Stefano Chiappalone, Cristianità n. 382 (2016)
Gratia non tollit naturam…
Periodicamente Papa Francesco ricorda alcune semplici azioni che, a guardar bene, sono sempre meno abituali: salutare, ringraziare, chiedere scusa, chiedere permesso. Quando qualcuno non saluta, non ringrazia, non chiede scusa né «permesso», ci sentiamo istintivamente urtati, salvo poi accorgerci che talvolta capita anche a noi. Se a prima vista può suonare strano che il Papa ricordi cose così apparentemente «scontate», basta guardarsi intorno per scoprire che abbiamo bisogno che ci ricordi proprio quelle cose talmente ovvie da venire dimenticate. Non è il magistero ad abbassarsi, piuttosto è la società che va degradandosi, rendendo necessario ripartire dalle minime basi della convivenza civile che s’insegnano ai bambini, quella liturgia del quotidiano che siamo soliti chiamare «educazione»; la quale, peraltro, è solo una parte dell’intera educazione dell’uomo, ma quella che ne manifesta la piena umanità. E se lo scopo del cristianesimo è condurre alla santità, non dobbiamo mai dimenticare che la materia prima del santo è l’uomo.
San Tommaso d’Aquino O.P. [1225 ca.-1274] insegna che la grazia non distrugge la natura, non prescinde da essa, ma la perfeziona, lavora su di essa: «gratia non tollit naturam, sed perficit» (1). Allo stesso modo la tradizione della Chiesa sintetizza le virtù in tre teologali — fede, speranza e carità — e quattro cardinali — prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. «Le virtù umane — cioè queste ultime, così definite dal Catechismo della Chiesa Cattolica — […] acquisite mediante l’educazione, mediante atti deliberati e una perseveranza sempre rinnovata nello sforzo, sono purificate ed elevate dalla grazia divina. Con l’aiuto di Dio forgiano il carattere e rendono spontanea la pratica del bene» (n. 1.810). In altre parole, l’uomo deve lavorare su sé stesso perché la grazia possa perfezionare tale lavoro. Un uomo trasandato o maleducato non diventerà perfetto per «infusione» della grazia, salvo miracoli: al massimo diventerà un trasandato o un maleducato con una patina di devozione. Quell’estetica del comportamento che parte da cose minime, quali salutare e ringraziare, è almeno un inizio di crescita sulla via del bene: implica, se non altro, uno sforzo di autodisciplina e di attenzione all’altro. Rivolgendosi ai fidanzati, e quindi alle future famiglie, il 14 febbraio 2014, Papa Francesco ricordava che «Posso-Permesso?. È la richiesta gentile di poter entrare nella vita di qualcun altro con rispetto e attenzione», e proseguiva: «chiedere permesso significa saper entrare con cortesia nella vita degli altri. Ma sentite bene questo: saper entrare con cortesia nella vita degli altri» (2).
La barbarie di ritorno
Negli anni 1970, Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), delineando quell’estrema fase dell’apostasia da lui definita «IV Rivoluzione» — che consiste in un attacco all’uomo stesso, alla sua natura, alla sua sacralità —, ne coglieva i sintomi anche dal punto di vista dei comportamenti: «La rapida scomparsa delle forme di cortesia può avere come punto finale soltanto la semplicità assoluta — per usare solo questo aggettivo — del tratto tribale» (3). Non è questione di sviluppo o di sottosviluppo tecnico: una società può essere modernissima negli strumenti e tuttavia molto più «selvaggia» nei rapporti interpersonali rispetto a una società magari poco sviluppata, ma ancora ricca nel riconoscere all’altro dignità e sacralità, in particolare a quegli anziani e a quei bambini che paiono tagliati fuori dalle nostre attenzioni. Dal gruppo di adolescenti scapestrati, che sui mezzi pubblici ti calpestano senza neanche scusarsi — del resto, chi glielo ha insegnato? la crisi della cortesia va di pari passo con la crisi del padre —, all’impiegato impeccabile nella sua efficienza, ma troppo asettico per «perdere tempo» a salutare, le dimensioni «calda» e «fredda» dell’attuale crisi si fondono in una sorta di barbarie di ritorno. «La crescente avversione per tutto quanto è ragionato, strutturato e metodico può condurre soltanto, nei suoi ultimi parossismi, al perpetuo e fantasioso vagabondaggio della vita nelle selve, alternata anch’essa, all’esecuzione istintiva e quasi meccanica di alcune attività assolutamente indispensabili alla vita» (4), prosegue impietosamente Corrêa de Oliveira. Effettivamente viviamo nella selva dell’utile, del funzionale, del «tutto mi è dovuto» e, se buone abitudini e belle maniere non sono scomparse del tutto, è semplicemente per il fatto che esse non sono superflue, bensì necessarie, sia pure di una necessità non legata a bisogni materiali. Immaginiamo l’improvvisa totale scomparsa anche di quei residui di educazione: non saprei che cosa dire al vicino quando lo incontro; non obbedirei ai miei superiori; mi sentirei autorizzato a trattar male chi mi è indigesto: in altre parole applicherei anche ai rapporti con gli altri quella logica relativistica del «mi piace/non mi piace», del «è utile/va scartato», finendo per trattare gli esseri umani come cose. Di qui a una società all’insegna dell’«homo homini lupus», dominata da una guerra reciproca, il passo è breve.
Ripartire da san Benedetto
All’indomani del crollo del mondo antico, san Benedetto (480 ca.-547) si ritrovò a ricostruire le rovine dell’uomo stesso, partendo dallo sguardo centrato su Dio, il solo che gli permetteva di guardare all’altro, non sempre piacevole, come a un fratello da trattare con amore e riverenza. La Regola del patriarca dell’Occidente contiene indicazioni altrettanto «minime» di quelle che Papa Francesco offre ai nuovi barbari di oggi. Risultano attualissime, per esempio, quelle del capitolo LXIII: «I più giovani, dunque, trattino con riguardo i più anziani, che a loro volta li ricambino con amore»; e soprattutto: «quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il posto, guardandosi bene dal rimettersi a sedere prima che l’anziano glielo permetta». La civiltà si ricostruisce anche cominciando a cedere il posto all’anziano nel coro monastico… o sull’autobus. Inoltre, «[…] se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione. Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere» (cap. VI).
Benedetto è consapevole che la santità è un capolavoro che si può plasmare solo «addomesticando» la fragile argilla umana. E se può sembrarci troppo formale l’ammonimento del cap. LXIII («gli anziani diano ai giovani l’appellativo di “fratello” e i giovani usino per gli anziani quello di “reverendo padre”, come espressione del loro rispetto filiale»), troviamo considerazioni simili in un’intervista di Papa Francesco: «Quando viene un capo di Stato, devo riceverlo con la dignità e il protocollo che gli si addicono. È vero che con il protocollo ho i miei problemi, ma bisogna rispettarlo» (5). Anche l’educazione a tavola affonda le sue radici nell’esperienza monastica: «Perché non sta bene bere con la bocca piena e perché ci puliamo la bocca prima di bere? Perché, nei primi tempi del monachesimo, la pietanza […] veniva servita, per due, in un unico piatto e la bevanda in un solo bicchiere» (6), scrive lo storico belga Léo Moulin (1906-1996), che osserva: «sul piano dell’etichetta a tavola […] i Codici Consuetudinari monastici rigurgitano da secoli di consigli minuziosi. La società civile si è ispirata ad essi, alla meno peggio, e lo fa ancora dopo tanto tempo» (7).
La cortesia è sorella della carità
Il riferimento alla Regola benedettina ci spinge ad andare al cuore di quell’ordine nei comportamenti che non è solo esteriore, ma cela molto di più. Il superiore viene chiamato signore o abate, «non perché si sia arrogato da sé un tale titolo, ma in onore e per amore di Cristo del quale sappiamo per fede che egli fa le veci» (cap. LXIII) e tutti i fratelli «si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo» (cap. LXXII), così come «appena viene annunciato l’arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore» (cap. LIII). È in fondo l’amore per Dio e per il prossimo che ispira a Benedetto questa scuola di disciplina, esigente e minuziosa forse, ma sempre valida anche ai nostri tempi, anche al di fuori dei monasteri, in quelle mura altrettanto sacre che custodiscono gli affetti familiari.
Il Santo Padre ricordava che «nei Fioretti di san Francesco [1182-1226] si trova questa espressione: sappi che la cortesia è una delle proprietà di Dio … e la cortesia è sorella della carità, la quale spegne l’odio e conserva l’amore (Cap. 37)» (8). Per questo essa è anche la prima e più immediata forma di misericordia che possiamo e dobbiamo offrire ai poveri, esprimendo loro amore anche nei modi: un sorriso gentile, un gesto delicato, un saluto educato, trattandoli da «signori», potrebbero essere più graditi di tante monete lanciate frettolosamente, rendendo omaggio a quella dignità occultata dalle miserie materiali o morali. A tale proposito il Santo Padre racconta di una donna di Buenos Aires costretta a prostituirsi per dar da mangiare ai suoi bambini. Vedendola arrivare un giorno pensò che fosse venuta a ringraziare per il pacco della Caritas e lei rispose: «Sì, sì, la ringrazio anche per quello. Ma io sono venuta qui a ringraziarla soprattutto perché lei non ha mai smesso di chiamarmi “signora”» (9). E, senza voler né generalizzare né idealizzare, talvolta sono gli stessi poveri ad elargire «cortesia» al nostro mondo troppo affaccendato. Ricordo in particolare un’anziana signora che evidentemente aveva perso tutto ma non la dignità, seduta su uno scalino a chiedere l’elemosina con una discrezione e una gentilezza che potrebbero rendere il mondo più umano. E in una stazione milanese mi ha colpito un clochard, barbuto come un vecchio staretz uscito da qualche racconto russo, il cui garbo lo faceva sembrare un principe in incognito rispetto alla benestante ma anonima massa che gli passa davanti. La cortesia è nemica dell’individualismo: se sono ripiegato in me stesso e nei miei bisogni, non avrò ragione di «abbellire» la mia vita quotidiana con i miei atteggiamenti. Non a caso la società individualista odierna è caratterizzata insieme dalla scomparsa dell’ornamento e della cortesia, come suggerisce il servo di Dio mons. Fulton John Sheen (1895-1979): «La cortesia nasce dalla santità, come l’ornamento nasce dal senso del sacro. Vediamo se l’ornamento ritorna all’architettura, se la cortesia ritorna nelle umane maniere» (10). Entrambi infatti scaturiscono dall’amore per l’altro e per l’Altro.
Note:
(1) San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 1, a. 8, ad 2.
(2) Francesco, Discorso ai fidanzati che si preparano al matrimonio, del 14-2-2014, nel sito web <https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/february/documents/papa-francesco_20140214_incontro-fidanzati.html>, consultato il 30-11-2016.
(3) Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it., a cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009, p. 180.
(4) Ibidem.
(5) Francesco, La grande rivoluzione è andare alle radici, intervista a cura di Henrique Cymermam, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 14-6-2014.
(6) Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, tr. it., Jaca Book, Milano 2008, p. 86.
(7) Ibidem.
(8) Francesco, Discorso ai fidanzati che si preparano al matrimonio, cit.
(9) Idem, Il nome di Dio è misericordia, una conversazione con Andrea Tornielli, Piemme, Milano 2016, p. 74.
(10) Fulton John Sheen con Yousuf Karsh (1908-2002), These are the Sacraments, Image Books, New York 1962, p. 13.