benché in seguito siano stati introdotti altri termini — per diversi decenni i sioux, riferendosi agli uomini bianchi hanno chiamato pejuta wikasa i medici e wikasa wakan i sacerdoti e pastori cristiani (16). Inoltre, chi voleva diventare un pejuta wikasa nella tradizione oglala non poteva immediatamente intraprendere questa carriera, ma doveva iniziare le sue attività come heyoka — letteralmente “pagliaccio” —, recitando ruoli comici in occasione delle feste magico-religiose della tribù. Questa circostanza non è sorprendente se si considera l’importanza della figura — insieme religiosa e comica — del trickster, del personaggio “che fa trucchi”, nella religiosità degli indiani d’America in generale, e per la verità anche di altre popolazioni (17). Nicholas Black Elk dovette quindi cominciare dalla più modesta posizione di heyoka, che del resto includeva alcune pratiche del rituale sciamanico detto yuwipi che fu ammesso dalla sua tribù a praticare quando, nel 1881 — dopo l’apprendistato come heyoka —, venne riconosciuto come pejuta wikasa. L’attività del pejuta wikasa era esercitata a titolo di lucro, e Nicholas Black Elk entrò in società con un altro indiano della sua tribù chiamato Joe Kills Enemy (18). Queste attività si protrassero dal 1881 al 1886: è in questi anni che, manipolando polvere da sparo — non è ben chiaro, o meglio dai documenti emergono versioni diverse, se semplicemente per andare a caccia o per aggiungere nuovi effetti alle cerimonie yuwipi —, Nicholas Black Elk fu vittima di un incidente agli occhi che lo portò in seguito a perdere progressivamente la vista. Benché la pratica yuwipi — ancora largamente diffusa — in quegli anni stesse cadendo in discredito — molti erano accusati di praticarla per puro lucro e senza sincerità — Nicholas Black Elk si conquistò nella sua tribù una notorietà sufficiente perché il famoso William Cody, “Buffalo Bill” (1846-1917), che cercava nelle riserve indiani “caratteristici” da far esibire a pagamento nei teatri d’America e d’Europa, nel 1886 gli proponesse di entrare a far parte, con una buona paga, del suo Wild West Show, con il quale Nicholas Black Elk viaggiò per tutti gli Stati Uniti d’America e per diversi paesi europei — fra cui l’Italia e l’Inghilterra, dove si esibì di fronte alla regina Vittoria — nel periodo dal 1886 al 1889, acquistando così una conoscenza di mondi lontani dalle riserve che pochi uomini della sua tribù potevano avere.
Nel 1889 — terminata la tournée internazionale del Wild West Show — Nicholas Black Elk ritornò presso la sua tribù nella riserva di Pine Ridge, nello Stato del South Dakota. Riprese la sua attività di pejuta wikasa — più famoso di prima, a causa del suo viaggio —, ma potè assistere anche a fenomeni religiosi di carattere del tutto diverso. Al momento del suo ritorno anche nella sua riserva si era infatti diffuso un nuovo movimento religioso fondato nel 1888 nello Stato dello Utah da un profeta della tribù dei paiute, Wovoka (1856-1932), e chiamato dagli osservatori bianchi Ghost Dance, “Danza degli Spiriti”. Questo movimento religioso sincretistico — che includeva anche temi cristiani — si diffuse in modo rapidissimo in tutti gli Stati Uniti d’America e, dallo Utah, raggiunse anche i lontani sioux. La Ghost Dance era un movimento di tipo apocalittico e millenarista, che attendeva la fine del mondo presente e la restaurazione degli indiani in uno stato di felicità primordiale, ma — nella sua versione originale paiute — era insieme pacifista e non violento, e dichiarava che gli indiani non avrebbero potuto entrare nel loro regno millenario se non si fossero astenuti da ogni atto di violenza contro l’uomo bianco. Importata presso i sioux, la Ghost Dance prese — almeno nelle sue espressioni esterne — un tono più bellicoso, conforme alle tradizioni di un popolo che aveva sempre tratto vanto dal suo valore militare. Benché le interpretazioni degli storici non siano unanimi, è prevalente l’opinione secondo cui nessuno fra i capi sioux della Ghost Dance aveva veramente intenzione di tradurre in atto i propositi bellicosi che risuonavano nelle danze e nei canti del movimento. La fama di irrequietezza dei sioux fu peraltro sufficiente per convincere le autorità civili e militari degli Stati Uniti d’America che si stava preparando una rivolta, e che tutte le attività del movimento dovevano essere vietate e represse con la forza. Dopo che la repressione militare della Ghost Dance aveva già fatto diversi morti, nei giorni intorno al Natale del 1890 un gruppo di lakota che continuava a praticare la Ghost Dance — oltre trecento fra uomini, donne e bambini — venne circondato dal Settimo Cavalleggeri statunitense e invitato a consegnarsi senza condizioni. Il 29 dicembre il Settimo Cavalleggeri entrò nell’accampamento dei lakota a Wounded Knee senza combattere. Le ricostruzioni degli avvenimenti di Wounded Knee sono conflittuali e spesso di parte. Sembra che un incidente isolato, dove un solo lakota avrebbe sparato in aria, abbia causato l’immediata reazione dei soldati, presto degenerata in un massacro di uomini, donne e bambini a cui riuscirono a sfuggire solo pochi superstiti (19). Fra i sopravvissuti al massacro di Wounded Knee — attribuito da molti storici anche al desiderio del Settimo Cavalleggeri di vendicare la sconfitta di Little Big Horn — si contava Nicholas Black Elk, anche se è del tutto mitologico che abbia pronunciato in quell’occasione le famose parole “Oggi è una buona giornata per morire”; questa frase venne invece pronunciata da suo cugino Crazy Horse, in un episodio precedente (20). Le proteste di una parte dell’opinione pubblica dopo il massacro di Wounded Knee — che determinò in ogni caso la fine della Ghost Dance presso i lakota — convinsero il governo degli Stati Uniti d’America a non infierire contro i superstiti. Nicholas Black Elk potè riprendere la sua attività di pejuta wikasa e si sposò con una donna chiamata Katie War Bonnet che, prima di morire nel 1901, gli diede tre figli, di cui soltanto uno, Ben, sopravvisse alle malattie infantili.
3. “Alce Nero parla”: storia di una mistificazione
La storia di Nicholas Black Elk fino al massacro di Wounded Knee — cioè dei primi ventisette anni della sua vita — è nota a milioni di persone che hanno letto un volume dal titolo Alce Nero parla, di cui è autore il poeta del Nebraska John Gneisenau Neihardt (1881-1973), pubblicato per la prima volta nel 1932 (21). John G. Neihardt — destinato a diventare uno dei più noti poeti regionali americani — non era un antropologo, e non parlava nessuno dei dialetti sioux. In compenso riteneva il cristianesimo responsabile di tutti i mali non soltanto degli indiani d’America, ma anche della civiltà occidentale (22). Il poeta ebbe una serie di colloqui con Nicholas Black Elk tramite un interprete, Emil Afraid of Hawk, che fu presto sostituito nel suo ruolo dal figlio di Nicholas Black Elk, Ben. Nel corso di due visite, nel 1930 e nel 1931, John G. Neihardt riempì vari taccuini che si trovano attualmente alla University of Missouri Library di Columbia, nel Missouri, e che sono stati pubblicati nel 1984 da un suo ammiratore, Raymond G. DeMallie (23). Nicholas Black Elk non era illetterato — sapeva scrivere e leggere qualche parola in inglese, e utilizzare una trascrizione in caratteri latini della lingua lakota —, ma non poteva leggere il libro di John G. Neihardt. La figlia Lucy Looks Twice (1907-1978) — che aveva avuto da un secondo matrimonio con una vedova, Anna Brings White, sposata, dopo la morte della prima moglie Katie, nel 1905 — sapeva leggere l’inglese e così altre persone con cui Nicholas Black Elk era in contatto. Quello che gli lessero fu sufficiente per fargli redigere, il 26 gennaio 1934, una dichiarazione in lingua lakota in cui accusava John G. Neihardt di aver alterato quanto gli era stato raccontato e, soprattutto, di aver omesso particolari che Nicholas Black Elk considerava essenziali (24). Di fronte al silenzio del poeta, Nicholas Black Elk scrisse una seconda “lettera aperta” il 20 settembre 1934 in cui chiamava senza mezzi termini John G. Neihardt “un bugiardo” e il libro “nullo e di nessun valore”. Dichiarava pure che aveva dedicato il suo tempo a John G. Neihardt anche perché gli era stato promesso un compenso in denaro, che avrebbe aiutato la sua famiglia — certamente non ricca —, ma che, dopo tre anni, non aveva ancora visto ed era destinato a non vedere mai. In uno stile semplice ma efficace, Nicholas Black Elk commentava: “Il denaro contante parla. Come non ha detto la verità sulla mia vita religiosa […] così non ha mantenuto la sua promessa di pagare” (25). Molti anni più tardi, quando l’antropologo Joseph Epes Brown (n. 1920) entrò a sua volta in contatto con Nicholas Black Elk e interrogò John G. Neihardt, il poeta ammise che Alce Nero parla era semplicemente “basato” sulle conversazioni con Nicholas Black Elk e che molto materiale, sia nei taccuini del 1930-1931 sia nel volume pubblicato, proveniva “da altre fonti”. Anche quanto proveniva effettivamente da Nicholas Black Elk era stato “grandemente abbellito”(26). Su consiglio dell’antropologo, il poeta del Nebraska accettò di modificare il sottotitolo di Alce Nero parla, cambiando “la vita di un sant’uomo dei sioux oglala raccontata a [to] John G. Neihardt” in “raccontata attraverso [through] John G. Neihardt” nella seconda edizione del 1972, differenza di grande rilievo, ma non facilmente percepibile dai lettori (27).
Perché Nicholas Black Elk, nel 1934, reagiva così male al libro di John G. Neihardt? Dopo tutto, si potrebbe dire, non si trattava del primo caso in cui un poeta si serve della licenza detta appunto “poetica” nel raccontare le vicende di qualcun altro. In questo caso, tuttavia, vi era molto di più. Benché alcune informazioni sulla vita degli oglala e sulle attività giovanili di Nicholas Black Elk come sciamano yuwipi siano esatte, l’opera è largamente un parto della fantasia di John G. Neihardt, forse con qualche contributo di Ben Black Elk che, solo fra i membri della sua famiglia, aveva idee religiose parzialmente diverse da quelle del padre. I taccuini pubblicati da Richard J. DeMallie sono già di per sé notevolmente diversi dal volume; ma — come abbiamo visto — il poeta del Nebraska ha ammesso che anche il materiale nei taccuini proviene solo parzialmente da Nicholas Black Elk e — quanto può essere in qualche modo attribuito a quest’ultimo — è stato “grandemente abbellito”. Questo vale certamente per la grande visione che Nicholas Black Elk avrebbe avuto a nove anni e che è il cuore stesso del libro. Alla sua famiglia Nicholas Black Elk ne raccontò una versione molto più semplice: un sogno di chiamata alla funzione di pejuta wikasa, certo particolarmente suggestivo ma tutt’altro che inconsueto nella sua cultura. La visione include, fra l’altro, una serie di numeri su cui gli esoteristi che hanno letto Alce Nero parla si sono compiaciuti di speculare. Peccato — come notò lo stesso esponente lakota quando gli furono letti questi brani del volume — che a nove anni Nicholas Black Elk non conoscesse i numeri e non sapesse contare (28)! Giacché la natura dell’operazione di John G. Neihardt è, nella sua sostanza, nota da diversi anni — anche se solo la biografia di Michael F. Steltenkamp, pubblicata nel 1993, ha risolto in modo definitivo, con l’aiuto di documenti originali, molti problemi sulla vita di Nicholas Black Elk —, si rimane perplessi quando si legge in quarta di copertina della terza edizione italiana, del 1992, di Alce Nero parla un giudizio dell’esoterista professor Elémire Zolla secondo cui “il santo asceta a nove anni […] riceve una stupenda visione […] che non potrebbe certo arridere ad una fantasia esclusivamente umana. Al paragone l’Apocalissi [sic] è più arida, emblematizzante”.
Il volume di John G. Neihardt costituisce tecnicamente un “falso” non soltanto per quello che descrive, ma soprattutto per quello che tralascia. Nicholas Black Elk si è costantemente lamentato della sistematica esclusione da parte del poeta del Nebraska di qualunque elemento di valutazione e di giudizio sulle sue esperienze magico-religiose giovanili, che pure non aveva mancato di trasmettergli, e soprattutto di qualunque accenno agli ultimi trent’anni della sua vita precedenti alla pubblicazione del libro. Infatti, dopo la tragedia di Wounded Knee, Nicholas Black Elk sembra essersi trovato sempre più a disagio per le sue pratiche di sciamanismo yuwipi. Qualche anno prima del massacro si era verificato un episodio importante per l’intera vicenda di Nicholas Black Elk. A partire dal 1886, nel territorio dei sioux, erano arrivati missionari cattolici gesuiti dalla Germania e dalla Svizzera. È interessante notare che i sioux stessi chiesero al governo americano di mandare nel loro territorio le “vesti nere”, sinasapa — cioè i sacerdoti cattolici che vestivano la talare, in particolare i gesuiti —, e non più i missionari protestanti episcopaliani e presbiteriani. Molti storici hanno visto in queste richieste — largamente concesse dal governo dopo Wounded Knee — una mossa esclusivamente politica, giacché i missionari cattolici — a differenza di quelli protestanti — non predicavano la “religione civile” americana e non svolgevano un’apologia sistematica delle istituzioni degli Stati Uniti d’America, che per i sioux erano responsabili del massacro di troppi parenti e amici. Naturalmente, questo diverso orientamento politico si radica in dottrine sociali — e anche teologiche — diverse in campo protestante e cattolico e ha quindi pure una valenza specificamente religiosa (29). Dal 1887 la missione di Pine Ridge era evangelizzata da padre Joseph Lindebner (1845-1922), nativo di Magonza, chiamato dagli indiani Ate Ptecela, “Piccolo Padre”, con riferimento anche alla bassa statura, e venerato come un santo. A poco a poco molti amici di Nicholas Black Elk, toccati dalla predicazione del gesuita tedesco, iniziarono a convertirsi al cattolicesimo. Nel 1904 si verificò l’episodio cruciale. Nicholas Black Elk fu chiamato a svolgere le sue attività di guaritore presso un ragazzo morente — un cattolico — nel villaggio di Payabya. Nicholas Black Elk si dispose a iniziare un rituale con gli strumenti yuwipi: il sonaglio e il tamburo. Dopo qualche minuto padre Joseph Lindebner arrivò nella tenda dove giaceva il ragazzo malato. Senza troppe cerimonie, il gesuita gettò — in parte nel fuoco, in parte fuori dalla tenda — quanto Nicholas Black Elk aveva preparato, lo prese per la collottola e lo espulse esclamando: “Vattene, Satana!”. Secondo quanto Nicholas Black Elk raccontò in seguito alla sua famiglia, mentre il sacerdote amministrava gli ultimi sacramenti al ragazzo morente, egli rimase seduto fuori dalla tenda, convinto di avere in quel momento “perduto tutti i suoi poteri”. Padre Joseph Lindebner, uscendo dalla tenda, lo trovò in questo stato e lo invitò a salire sul suo carro, conducendolo alla Missione del Rosario dove gli offrì ospitalità. Il guaritore e il gesuita conversarono regolarmente per due settimane, alla fine delle quali il sioux chiese il battesimo. Fu battezzato il 6 dicembre 1904, festa di san Nicola, di cui prese il nome. Nelle parole della figlia: “[…] abbandonò la sua pratica di guaritore e non la riprese mai più” (30).
Quando Michael F. Steltenkamp — il primo antropologo che ha potuto lavorare sui manoscritti originali di Nicholas Black Elk, della sua cerchia di amici e della sua famiglia, pubblicando nel 1993 una biografia dell’esponente lakota — ascoltò per la prima volta il racconto della conversione, alla presenza della figlia del sant’uomo sioux, si sentì avvilito, “[…] giacché la storia sembrava confermare lo stereotipo popolare del missionario maleducato che aggredisce l’ingenuo nativo”. Padre Joseph Lindebner gli sembrava “uno zelota dalla mentalità ristretta che voleva distruggere la cultura indiana […] e che aveva ben poco di quella che oggi chiameremmo compassione, sensibilità culturale o ecumenismo”. Questa reazione dell’antropologo, tuttavia, stupì i sioux che lo ospitavano, che al contrario “[…] ridevano e sorridevano mentre l’incidente veniva raccontato. Qui c’era una bella storia e un racconto umoristico […] e stranamente soltanto [l’uomo bianco] rimaneva silenzioso e privo di espressione!” (31). Al professor Steltenkamp occorse qualche anno per capire le ragioni dell’atteggiamento della figlia e degli amici di Nicholas Black Elk e perché quest’ultimo assicurava di non essersi affatto “arrabbiato” (32) di fronte alla reazione apparentemente rude del gesuita. Dalle parole stesse di Nicholas Black Elk è evidente che nel 1904 egli continuava a guadagnarsi da vivere con lo yuwipi, ma non credeva più in quello che faceva. Qualche anno più tardi, quando gli venne chiesto un giudizio sullo yuwipi, rispose testualmente: “È una cosa tutta priva di senso esattamente come i maghi che avete presso gli uomini bianchi. È proprio la stessa cosa. Non va confusa con il pregare con la pipa, che è una cosa molto più importante. Se un uomo prega con la pipa, spinge gli altri uomini a pregare con lui. Ma quest’altra cosa, lo yuwipi, è fare come fanno i maghi, che tentano di ingannare. Lo so perché l’ho fatto io stesso” (33). In seguito, Nicholas Black Elk si convinse che se qualcuno dei suoi ritiyuwipi aveva avuto qualche efficacia e “potere”, questo poteva venire soltanto dal Demonio. In questi giudizi Nicholas Black Elk rivela una notevole capacità di distinguere fra gli aspetti magici dei riti yuwipi e le tradizioni specificamente religiose relative alla “sacra pipa” portata ai lakota da una “Donna-Bisonte Bianca”, che sarebbe riapparsa alla fine dei tempi (34). Questa distinzione era fatta propria dagli stessi gesuiti. Missionari come Joseph Lindebner, Eugene Buechel (1874-1954) — leggendario per la sua perfetta conoscenza dei dialetti sioux — e Placidus Sialm (1872-1940) — un gesuita svizzero che ha lasciato nel suo diario preziosi riferimenti agli incontri fra Nicholas Black Elk e John G. Neihardt — da una parte trattavano in modo estremamente severo la magiayuwipi, ritenendola una frode ovvero opera del Demonio, dall’altra raccoglievano con grande rispetto le tradizioni più specificamente religiose sulla Donna-Bisonte Bianca e sulla sacra pipa. Benché questa dottrina non sia mai stata insegnata come “ufficiale”, i diari e gli appunti di predicazione dei gesuiti che lavorarono presso i lakota nella prima parte del nostro secolo, conservati presso la Marquette University, rendono chiaro che molti di loro erano convinti che la Donna-Bisonte Bianca fosse davvero apparsa agli indiani un certo numero di secoli prima dell’arrivo dei missionari per prepararli misteriosamente al futuro incontro con il cristianesimo, e che si trattasse in realtà della Vergine Maria (35).
D’altro canto i missionari gesuiti dimostravano una notevole capacità di identificare persone dotate di un naturale carisma e bene informate sulle tradizioni religiose del proprio popolo, educandole a diventare catechisti e missionari laici a tempo pieno. Fra questi, subito dopo la conversione, venne scelto Nicholas Black Elk, che si rivelò un missionario straordinariamente efficace e che svolse a tempo pieno l’attività di catechista anche presso tribù che vivevano molto lontano dalla sua zona di origine. Nicholas Black Elk riceveva un piccolo stipendio dalla Chiesa, ma tutti i documenti sulla sua vita rendono chiaro che i motivi della sua attività erano principalmente spirituali. Nicholas Black Elk pronunciava spesso l’omelia nella Messa — particolarmente quando il sacerdote presente non era in grado di esprimersi nella lingua locale — e divenne noto fra gli indiani cattolici come un eccellente predicatore e un organizzatore di ritiri e di incontri religiosi. I temi centrali della sua predicazione ruotano intorno al Rosario, al Sacro Cuore e a un disegno delle “due vie” che conducono rispettivamente al Paradiso e all’Inferno — largamente utilizzato dai missionari gesuiti fino a un’epoca recente anche in Africa e in Asia — che Nicholas Black Elk considerava particolarmente adatto alla spiritualità degli indiani. Nicholas Black Elk, d’altro canto, non aveva paura delle polemiche. Diversi documenti pubblicati da Michael F. Steltenkamp descrivono vivaci scambi di opinioni con missionari protestanti — soprattutto per difendere il culto cattolico alla Madonna, di cui era devotissimo — e una lunga lotta contro il nuovo movimento religioso sincretistico del Peyote, tuttora presente presso gli indiani e che mescola elementi cristiani con altri tratti dalle tradizioni locali e con l’uso rituale di allucinogeni (36).
Nel 1941, dopo la morte della seconda moglie, Nicholas Black Elk si ritirò dalle sue attività di catechista e predicatore. Nell’ultimo periodo della sua vita — qualche anno prima di morire nel 1950 — Nicholas Black Elk si esibì qualche volta in uno spettacolo turistico, il Duhamel’s Sioux Indian Pageant, che ricreava scene della vita tribale e religiosa dei sioux di un tempo. Secondo la figlia Lucy si trattava “solo di una recita” e non di un’attività in qualche modo “religiosa”. La sua famiglia del resto era sempre in difficoltà economiche, e Nicholas Black Elk cercava di “guadagnare ancora qualcosa” (37). Vi sono d’altronde numerose testimonianze che ci mostrano Nicholas Black Elk, negli ultimi anni della sua vita, come un uomo profondamente cristiano. Nonostante la salute incerta non rinunciò fino alla morte a dirigere la preghiera quotidiana della famiglia: una famiglia estesa secondo le tradizioni indiane, con nipoti e cugini. Negli anni 1948-1949, molto malato e dopo un infarto, ricevette tre volte l’Estrema Unzione. Tornato a casa continuava a esortare i familiari: “Non perdete un giorno trascurando di pregare. Dio si prenderà cura di voi e vi ricompenserà per questo. Dite anche il Rosario, perché è una delle preghiere potenti presso la Madre di Nostro Signore” (38). Negli ultimi mesi della sua vita sopportò le sofferenze che precedettero la morte — sopravvenuta il 17 agosto 1950 — in modo particolarmente esemplare. Negli ultimi giorni diceva alla figlia: “Non preoccuparti, c’è un uomo che viene a trovarmi tutti i giorni alle tre. Viene da oltreoceano e prega con me — e io prego con lui. È un uomo di Dio” (39). Nicholas Black Elk era solito usare l’espressione “uomo di Dio”per riferirsi a un gesuita, e la figlia non esclude che il malato possa essere stato effettivamente visitato qualche volta da un padre gesuita. Altri familiari e amici pensano invece che all’infermo apparissero i primi missionari gesuiti che avevano evangelizzato gli oglala, morti da molti anni, che Nicholas Black Elk aveva conosciuto. Quando morì — come aveva predetto — “il cielo— secondo la testimonianza di un fratello laico gesuita presente all’evento, William Siehr — era un’unica luce radiosa. Non ho mai visto nulla di così magnifico” (40). L’antropologo Joseph E. Brown, per altri versi reticente sulle esperienze di Nicholas Black Elk nel suo periodo cattolico, ricordava in un’intervista non solo la grande devozione dell’anziano lakota — che anche in città, al ristorante, non dimenticava di pregare ad alta voce prima di mangiare e di benedire la mensa —, ma pure che Nicholas Black Elk gli aveva predetto che “un segno in cielo” avrebbe annunciato la sua morte. Secondo l’antropologo si trattava di una “profezia vera” perché da indagini successive potè appurare che un cielo luminoso in un modo inspiegabile era stato visto da centinaia di persone nella riserva di Pine Ridge la notte della morte del catechista (41).
4. Alcune conclusioni
L’antropologo Joseph E. Brown — che ho avuto ripetutamente occasione di evocare —, ispirato dal volume di John G. Neihardt — di cui aveva stima —, si recò subito dopo la seconda guerra mondiale nella riserva di Pine Ridge per raccogliere qualche ricordo di Nicholas Black Elk da persone che lo avessero conosciuto in vita. John G. Neihardt lo aveva infatti raffigurato nel suo volume del 1932 come un uomo molto anziano, sconfitto, disperato per la fine della sua religione sradicata dai bianchi e che attendeva soltanto di morire. L’antropologo riteneva pertanto, nel 1945, che fosse morto da molto tempo. Con sua sorpresa lo trovò vivo e vegeto, malato ma ancora attivo nella vita della sua parrocchia, e ancora arrabbiato con John G. Neihardt. Joseph E. Brown gli propose allora di descrivergli la parte che riteneva più valida della tradizione religiosa lakota, collegata alla Donna-Bufalo Bianca e alla sacra pipa. Ne nacque un volume pubblicato nel 1953, La sacra pipa, nel quale l’antropologo inserì una premessa firmata da Nicholas Black Elk in cui, quanto meno, il catechista dichiarava di sapere “che è vero” che “Dio mandò suo Figlio agli uomini per ristabilire l’ordine e la pace sulla terra” e che “Gesù Cristo fu crocifisso ma che ritornerà al Giudizio Finale, alla fine di questo mondo o ciclo” (42). Peraltro anche in questo volume — pubblicato dopo la morte di Nicholas Black Elk, e certamente più fedele a quanto aveva potuto raccontare della vita antica dei lakota rispetto ad Alce Nero parla— non si faceva parola dei quarantasei anni di vita cattolica di Nicholas Black Elk, degli oltre trent’anni trascorsi come missionario e catechista, della sua fama di santità e della sua devozione, che pure l’antropologo conosceva. Inoltre Joseph E. Brown — che pure negli stessi anni protestava corrispondendo con John G. Neihardt a proposito delle manipolazioni di quest’ultimo — non ritenne opportuno attaccarlo; anzi, raccomandò il suo volume e inserì brani che sembravano accreditare come in qualche modo “autentico” il resoconto del poeta del Nebraska. La stessa premessa attribuita a Nicholas Black Elk gli fa utilizzare espressioni come “fine di questo […] ciclo”, certamente più familiari agli ambienti perennialist con cui Joseph E. Brown — amico personale dell’esoterista Frithjof Schuon (43) — era entrato in contatto di quanto non lo fossero all’anziano ex catechista lakota e può lasciare l’impressione che “Nicholas Black Elk conoscesse solo superficialmente la dottrina cristiana”, impressione certamente falsa (44).
L’ultimo commento che ho riportato è di Michael F. Steltenkamp — attualmente professore di antropologia al Bay Mills Community College di Brimley, nello Stato del Michigan —, a suo tempo allievo dello stesso Joseph E. Brown. Quando, nel 1970, Michael F. Steltenkamp iniziò la sua raccolta di materiale originale sulla vita di Nicholas Black Elk — finalmente pubblicata, come accennato, nel 1993 — Joseph E. Brown, quasi vent’anni dopo la pubblicazione del suo La sacra pipa, ne incoraggiò il lavoro. Sembra che l’autore di La sacra pipa (45) avesse qualche senso di colpa per avere in qualche modo coperto l’operazione discutibile di John G. Neihardt e per avere consapevolmente sottaciuto aspetti essenziali dell’esperienza di Nicholas Black Elk per non mettere in discussione una certa immagine stereotipa della vita degli indiani. Egli scrisse al suo allievo Michael F. Steltenkamp di avere “[…] sempre sentito come qualcosa di sconveniente che questa fase [cioè la fase cattolica] della vita di Nicholas Black Elk non fosse stata presentata da Neihardt e per la verità nemmeno da me. Credo sia avvenuto perché in qualche modo si pensava che la sua vita cristiana compromettesse la sua “indianità”, ma oggi non la penso così e penso che sia ora di presentare finalmente la verità” (46). D’altro canto il libro di Joseph E. Brown venne pubblicato in un momento particolare, in cui il precedente Alce Nero parla era stato “scoperto” da una parte da un movimento “indigenista” militante, aggressivamente anticristiano (47), e dall’altra dalla correnteperennialist e di un pensatore che ha influenzato gli esponenti anglofoni di quest’ultima, Carl Gustav Jung. La fama di Alce Nero parla si diffuse — all’interno e all’esterno della corrente perennialist — grazie ai convegni di Eranos, tenuti ad Ascona, in Svizzera, e Alce Nero parla divenne una “prova” sia del teorema relativistico dell’incomunicabilità fra le culture, sia delle caratteristiche magico-sacre della tradizione indiana “genuina” e “primitiva”. In questa chiave lo utilizzarono Mircea Eliade, Frithjof Schuon, Joseph Campbell (48), tutti senza sapere — o forse senza voler sapere — che quella di John G. Neihardt era stata, semplicemente, una mistificazione. In questo clima Joseph E. Brown — che pure aveva conosciuto personalmente Nicholas Black Elk, e aveva scoperto come stavano davvero le cose — non si sentì di smentire tanti colleghi accademici più autorevoli e famosi di lui. Si può sperare che la pubblicazione nel 1993 dell’opera di Michael F. Steltenkamp, per molti versi definitiva, faccia cessare le manipolazioni della figura di Nicholas Black Elk, la inquadri nelle sue reali dimensioni di cattolico esemplare e permetta di denunciare Alce Nero parla come un’opera che deriva largamente dalla fantasia e dai pregiudizi di John G. Neihardt. Se si riflette bene sull’episodio non si può non considerare quasi incredibile che la mistificazione di John G. Neihardt sia potuta continuare per decenni; sembra quindi opportuna, sul punto, qualche riflessione conclusiva.
a. Nell’inventario delle ingiustizie e delle violenze subite dagli indiani d’America sarebbe opportuno includere — anche perché si tratta di episodi che continuano ancora oggi — la falsificazione della loro esperienza religiosa e la manipolazione della vita dei loro leaderspirituali, distorcendo la realtà per farla corrispondere all’immagine “corretta” dell’indiano elaborata in qualche laboratorio del relativismo culturale moderno. L’operazione di John G. Neihardt — come la definiva nel suo diario il gesuita missionario Placidus Sialm — costituisce “uno dei peggiori sfruttamenti che si siano mai verificati a spese di un indiano”(49). “Un uomo bianco — scrive Nicholas Black Elk nella sua prima dichiarazione del 1934 —, fece un libro e disse ciò che gli avevo detto dei vecchi tempi, ma i nuovi tempi li lasciò fuori […]. Trent’anni fa […] forse ero un buon indiano; ma certamente ora sono migliore.
“Anche san Paolo divenne migliore quando si convertì […]. I vecchi riti indiani non rendevano migliori gli uomini. Gli uomini-medicina cercavano la loro gloria e cercavano regali. Cristo ci ha insegnato a essere umili e a smettere di peccare. Gli uomini-medicina indiani non smisero di peccare. Voglio essere retto come la Chiesa cattolica ci insegna e salvare la mia anima per il Cielo. È questo che voglio” (50). Le falsificazioni, del resto, non costituiscono soltanto una nuova forma di violenza contro gli indiani. Portano anche alla produzione di opere di nessun valore documentario e scientifico. John G. Neihardt ha lasciato fuori dal suo volume anche molte caratteristiche della magia yuwipi perché non corrispondevano al suo modello ideale. Per limitarsi a menzionare un episodio particolarmente grottesco, il poeta del Nebraska decise di cambiare il nome del socio in affari di Nicholas Black Elk nella pratica dello yuwipi da Joe Kills Enemy, “Uccide il Nemico”, a “One Side”, “Un Lato” — un nomignolo che Joe Kills Enemy ricevette soltanto molti anni dopo, in vecchiaia —, perché menzionare un nome come “Kills Enemy” contrastava con la sua rappresentazione dei lakota come un popolo mite e pacifico (51). Più in generale, per un antropologo moderno è ridicolo cercare nel movimento religioso della Ghost Dance l’espressione di una religiosità indiana “genuina” e “primitiva”. È stato ormai persuasivamente dimostrato che la Ghost Dance — come molti movimenti profetico-millenaristici analoghi — è una forma di sincretismo fra credenze tribali indiane e cristianesimo. Nata nello Utah, la Ghost Dance si forma — più precisamente — come un sincretismo fra credenze tribali locali e la predicazione dei missionari mormoni. Per il mormonismo gli indiani d’America sono “lamaniti”, discendenti — per quanto decaduti — di un’antica migrazione di ebrei nel continente americano, e hanno un fulgido destino. Un certo numero di mormoni — anche se non i loro dirigenti — interpretavano inoltre un’ambigua profezia del loro fondatore, Joseph Smith (1805-1844), ritenendo che annunciasse la fine del mondo per l’anno 1890, e questa data si ritrova nella Ghost Dance. Le vesti bianche della Ghost Dance hanno un’evidente parentela con i “vestiti del tempio” dei mormoni, e le attese apocalittiche erano diffuse nel mondo mormone negli anni immediatamente precedenti il 1890, gli anni più acuti del conflitto con lo Stato americano, che proprio nel 1890 si concluse con l’abbandono ufficiale della poligamia. Esportata presso altre tribù — in particolare nel mondo sioux, che peraltro aveva avuto contatti con missionari mormoni e con indiani convertiti al mormonismo —, la Ghost Dance si modificò acquisendo altri elementi tratti dalla religiosità popolare cristiana, in particolare cattolica. Si spiega così come uno dei missionari gesuiti con cui più tardi venne in contatto Nicholas Black Elk, padre Emil Perrig, potesse scrivere nel suo diario il 15 dicembre 1890 — pochi giorni prima del massacro di Wounded Knee — che un suo confratello, padre Francis M. Craft, aveva visto la Ghost Dance e gli sembrava che fosse “qualche cosa di accettabile, piuttosto cattolica, e perfino edificante”. Riportando questo brano del diario di padre Emil Perrig, Michael F. Steltenkamp commenta: “Purtroppo, questa prospettiva non era condivisa dai funzionari del Governo” (52). Più in generale, è pressoché impossibile identificare una religione sioux “pura” o “primitiva”, dal momento che i vari sotto-gruppi — per quanto se ne sa, a cominciare da almeno due secoli prima dell’incontro con l’uomo bianco — erano stati coinvolti in una successione continua di guerre tribali, in cui spesso i vincitori avevano imposto la loro religione ai vinti determinando una serie di fenomeni di adattamento e di sincretismo (53). Questa realtà può non far piacere a un certo relativismo o a un certo esoterismo di scuola perennialist: si spiega, dunque, perché molti abbiano trovato più comodo continuare a spacciare per “autentica” religione sioux quella di Alce Nero parla, largamente costruita a tavolino da un poeta bianco negli anni Trenta del secolo XX.
b. I processi di adattamento e di trasformazione sono continui nella storia. Nicholas Black Elk era effettivamente considerato un maestro spirituale presso i sioux, ma — come l’antropologo Michael F. Steltenkamp apprese inizialmente “con grande stupore” — il suo prestigio nella comunità delle riserve non era affatto da attribuire alla popolarità dei “suoi” due libri. Il prestigio di cui godeva era il risultato del suo ruolo molto attivo nel diffondere, insieme ai sacerdoti, il cattolicesimo fra il suo popolo: “[…] la maggioranza [degli indiani] sanno poco dei due libri basati sulla sua vita e sul suo pensiero, se pure sanno che esistono, il che è raro” (54). Il vero Nicholas Black Elk rivela la sua grandezza spirituale proprio nella capacità di integrare gli elementi migliori della cultura sioux in una nuova sintesi, una volta conosciuta e accettata la verità cattolica. Della stessa sensibilità danno prova i missionari gesuiti — in gran parte tedeschi e svizzeri — che svolgono il loro apostolato presso i sioux all’epoca di Nicholas Black Elk. Contrariamente a una rappresentazione caricaturale, che attribuisce al missionario un atteggiamento di esclusivo disprezzo nei confronti delle tradizioni religiose locali, i gesuiti delle riserve sioux — assumendo informazioni dai leader spirituali locali, cioè da persone come Nicholas Black Elk — distinguono accuratamente fra religione e magia. Combattono la magia — che del resto sta cadendo in discredito presso gli stessi indiani —, ma valorizzano quanto di positivo trovano nell’eredità religiosa, giungendo a considerare con indulgenza perfino taluni aspetti di fenomeni sincretistici, ma a loro modo spontanei ed effettivamente “popolari” come la Ghost Dance. Anche se — naturalmente — non tutti i missionari erano ugualmente bene informati, capaci e santi, l’atteggiamento dei gesuiti che evangelizzarono i sioux rappresenta in modo tutto sommato tipico l’atteggiamento dei missionari cattolici presso gli indiani dell’America Settentrionale, e ne spiega il successo che presso molte tribù fu maggiore rispetto ai missionari protestanti, pure certamente più favoriti — almeno fino alla seconda guerra mondiale — dall’appoggio delle autorità federali (55).
c. Il successo missionario dei cattolici si spiega anche con l’immediata comprensione da parte dei missionari dell’efficacia di alcune devozioni tradizionali presso popoli che avevano avuto scarso contatto con il pensiero occidentale moderno. Così, come abbiamo visto, leaderspirituali indiani come Nicholas Black Elk si affezionarono rapidamente — e in modo tutt’altro che superficiale — al Rosario, alla devozione al Sacro Cuore, alla pietà mariana tradizionale. Si tratta di una sensibilità missionaria che non ha affatto perso attualità. Riflettendo sulle ragioni del maggiore successo di alcuni nuovi movimenti religiosi rispetto alle missioni cattoliche presso “le culture che amano il canto, la danza e le gioiose celebrazioni comunitarie”, il card. Francis Arinze, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso, nella relazione generale al Concistoro straordinario del 1991 La sfida delle sette o nuovi movimenti religiosi: un approccio pastorale, scrive: “L’acqua, la luce, il fuoco, l’incenso, il pane, il sale, le statue e le processioni sono simboli che parlano a tutta la persona umana. […] e la gente ama indossare medaglie e scapolari e mangiare il pane e bere l’acqua benedetti dal sacerdote. Questo approccio globale all’essere umano, insieme con l’apprezzamento per i simboli materiali nel culto, occorre che sia accettato, purificato e nobilitato dal cristianesimo” (56).
d. Negli anni 1930 padre Placidus Sialm poteva menzionare, fra le peggiori distorsioni del volume Alce Nero parla, la rappresentazione di Nicholas Black Elk come “un uomo anziano disperato per non aver potuto compiere il suo destino per il suo popolo”: il catechista lakota appariva invece come una persona perfettamente equilibrata e felice della sua fede cattolica (57). Quindici anni dopo — negli anni immediatamente precedenti la sua morte — il “santo degli oglala” aveva invece qualche ragione di tristezza. Era triste perché le missioni non erano più efficaci come un tempo, così racconta la figlia: una “[…] generazione più giovane stava tentando di vivere una vita non cristiana. Sembravano meno interessati alla dottrina e alla pratica della fede” (58). Infatti — almeno dal punto di vista dei suoi risultati quantitativi — lo slancio missionario cattolico presso gli indiani d’America inizia a conoscere un momento di difficoltà dopo la seconda guerra mondiale, e non sembra terminato neppure oggi (59). Negli anni che si situano intorno alla morte di Nicholas Black Elk, stava del resto cominciando a cambiare anche l’atteggiamento dei missionari. Alcuni si lasciavano impressionare da una letteratura antropologica di taglio relativista e si chiedevano se fosse davvero possibile — o perfino opportuno — trasmettere agli indiani la fede cattolica nella sua integralità. A partire dagli anni 1960 non mancarono missionari coinvolti nel movimento “indigenista”, che cercava — anche con episodi clamorosi e violenti — di dare un carattere politicamente radicale alla protesta degli indiani delle riserve, trasformando le giuste rivendicazioni per condizioni di vita migliori in una contestazione globale di tutto quanto la cultura dei bianchi aveva apportato agli indiani d’America, cristianesimo compreso. Nel 1973 si verificò un episodio largamente divulgato dalla stampa internazionale: l’”occupazione” di Wounded Knee da parte di attivisti “indigenisti”, che solo in minima parte provenivano dalle tribù locali. Gli occupanti comprendevano, accanto a indiani di altre regioni dell’America Settentrionale, un buon numero di bianchi. Altri indiani di etnia lakota contrastarono l’”occupazione” delle loro terre: vi furono incidenti con feriti e alcuni morti. L’episodio portò certamente fra gli indiani delle riserve più “divisione” e “polarizzazione” che armonia e unità. Un tratto tristemente simbolico dell’”occupazione” — peraltro approvata e incoraggiata da missionari cattolici e protestanti “progressisti”, fra cui alcuni gesuiti — fu, al culmine di una serie di violenze, l’assalto alla missione che Nicholas Black Elk aveva aiutato a costruire con le sue mani, e la distruzione di una lapide in sua memoria. Gli occupanti “avevano in tasca Alce Nero parla“ ma rifiutavano di confrontare la figura mitica dipinta da John G. Neihardt, nel cui nome dicevano di combattere, con l’autentico “santo degli oglala”, cattolico esemplare per quarantasei anni della sua vita. Fra i sioux che si opposero all’”occupazione” vi era la figlia di Nicholas Black Elk, Lucy Looks Twice. L’anziana lakota — a sua volta rispettata come punto di riferimento spirituale nella comunità cattolica locale — contestò le attività degli occupanti affermando che il messaggio di suo padre in quella circostanza sarebbe stato “chiamare il popolo alla religione… “Insegnate ai vostri figli a pregare e assicuratevi che vadano in chiesa; è questa l’unica via — la chiesa e la famiglia… essere figli di Dio e soldati di Cristo. Dovete scendere in campo e combattere”” (60). È opportuno — anche se triste — precisare che le esortazioni di Lucy Looks Twice non ebbero, apparentemente, particolare successo. Chi aveva organizzato e dirigeva l’”occupazione” poteva avere interesse per il Nicholas Black Elk fantastico di John G. Neihardt, ma — come l’assalto alla missione dimostra — del leader cattolico indiano, che metteva a dormire i nipotini “cantando una delle Messe Solenni in latino”(61), voleva — se fosse stato possibile — distruggere perfino il ricordo.
Massimo Introvigne
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(1) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, del 6-8-1993.
(2) Arturo Damm Arnal, Falacias Filosóficas, MiNos, Città del Messico 1991, p. 38.
(3) Ibid., p. 63.
(4) Trattano questo tema diversi dei contributi raccolti nel volume del CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, Massoneria e religioni, a mia cura, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1994.
(5) Cfr. il mio Storia del New Age. 1962-1992, Cristianità, Piacenza 1994.
(6) Per la distinzione fra l’esoterismo come stile di pensiero e l’esoterismo come dottrina cfr. l’importante intervista di Antoine Faivre, What is Esotericism, a cura di Richard Smoley e Jay Kinney, in Gnosis. A Journal of the Western Inner Traditions, n. 31, primavera 1994, pp. 62-68. Cfr. ulteriori considerazioni in Idem, L’esoterismo. Storia e significati, trad. it., SugarCo, Milano 1992.
(7) Cfr. il mio Strutturalismo e Rivoluzione, in Cristianità, anno V, n. 23, marzo 1977, pp. 4-7.
(8) Cfr. la mia Introduzione critica (pp. 1-13) all’opera di Huston Smith, Le grandi religioni orientali, trad. it., SugarCo, Carnago (Varese) 1993.
(9) Nel linguaggio “politicamente corretto” oggi adottato dalla stampa americana — e da alcuni antropologi, ma non da tutti — la parola “indiano” viene evitata come già di per sé “etnocentrica” e sostituita da native American, “americano nativo”. Naturalmente l’espressione “indiano” continua a prevalere nel linguaggio comune.
(10) L’opera — peraltro non esente da errori sul piano strettamente religioso — di Garold D. Barney, Mormons, Indians and the Ghost Dance Religion of 1890, University Press of America, Lanham (Maryland) 1986, riporta alcuni esempi particolarmente significativi di parlamentari statunitensi del secolo scorso che discutevano apertamente se non fosse più economico provocare con mezzi adeguati l’estinzione fisica delle popolazioni indiane piuttosto che continuare a mantenerle con il sistema delle riserve, che costava somme significative all’erario degli Stati Uniti d’America. Cfr. pure Arlene Hirschfelder e Paulette Molin, The Encyclopedia of Native American Religions, Facts on File, New York-Oxford 1992. Non mancavano, peraltro, voci coraggiose che si levavano a favore degli indiani per ragioni umanitarie o, più spesso, religiose.
(11) Si veda, in proposito, l’atteggiamento recente di Frithjof Schuon, forse il più noto fra gli esponenti viventi della scuola perennialist, che ha costituito negli Stati Uniti d’America una comunità largamente — anche se non unicamente — ispirata al simbolismo religioso degli indiani d’America.
(12) Karen Eng, Black Elk’s 46 Years as a Catholic, in Gnosis. A Journal of the Western Inner Traditions, n. 32, estate 1994, pp. 68-70 (p. 70).
(13) A. Hirschfelder e P. Molin, voce Black Elk, in The Encyclopedia of Native American Religions, cit., p. 19.
(14) Negli ultimi anni anche la parola sioux non viene più considerata “politicamente corretta”, in quanto si tratterebbe di un nome “estraneo”, imposto dall’uomo bianco. In realtà sembra che la parola sioux origini da un gruppo più settentrionale di indiani, gli ottawa, che la utilizzavano nel significato di “piccoli serpenti”, per distinguere la minaccia dei sioux da quella dei loro principali nemici, gli irochesi, che chiamavano nadowe, “grandi serpenti” (così R. R. Baraga, A Dictionary of the Otchipwe Language, Ross & Haines, Minneapolis 1973, p. 264). Perciò alcuni antropologi utilizzano — preferendole a sioux — le parole lakota o dakota, che in realtà si riferiscono più propriamente a sotto-gruppi e non all’intera popolazione designata dalla parola sioux. Ironicamente l’espressione tradizionale con cui i sioux designano se stessi nel loro linguaggio — Oyate ikce Ankantu — non ha avuto fortuna in lingua inglese perché è ancora meno “politicamente corretta”: i sioux infatti si auto-definivano “il Popolo Superiore”, con evidente allusione alla loro capacità di dominare e di soggiogare militarmente le tribù vicine (cfr. James R. Walker, Lakota Society, a cura di Raymond J. DeMallie, University of Nebraska Press, Lincoln 1982, p. 3). Il più famoso capo sioux, Crazy Horse (1849-1877), era cugino in secondo grado di Nicholas Black Elk. Quest’ultimo era un ragazzo quando gli uomini della sua tribù parteciparono alla battaglia di Little Big Horn (1876), in cui fu ucciso il colonnello George Armstrong Custer (1839-1876). Come racconterà con franchezza più tardi, la sua partecipazione alla celebre battaglia fu limitata a “frugare, con altri ragazzi della sua età, le tasche dei soldati[americani] morti alla ricerca dei loro portafogli” (Michael F. Steltenkamp, Black Elk. Holy Man of the Oglala, University of Oklahoma Press, Norman [Oklahoma]-Londra 1993, p. 27). Tutte le altre informazioni biografiche su Nicholas Black Elk sono riprese da questo testo di Michael F. Steltenkamp, che si fonda su una documentazione non accessibile all’autore di una precedente biografia: Julian Rice, Black Elk’s Story, University of New Mexico Press, Albuquerque 1991, le cui informazioni vanno pertanto verificate e corrette sul testo di Michael F. Steltenkamp.
(15) Cfr. soprattutto James R. Walker, op. cit.; Idem, Lakota Belief and Ritual, a cura di Raymond J. DeMallie ed Elaine A. Jahner, University of Nebraska Press, Lincoln 1980; e Idem, Lakota Myth, a cura di E. A. Jahner, University of Nebraska Press, Lincoln 1983.
(16) Cfr. J. R. Walker, Lakota Belief and Ritual, cit., pp. 91-92.
(17) Cfr. William K. Powers, Oglala Religion, University of Nebraska Press, Lincoln 1975; e Idem, Yuwipi. Vision and Experience in Oglala Ritual, University of Nebraska Press, Lincoln 1982.
(18) Cfr. M. F. Steltenkamp, op. cit., pp. 25-26.
(19) L’opera più autorevole sulla Ghost Dance è Weston LaBarre, The Ghost Dance. Origins of Religion, George Allen & Unwin, Londra 1972. Sull’episodio di Wounded Knee, cfr. pure G. D. Barney, op. cit.
(20) Cfr. M. F. Steltenkamp, op. cit., pp. 27-28.
(21) Cfr. Black Elk Speaks. Being the life story of a holy man of the Oglala Sioux as told to John G. Neihardt, William Morrow and Company, New York 1932; l’edizione italiana Alce Nero parla (Adelphi, Milano 1968) — e le successive, presso lo stesso editore (1990 e 1992) — hanno come sottotitolo Vita di uno stregone dei Sioux Oglala messa per iscritto da John G. Neihardt (sottolineature mie).
(22) Cfr. Vine Deloria Jr. (a cura di), A Sender of Words. Essays in Memory of John G. Neihardt, Howe Brothers, Salt Lake City 1984.
(23) Cfr. Raymond G. DeMallie, The Sixth Grandfather. Black Elk’s Teachings Given to John G. Neihardt, University of Nebraska Press, Lincoln 1984.
(24) Cfr. la lettera del 26 gennaio 1934, trad. inglese in M. F. Steltenkamp, op. cit., pp. 82-84; e in R. J. DeMallie, op. cit., p. 61.
(25) Lettera del 20 settembre 1934, trad. inglese in M. F. Steltenkamp, op. cit., p. 85; e in R. J. DeMallie, op. cit., p. 62.
(26) M. F. Steltenkamp, op. cit., p. 87, che si riferisce a una corrispondenza fra Joseph E. Brown e John G. Neihardt.
(27) Cfr. ibidem.
(28) Cfr. M. F. Steltenkamp, op. cit., pp. 80-81.
(29) Cfr. ibid., pp. 32-33.
(30) Testo di Lucy Looks Twice riportato ibid., p. 34.
(31) Ibid., p. 35.
(32) Ibid., p. 34.
(33) Ibid., p. 26.
(34) Cfr. Alce Nero, La sacra pipa. Testi redatti e commentati da Joseph Epes Brown, trad. it., 3a ed., Rusconi, Milano 1989, p. 13, che traduce Joseph Epes Brown, The Sacred Pipe. Black Elk’s Account of the Seven Rides of the Oglala Sioux, University of Oklahoma Press, Norman (Oklahoma) 1953.
(35) Cfr. M. F. Steltenkamp, op. cit., pp. 55-57.
(36) Cfr. ibid., pp. 62-92; cfr. anche Omer C. Stewart, Peyote Religion. A History, University of Oklahoma Press, Norman (Oklahoma) 1987.
(37) M. F. Steltenkamp, op. cit., p. 113.
(38) Ibid., p. 123.
(39) Ibid., p. 129.
(40) Ibid., p. 132.
(41) Cfr. ibid., pp. 133-134.
(42) Alce Nero, La sacra pipa. Testi redatti e commentati da Joseph Epes Brown, cit., p. 13.
(43) Frithjof Schuon tradusse del resto personalmente l’opera di Joseph E. Brown in francese: Black Elk, Les Rites secrets des Indiens Sioux. Textes recueillis et annotés par Joseph Epes Brown. Traduction et introduction de Frithjof Schuon, Payot, Parigi 1953.
(44) M. F. Steltenkamp, op. cit., p. XVIII.
(45) Presentato come tale nell’edizione originale inglese, mentre la traduzione italiana riporta come autore Alce Nero e menziona Joseph E. Brown solo come “redattore” e “commentatore” dei testi.
(46) Lettera non datata di Joseph E. Brown a Michael F. Steltenkamp, citata in M. F. Steltenkamp, op. cit., p. XX.
(47) Un documento tipico di tale movimento — curiosamente pubblicato in Italia da una casa editrice promossa da cattolici — è Vine Deloria Jr., Custer è morto per i vostri peccati. Manifesto indiano, trad. it., 3a ed., Jaca Book, Milano 1994 (1a ed. 1969), che — a proposito della religione presso gli indiani — così si esprime: “[…] preferirei vedere gli indiani ritornare alle loro antiche religioni […]. Il Cristianesimo secondo me non è che una falsità per mascherare le deficienze dell’uomo bianco” (ibid., p. 133).
(48) Cfr. riferimenti all’ampio uso di Alce Nero parla, ibid., pp. 143-173.
(49) M. F. Steltenkamp, op. cit., p. 81.
(50) Ibid., pp. 82-84.
(51) Cfr. ibid., p. 25.
(52) Ibid., p. 73. Per le relazioni fra la Ghost Dance e i mormoni cfr. in particolare — oltre a G. D. Barney, op. cit. — Lawrence G. Coates, The Mormons, the Ghost Dance Religion, and the Massacre at Wounded Knee, in Dialogue. A Journal of Mormon Thought, vol. 18, n. 4, inverno 1985, pp. 89-111.
(53) Cfr. M. F. Steltenkamp, op. cit., pp. 9-10, con relativa bibliografia.
(54) Ibid., p. XVII.
(55) Cfr. suor Mary Claudia Duratschek, Crusading along Sioux Trails. A History of the Catholic Indian Missions of South Dakota, Grail, Yankton (South Dakota) 1947.
(56) Card. Francis Arinze, La sfida delle sette o nuovi movimenti religiosi: un approccio pastorale. Relazione generale al Concistoro Straordinario del 1991, trad. it. in appendice al mio La questione della nuova religiosità, Cristianità, Piacenza 1993, pp. 59-93 (pp. 88-89).
(57) Cfr. M. F. Steltenkamp, op. cit., p. 81.
(58) Ibid., pp. 138-139.
(59) Cfr. — con qualche giudizio che, peraltro, non mi sembra condivisibile — Francis Paul Prucha, Two Roads to Conversion. Protestant and Catholic Missionaries in the Pacific Northwest, in Pacific Northwest Quarterly, anno 79, n. 4, inverno 1988, pp. 130-137.
(60) M. F. Steltenkamp, op.cit., p. 190.
(61) Ibid., p. 68.