di Ignazio Cantoni, Cristianità n. 387 (2017)
Testo, ampiamente rivisitato, dell’intervento tenuto durante la scuola estiva su Famiglia, un’istituzione sotto attacco, avente il medesimo titolo, organizzata da Alleanza Cattolica a Filetto (Massa-Carrara) dal 4 al 10-8-2014.
«Vera legge è la retta ragione, in armonia con la natura [recta ratio naturae congruens], universale, immutabile, eterna, che con i suoi ordini richiama l’uomo al dovere e con i suoi divieti lo distoglie dalla frode. Gli ordini e divieti suoi sono ascoltati dagli uomini onesti, mentre non hanno alcun potere sui malvagi. Non è lecito ad essa sostituire altra legge, né modificarla in alcuna parte o annullarla del tutto, poiché né popolo né senato potrà dispensarci dall’osservanza di una legge che non ha bisogno di un Sesto Elio [Peto, III-II secolo a.C.] per essere commentata e spiegata. Non è essa infatti diversa da Roma ad Atene o dall’oggi al domani; ma unica, eterna, immutevole e capace di tenere a freno tutte le genti in ogni tempo. Poiché uno è signore e guida di tutte le cose, il dio, colui che tale legge ha ideato, meditato, emanato: e chi né a lui né a quella obbedirà, rinnegherà se stesso e la propria natura di uomo, e dovrà subirne la pena, anche se sfuggirà a quei supplizi, che tali sono ritenuti nel giudizio degli uomini» (1).
1. Premessa
Le considerazioni che seguono vogliono offrire un percorso introduttivo, né sistematico né, comunque, esaustivo, alla nozione di legge naturale.
Il testo deve molto, non volendone essere una esposizione ma traendone libera ispirazione, alla riflessione sulla questione svolta dal filosofo e teologo domenicano san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) (2), al documento della Commissione Teologica Internazionale Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, del 6 dicembre 2008 (3), e allo scrittore savoiardo contro-rivoluzionario Joseph de Maistre (1753-1821) (4).
Al fine di far emergere il più possibile la razionalità del discorso sulla legge naturale, che — al contrario di quanto comunemente i suoi detrattori affermano — la rivelazione presuppone anziché fondare (5), sono voluto ricorrere il più possibile, nelle citazioni dirette, ad autori non cristiani (6).
2. La coscienza morale e la contingenza
Fin da molto piccoli, tutti gli uomini fanno l’esperienza di una voce interiore che raccomanda determinati comportamenti e ne proibisce altri.
Tale voce prende il nome di coscienza; la premessa della sua stessa esistenza è costituita dal fatto che gli uomini hanno in modo non accessorio ma costitutivo la libertà di dire e non dire, di fare e non fare, di comportarsi e non comportarsi in un determinato modo. Se gli uomini non fossero liberi, infatti, nessun loro comportamento potrebbe essere immorale.
Gli uomini, si dice, sono quindi esseri morali; mentre gli animali e le piante sono guidate nella loro vita dall’istinto e dalle disposizioni biologiche, gli uomini devono identificare e fare proprie norme che regolino il comportamento, soprattutto nella loro reciproca relazione.
Gli uomini fanno anche un’altra esperienza: nessuno di essi è necessario, nessuno di essi scopre nel proprio essere le ragioni sufficienti della propria esistenza; in altre parole, ogni uomo sente che potrebbe esistere oppure non esistere.
Quindi, se vi è stato un istante in cui non esisteva, ciò significa che l’uomo non ha scelto di esistere; di esistere in quel determinato tempo; in quello spazio; da quei genitori; con quelle caratteristiche psico-fisiche: l’uomo, in una parola, è contingente.
Gli uomini, che sono esseri morali al contempo contingenti, intendono quindi che le norme del proprio comportamento non possono essere trovate nella propria discrezionalità. Infatti, poiché gli uomini non derivano da loro stessi, la piena discrezionalità nella definizione del comportamento li porrebbe nell’assurda situazione di esseri limitati che si scrivono da soli le norme del proprio essere: secondo tale contraddizione gli uomini esistono già, e pertanto hanno già un essere, ma spetterebbe loro stabilire le norme che regolano il loro essere.
L’essere degli uomini deve avere già necessariamente scritto dentro sé le norme che ne regolano il comportamento, ed essi devono sforzarsi di identificare tali norme perché diventino poi esplicite nel comportamento.
3. Definizione di legge naturale
A partire dalle due esperienze primarie sopra descritte — l’imperativo morale e la contingenza — è possibile ricavare l’esistenza della legge naturale: «legge» perché non c’è morale senza un obbligo precisamente definito; «naturale» perché la fonte di tale legge è indisponibile all’arbitrio dell’uomo, esattamente come le sue caratteristiche che lo costituiscono uomo, la sua natura cioè il suo essere. Gli uomini sono liberi di decidere se fare il bene o il male, non di decidere ciò che è bene e ciò che è male.
È notevole constatare il fatto che l’idea di limitatezza è insita nel termine stesso «natura», che deriva dal verbo latino nascor, «nascere»: solo chi è limitato ha una nascita, un «prima» nel quale non esisteva. Al termine latino natura corrisponde fra l’altro quello greco di φύσις (physis), come il verbo φύω (phyo), «generare», «far crescere» e «crescere».
4. Relazione della legge naturale con la legge eterna e con le leggi umane
Un ulteriore approfondimento delle due esperienze permette anche di contestualizzare la legge naturale all’interno di altri tipi di legge: la prima e più importante è la legge cosiddetta «eterna», che risiede nella sapienza del Principio della realtà, cioè in Dio, l’essere da cui tutte le contingenze, umane e non, prendono l’avvio e a cui necessariamente devono ritornare. Tale legge eterna è quella che ha guidato Dio stesso nella definizione della natura, e pertanto fra legge eterna e legge naturale non vi può essere alcun conflitto, pena l’assurdità di porre una contraddizione in Dio.
Le leggi umane, invece, che sono le norme disposte dagli uomini per regolare il proprio comportamento e la propria convivenza nelle società, possono essere in conflitto con quelle.
Una testimonianza di tale esperienza, espressa in altissima letteratura, è il racconto che il poeta tragico greco Sofocle (forse 497-406 a. C.) fa nell’Antigone dell’omonima eroina, la quale, per rispettare il dovere naturale di dare sepoltura al fratello morto, trasgredisce un comando del re Creonte il quale positivamente lo vietava. Di fronte all’accusa di aver commesso un reato, così essa si difende: «[Creonte:] E tu dimmi, in poche parole; sapevi che c’era il divieto di fare quello che hai fatto?
«[Antigone:] Sì. Come potevo non saperlo? Era un editto pubblico.
«[Creonte:] E hai osato trasgredire queste leggi?
«[Antigone:] L’editto non era di Zeus; e la giustizia, che siede accanto agli dèi di sotterra, non ha mai stabilito tra gli uomini delle leggi come queste. Non ho ritenuto che i tuoi decreti avessero tanto potere da far trasgredire a un essere mortale le leggi non scritte, immutabili, fissate dagli dèi. Il loro vigore non è di oggi, né di ieri, ma di sempre; nessuno sa quando apparvero per la prima volta. Non potevo, per paura di un uomo, rispondere di questa violazione alle divinità» (7).
Il conflitto fra legge naturale e leggi umane è possibile perché queste ultime derivano dalla capacità dell’uomo di discernere la prima e dalla sua volontà di seguirla, entrambe facoltà limitate perché proprie di un essere contingente, e misteriosamente segnate da una ferita la cui memoria — viva in molte tradizioni (8) — la fa risalire ai primordi dell’umanità stessa.
A causa di tale misteriosa ferita l’uomo sperimenta in sé orientamenti che spingono il proprio comportamento in direzioni opposte, il discernimento sui quali non sempre è facile anche per i meglio intenzionati. Nelle parole del poeta latino Publio Ovidio Nasone (43 a. C.-17 d. C.) tali pulsioni, verso le quali gli uomini sperimentano il proprio costante fallimento, spingono verso «il peggio»: «[…] video meliora proboque, / deteriora sequor!», «[…] vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio!» (9).
5. I contenuti della legge naturale
Si è detto che la legge naturale è una norma che deriva dall’essere stesso degli uomini. Essi, in effetti, fanno una terza esperienza, cioè che il mondo manifesta un ordine esterno, nelle relazioni fra le cose, e interno, nello sviluppo stesso di ciascuna realtà, soprattutto per quella parte dell’essere dotato di vita. Tale dinamismo ordinato è quanto sperimentiamo quando, per esempio, osserviamo il passaggio di un seme dallo stato di seme, appunto, a quello di pianta, e ancor più di un uomo dallo stato di embrione a quello di adulto.
Questi ordine e sviluppo sono testimoniati, per esempio, dai termini che in greco e latino indicano la totalità di ciò che esiste: κόσμος (cosmos), dalla cui radice viene anche il termine «cosmesi», strettamente legato a «ordine» e «splendore»; e universum, traducibile come «ciò che tende all’unità».
Tale terza esperienza è collegata alla intuizione immediata — e come tale non dimostrabile, ma solo mostrabile — che la realtà è portatrice di un valore, che cioè è bene che le cose siano e abbiano il loro sviluppo.
Questo sviluppo diviene, per la peculiarità degli uomini, che abbiamo visto essere dotati di ragione e liberi, un dovere. Pertanto a partire dal dato primo dell’imperativo morale — «fa’ il bene e fuggi il male» — si passa a contenuti determinati dall’esperienza dell’ordine e dello sviluppo: «fa’ che il tuo comportamento rispetti e favorisca lo sviluppo ordinato della realtà». La morale pertanto non può prescindere dalla metafisica e dall’antropologia: una morale neutra rispetto alla visione del mondo è una finta morale, perché non si può assumere la responsabilità di uno sviluppo se non si conosce cosa o chi si sviluppa e l’esito in cui tale sviluppo sfocia, cioè il fine di ciascun essere.
Facciamo un esempio: la «regola d’oro», «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», regola morale generale riconosciuta da tante culture, si regge sulla verità antropologica della uguale dignità degli uomini, sostanziale e non intaccabile dalle pur grandissime differenze fra i singoli.
Lo sviluppo ordinato avviene perché ciascuna realtà è retta da un principio interno che presiede a esso; ancora una volta, mentre per gli oggetti inanimati e per gli esseri animati privi di ragione e volontà ciò avviene in modo necessario, per gli esseri razionali e liberi vi deve essere un ascolto e un’assunzione consapevole di tale principio interno, di tale tensione della propria natura verso il proprio fine, verso cioè il proprio completo sviluppo. Nessuna norma morale può essere pertanto considerata come inibente, restrittiva: se è tale non è per definizione legge naturale.
A tal proposito, per esempio, la scuola filosofica stoica ci ha lasciato un termine particolarmente efficace per descrivere tale consonanza fra il comportamento morale e la natura: si tratta di ὁμολογία (homologhia), che può essere tradotto con l’espressione «adesione alla ragione» o «vita secondo ragione», cioè secondo il λόγος (logos), la «ragione», il «senso», il quale è per gli stoici il principio vitale, spirituale e ultimamente divino che dà ordine alle cose come al pensiero su di esse (10).
Analogamente a ὁμολογία, un altro termine sempre di matrice stoica rende l’armonia intrinseca fra la legge naturale e l’essere, quello di οἰκείωσις (oicheiosis), traducibile con «adattamento», «affinità», «relazione», «rapporto familiare». Si tratta dell’appropriazione consapevole che il saggio fa della sua natura, l’appropriazione di ciò che conserva e sviluppa il proprio essere, la sua inabitazione armoniosa nel cosmo, di cui è un tassello perfettamente combaciante (11).
Poiché si può definire l’uomo come essere vivente animale e razionale, le determinazioni maggiori della legge naturale possono essere riassunte sotto almeno tre cappelli: «è bene tutto ciò che garantisce l’esistenza»; «è bene tutto ciò che sviluppa e perpetua l’esistenza propria all’uomo come essere animale»; e infine «è bene tutto ciò che sviluppa e perpetua l’esistenza propria all’uomo come essere razionale». A titolo esemplificativo e non esaustivo si possono ricordare il vestirsi, il nutrirsi, il difendersi dalle aggressioni, il riprodursi e l’educare, l’avere relazioni di comunità e il ricercare e adorare Dio. Tale tripartizione, facilmente scindibile a livello teoretico, non si dà mai separata nella realtà; allo stesso modo i beni appena esemplificati sono fra loro connessi e un bene unico può assolvere a più bisogni: per esempio, il matrimonio garantisce al contempo il bene della sopravvivenza, della perpetuazione fisica della specie, dell’educazione e dell’amorosa relazione fra gli sposi.
6. I luoghi della legge naturale
Se la legge naturale è norma che si ricava dagli esseri stessi per assecondare il loro sviluppo ordinato, tutto quanto può metterci in contatto con tali esseri è un luogo d’incontro legittimo per giungere alla conoscenza di quella.
Si possono identificare, semplificando al massimo, tre luoghi d’incontro (12).
a. L’esperienza
Tutti gli uomini sono sempre a contatto con loro stessi e con i loro simili: la famiglia, la scuola, la comunità sociale e politica, le compagnie sono altrettanti punti di contatto nei quali poter conoscere e vedere all’opera ciò che ostacola o favorisce lo sviluppo ordinato dell’uomo. L’esperienza diretta è il primo e più importante tipo di esperienza, ma non l’unico: il secondo tipo è la storia.
Degli uomini si può fare storia — in senso lato — almeno dal neolitico, cioè a partire dal VIII millennio a. C. Conoscere quali sono state le varie regole, le scelte e le loro conseguenze che hanno caratterizzato il comportamento di innumerevoli uomini viventi all’interno di culture diverse in tempi e luoghi molteplici permette di identificare denominatori comuni, come tali confrontabili.
Lo storico greco Tucidide (460 ca.-395 ca. a. C.) è considerato fra i fondatori della scienza storica così come la conosciamo oggi. Di contro alle narrazioni in uso precedentemente, nelle quali il vero era spesso mescolato al verosimile quando non al fantastico, Tucidide è interessato esclusivamente a quanto è realmente accaduto. In un passo che per tale approccio rigoroso costituisce un manifesto scrive: «Forse l’assenza del favoloso dai fatti li farà apparire meno gradevoli all’ascolto: ma se quanti vorranno vedere la verità degli avvenimenti passati e di quelli che nel futuro si saranno rivelati, in conformità con la natura umana [κατὰ τὸ ἀνθρώπινον], tali o simili a questi, giudicheranno utile la mia narrazione, sarà sufficiente. È stata composta come un possesso per sempre [κτῆμα ἐς αἰεί] piuttosto che come un pezzo per competizione da ascoltare sul momento» (13). Vediamo come in tale brano si sottolinei l’utilità della storia in quanto deposito sperimentale che, proprio in forza del carattere comune — la natura comune — degli uomini suoi attori, permette non solo di conoscere come si è comportato l’uomo, ma anche come si potrà eventualmente comportare in futuro.
Il filosofo napoletano Giambattista Vico (1668-1744) ci offre un esempio efficace di tale processo sperimentale: «Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon esser d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni.
«Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, che tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture» (14).
Dall’osservazione della storia degli uomini è possibile identificare i comportamenti e le loro conseguenze in ordine allo sviluppo ordinato delle loro potenzialità: ascese e declini, successi e fallimenti.
Joseph de Maistre ha potuto così scrivere che la storia è la «politica sperimentale» (15); si può estendere tale concetto fino a dire che la storia è l’antropologia sperimentale.
b. La ragione
Si è in precedenza affermato che ci può essere morale solo dove ci sia ordine e sviluppo, essendo essa lo sforzo di rispettare e assecondare con l’azione libera e consapevole tali ordine e sviluppo; e che se l’imperativo morale «fa’ il bene e fuggi il male» non trova modo di rispondere all’ovvia successiva domanda «cosa sono il bene e il male?», la sua stessa esistenza viene nei fatti vanificata. Metafisica e antropologia sono quindi il necessario prosieguo dell’imperativo morale.
Quando l’esperienza, diretta o storica, viene compiuta dopo aver formalizzato il metodo per compierla; e la riflessione sui dati raccolti viene condotta in modo sistematico, cioè unitario, coerente; allora parliamo di scienza: fisica, biologia, antropologia, psicologia, filosofia, etica, metafisica, storia, archeologia e così via. Tutte queste conoscenze si reggono sull’esperienza quotidiana che le cose, pur essendo molteplici, presentano caratteristiche comuni: questo albero è simile a quell’albero, questo cavallo è simile a quel cavallo — del resto non li chiamerei entrambi alberi o cavalli se non cogliessi un elemento unitario oltre le individualità. Da tale esperienza deriva anche la seguente verità: la conoscenza dell’essere di una cosa permette di avere una conoscenza stabile delle cose che appartengono al medesimo genere; in altre parole: se studio un albero so che la conoscenza che ne ricaverò mi servirà per avere conoscenze certe su tutti gli alberi — conoscenze infinitamente perfezionabili ma stabili, certe.
Si può negare tale verità, e in effetti molti l’hanno negata e la negano tuttora; a parole, perché la carta e l’aria tollerano quasi tutto. La carta e l’aria sì, il comportamento no: così nessuno smette di studiare storia, geografia, chimica, fisica, biologia, farmacia, antropologia, filosofia nella certezza incrollabile che conoscere un individuo di un genere mette nelle condizioni di avere un sapere perfettibile ma certo dell’intero genere, il «possesso per sempre» di cui parla Tucidide.
In filosofia e in antropologia l’identificazione del modo di essere, universale e allo stesso tempo concreto, presente in ogni istanza di un genere di enti si può dire «avere una natura comune con i propri simili».
L’esperienza — prima o scientifica che sia — è quindi fonte di conoscenza universale. La possiamo fare tutti, dotandoci di un poco di spirito di osservazione.
Offre un esempio di tale spirito di osservazione da cui derivare importanti elementi morali un passo, lungo e significativo, della Naturalis historia dello scrittore latino Gaio Plinio Secondo detto il Vecchio (23-79). «Cominceremo a buon diritto dall’uomo, in funzione del quale sembra che la natura abbia generato tutto il resto. Ma essa ha preteso, in cambio di doni così grandi, un prezzo alto e crudele, fino al punto che non è possibile dire con certezza se essa sia stata per l’uomo più una buona madre o una crudele matrigna. In primo luogo lo costringe, unico fra tutti gli esseri viventi, a procacciarsi all’esterno i suoi vestiti. Agli altri, in vario modo, la natura fornisce qualcosa che li copra: gusci, cortecce, pelli, spine, peli, setole, piume, penne, squame, velli; anche i tronchi degli alberi li protegge dal freddo e dal caldo, con uno e talora due strati di corteccia. Soltanto l’uomo essa getta nudo sulla nuda terra, il giorno della sua nascita, abbandonandolo fin dall’inizio ai vagiti e al pianto e, come nessun altro fra tanti esseri viventi, alle lacrime, subito, dal primo istante della propria vita: invece il riso, per Ercole, anche quando è precoce, il più rapido possibile, non è concesso ad alcuno prima del quarantesimo giorno. Subito dopo il suo ingresso alla luce, l’uomo è stretto da ceppi e legami in tutte le membra, quali non si impongono neppure agli animali domestici. Così lui, che ha aperto gli occhi alla felicità, giace a terra con mani e piedi legati, piangente — lui, destinato a regnare su tutte le altre creature — e inaugura la sua vita fra i tormenti, colpevole solo di esser nato. Che stoltezza quella di chi, dopo inizi siffatti, si ritiene destinato ad imprese superbe! Il primo barlume di vigore, il primo dono che il tempo gli concede lo rendono simile a un quadrupede. Quando comincia a camminare e a parlare come un uomo? Quando la sua bocca diventa adatta a prendere il cibo? Quanto a lungo resta molle la sua testa, segno della massima debolezza fra tutti gli esseri viventi! E poi le malattie, e le tante medicine escogitate contro i mali, ma anch’esse vinte ben presto da nuove sciagure! E ogni altro essere sente la propria natura: chi impara a correre velocemente, chi a volare con celerità, chi a nuotare. L’uomo invece non sa far nulla, nulla che non gli sia insegnato: né parlare, né camminare, né mangiare; insomma, per sua natura, non sa fare altro che piangere! Perciò molti hanno pensato che la cosa migliore fosse non nascere, oppure morire al più presto. Solo all’uomo, fra gli esseri viventi, è stato dato il pianto; solo a lui il piacere, che si manifesta in infiniti modi e nelle forme proprie alle singole parti del corpo; solo a lui l’ambizione, l’avidità, una smisurata voglia di vivere, la superstizione, la preoccupazione della sepoltura e anche di ciò che gli accadrà dopo la morte. Nessuno ha una vita più precaria, né maggiore brama di ogni cosa; nessuno è preda di angosce più disordinate, né di un furore più violento. In conclusione, gli altri animali vivono bene tra i propri simili. Li vediamo aggregarsi ed opporre resistenza contro le specie diverse; ma i leoni non sono spinti dalla loro ferocia a combattere contro altri leoni, il morso dei serpenti non assale altri serpenti, e neppure i mostri marini e i pesci incrudeliscono, se non contro specie differenti. Invece, per Ercole, all’uomo la maggior parte dei mali è causata da un altro uomo» (16).
È utile leggere anche, sempre per la medesima esemplificazione, un secondo passo dell’uomo politico, filosofo e scrittore dell’antichità latina Lucio Anneo Seneca (4 a. C.-65 d. C.). «Siamo soliti dire che il sommo bene è vivere secondo natura; ma la natura ci ha generati atti ad ambedue le opzioni: la contemplazione e l’azione.
«Passiamo ora alle prove della prima opzione. Ecché? La prova non verrà da sé, se ciascuno si chiederà quanto desiderio abbia di conoscere l’ignoto, quanto lo interessi ogni racconto?
«Certuni viaggiano per mare, sopportano le fatiche di un lunghissimo peregrinare, per il solo premio di conoscere qualcosa d’ignoto e lontano. Questo è il motivo che raduna le folle agli spettacoli, che ci costringe a spiare nel chiuso attraverso le fessure, ad informarci delle cose più segrete, a compulsare le antiche storie, ad ascoltare notizie sugli usi delle popolazioni barbare. «La natura ci ha dato l’istinto della curiosità e, conscia della propria abilità e bellezza, ci ha generati quali spettatori di immensi spettacoli; perderebbe il risultato delle sue fatiche, se cose tanto grandi, tanto splendide, tanto accuratamente plasmate, tanto limpide e belle di mille bellezze, fossero messe in mostra in un deserto.
«Se vuoi convincerti che era suo intento essere ammirata, non soltanto veduta, osserva il luogo che ci ha assegnato: ci ha situati in posizione centrale di sé e ci ha offerto la visione panoramica dell’universo; non soltanto ha fatto l’uomo ritto ma anche, per rendergli facile l’osservazione, perché potesse seguire le stelle ruotanti dal sorgere al tramontare e girare il suo viso accompagnando il cielo, gli ha rivolto la testa all’alto e l’ha posta su un collo flessibile. Poi, facendo avanzare sei costellazioni di giorno e sei di notte, gli ha dispiegato ogni parte di sé, allo scopo di insinuargli, mediante le cose che gli aveva presentato, il desiderio di conoscere le rimanenti» (17).
Infine ancora Seneca: «È un punto questo su cui navigate, su cui guerreggiate, su cui fondate regni, di pochissima importanza anche quando l’oceano li bagna da entrambi i lati: in alto si trovano spazi immensi, e l’anima è ammessa a possederli, ma a condizione che porti con sé il meno possibile di ciò che viene dal corpo, che si sia tersa da ogni impurità e si sia innalzata libera e leggera e contenta del poco.
«Quando ha toccato quelle altezze, vi trova il suo nutrimento, cresce e, come liberata dalle catene, ritorna alla sua origine e ha una prova della sua natura divina nel fatto che è piacevolmente attratta dalle realtà divine, cui partecipa non come a cose d’altri, ma come a cose che le appartengono» (18).
Delle tre esemplificazioni prendiamo questo ultimo brano: le esperienze che gli uomini fanno — «l’uomo è affascinato dal divino e lo tratta in modo familiare» — sono le basi per svolgere riflessioni strutturate e proferire giudizi: «se trattiamo qualcosa in modo familiare significa che ci appartiene in modo intimo, che quindi gli uomini e tale loro oggetto sono fatti di sostanze che hanno qualcosa di comune fra loro».
Questa è filosofia, cioè scienza, cioè riflessione sistematica, coerente e razionale sulla propria esperienza ordinatamente raccolta.
c. La rivelazione
L’esperienza della contingenza è al contempo esperienza di limitazione in tutte le facoltà, comprese le conoscitive. Come già anticipato, quindi, gli uomini non sono in grado di conoscere compiutamente il mondo e se stessi al punto da potersi fare un’idea completa dell’ordine e dello sviluppo che li caratterizza. Il filosofo greco Eraclito (VI-V secolo a. C.), per esempio, ha reso riguardo alla riflessione dell’uomo su sé stesso una testimonianza che ha fatto scuola: «I confini dell’anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda fino in fondo nel percorrere le sue strade: così profonda è la sua ragione [λόγος]» (19). Non essendo l’origine di sé, l’uomo è mistero a sé stesso. In termini più espliciti si esprime il filosofo greco Platone (428/427-347 a. C.), quando afferma che «sull’idea di anima dobbiamo dire quanto segue.
«Spiegare quale sia, sarebbe compito di una esposizione divina in tutti i sensi e lunga» (20).
Gli uomini sperimentano la propria contingenza, il proprio essere fasciati all’interno di una realtà data la cui osservazione non è mai esaustiva; da tale consapevolezza nasce l’auspicio che Chi di questa realtà è il Principio dia maggiori informazioni, aiuti a illuminare tale complesso sistema di ordini e di sviluppi.
Platone, nel dialogo Fedone, ha espresso in modo abbagliante questo auspicio: «[…] non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri come stiano le cose, oppure scoprirlo da se stessi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina» (21).
Tale esigenza per così dire strutturale è di fatto accentuata da quella sopra accennata ferita originaria dell’intelligenza e della volontà umane, a causa della quale le pulsioni verso i «deteriora» offuscano i «meliora», ossia i precetti della legge naturale, divenuti — di fatto, per certo non di diritto — difficilmente conoscibili nella loro totalità e completezza. Ciò rende ragione, per esempio, della presenza nel dato rivelato del Decalogo. Tale presenza è tutt’altro che ovvia: se le norme del comportamento morale sono a portata della ragione che necessità vi è che Dio le riveli? Esse sono presenti nella rivelazione per almeno due motivi. Il primo è costituito dal fatto che la rivelazione offre all’uomo tutte e solo le conoscenze che servono alla salvezza, siano esse conoscibili con il solo lume naturale della ragione — come nel caso del Decalogo — oppure no — come per esempio nel caso dell’Unità e Trinità di Dio —; la rivelazione certifica, in altre parole, che seguire il Decalogo è necessario alla salvezza. Il secondo motivo, che ci interessa qui, è quello per cui anche i dati conoscibili dal lume naturale della ragione devono essere ricordati nella loro chiarezza e completezza dalla rivelazione proprio a causa della ferita originaria dell’intelletto e della volontà umani.
7. Difficoltà di discernimento della legge naturale nelle umane circostanze
A questo punto, mi pare necessario insistere sul fatto che la condizione umana, limitata e decaduta, rende difficile — e in alcun casi estremamente difficile — l’identificazione delle norme della legge naturale. Ma, oltre a ciò, si aggiunge un ulteriore aspetto che complica ulteriormente il quadro: le circostanze. Ogni osservazione e giudizio umani si compiono sempre in situazioni storiche e culturali particolari: non esiste una «condizione laboratorio», fuori dalle contingenze dello spazio e del tempo, in cui gli uomini possano entrare spogliandosi di tutte le proprie convinzioni, di tutti i propri pre-giudizi, in una parola di tutte le premesse implicite del proprio osservare e ragionare, che derivano loro dall’educazione ricevuta e dalla cultura nella quale sono immersi.
Ciò, è importante sottolinearlo, non significa relativismo: il relativista afferma che la verità è un obiettivo irraggiungibile all’esperienza e al ragionamento; al contrario, l’errore è una possibilità del pensiero, spesso anche molto probabile — ma non una necessità.
Così, dove le verità della legge naturale sono alla base dei pre-giudizi che determinano le decisioni personali e sociali, s’innesca facilmente — senza mai determinarlo — un circolo virtuoso, nel quale la verità già conosciuta e zelata agisce come feconda premessa per la scoperta e la pratica di nuove ulteriori verità. Dove invece — come nella società attuale occidentale, esito di un processo di allontanamento dalla legge naturale — le premesse sono di tutt’altro ordine, si innesca facilmente — anche qui non vi è alcun determinismo — un meccanismo di progressivo allontanamento, dove errori divengono premessa di nuovi errori.
8. Le verifiche della legge naturale
Da quanto finora detto emergono almeno tre modi attraverso i quali è possibile verificare l’appartenenza di un comportamento alla legge naturale, corrispondenti ai tre luoghi d’incontro.
Per inciso, è opportuno sottolineare che tali verifiche, analogamente a quanto sopra detto per relazione ai luoghi di incontro, non sono sempre di facile identificazione nei casi specifici.
Esse sono:
— la verifica tramite gli effetti dei comportamenti, corrispondente all’esperienza;
— la verifica tramite la diffusione del giudizio sui comportamenti, corrispondente alla ragione;
— la verifica tramite l’insegnamento della religione, corrispondente alla rivelazione.
a. Gli effetti dei comportamenti
La prima è quella che mi pare di poter chiamare anche «ordalia dell’essere e del tempo». Un comportamento innaturale, nella misura in cui lo è, genera il — lento o celere — deperimento dei singoli e delle comunità che lo scelgono. Infatti se la legge naturale è tutto quanto rispetta e favorisce lo sviluppo ordinato degli uomini, qualsiasi comportamento innaturale fa involvere i singoli e le comunità. Nel caso in cui tale comportamento vada a ledere in modo troppo grave la natura può anche non essere garantita la sopravvivenza fisica dei singoli e delle comunità. Esempi di ciò sono per i singoli il comportamento drogastico, per le comunità il nazional-socialismo e il social-comunismo.
Nelle comunità la mancanza di visioni chiare e positive della vita genera una stanchezza di vivere che è tangibile per esempio nel crollo demografico e nella mancanza di iniziativa in tutti i settori: nelle società afflitte da tale crisi è come se fosse all’opera una selezione naturale, secondo cui chi ama la vita dalla vita è benedetto, e chi la odia, cioè si ritrae da essa, lascia il proprio ramo sociale inaridirsi sempre più; la storia dell’impero romano e la storia dell’Europa secolarizzata contemporanea ne sono chiari esempi. L’essere stesso rifiuta in modo proporzionato chi non rispetta in modo più o meno grave le leggi che lo governano. L’essere vince sempre, perché è «buono», «solido», «non fa acqua», semplicemente «è»; il «male che vince», che «trionfa», è la malattia che muore con il malato — lasciando presto o tardi di nuovo il proprio spazio all’essere.
b. La diffusione del giudizio sui comportamenti
Il secondo banco di prova di un comportamento è la diffusione del giudizio positivo su di esso: laddove sia possibile identificare un comportamento ritenuto buono in modo costante sia nel tempo che nello spazio, ossia che venga valutato tale da popoli ed epoche diverse, i quali lo pongono fra i fondamenti del proprio vivere come singoli e come comunità, non si può immaginare che tale comportamento sia innaturale all’uomo.
Vi è una sorta di plebiscito dell’umanità, secondo il quale il giudizio ripetuto dalla maggior parte dei suoi membri può essere errato nelle sfumature ma non nella sostanza, pena l’ammettere che le facoltà degli uomini non siano solo limitate e ferite, ma proprio difettose. Se sono difettose diviene interessante sapere a che titolo il singolo o la «minoranza illuminata» che osano tale giudizio si ritengono gli unici depositari di un intelletto sano.
c. L’insegnamento della religione
La possibilità di accedere a un sapere strutturato che con autorità racconta ciò che, stando «al di dentro» della contingenza, non si può vedere come standone «al di fuori» è una ricchezza straordinaria di cui nel corso dei secoli anche pensatori non cattolici si sono serviti. Pur essendo consuetamente argomentato in termini razionali, il peso di questo insegnamento non deriva dall’argomentazione ma dall’autorità del dichiarante, Dio direttamente o tramite un suo legittimo rappresentante.
La comunità dei credenti è strutturata in due ambiti: la Chiesa docente, costituita dal Papa e dai vescovi in comunione con lui, alla quale è stato dato, fra gli altri, l’incarico di trasmettere la dottrina e di portare a compimento i semi contenuti in essa perché, sotto la guida dello Spirito Santo, conducano l’intera Chiesa verso la verità tutta intera; e la Chiesa discente, cui partecipano tutti gli altri credenti in ossequio alla docente.
Così si esprime il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) in merito alla Chiesa docente: «Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4). I vescovi che insegnano in comunione col romano Pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accettare il giudizio dal loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e dargli l’assenso religioso del loro spirito. Ma questo assenso religioso della volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla “ex cathedra”. Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall’insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi.
«Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo. La cosa è ancora più manifesta quando, radunati in Concilio ecumenico, sono per tutta la Chiesa dottori e giudici della fede e della morale; allora bisogna aderire alle loro definizioni con l’ossequio della fede» (22).
Si può dunque definire il diverso grado di autorità dell’insegnamento e del giudizio che viene svolto nell’ambito della comunità dei credenti. È opportuno fare un esempio, con riferimento alla dottrina sociale, ambito della dottrina cattolica che interseca in modo strutturale la legge naturale.
Si parla di «dottrina sociale della Chiesa» quando l’insegnamento dei princìpi di riflessione, dei criteri di giudizio e delle direttive di azione è fatta dalla Chiesa docente. Sono quindi parte integrante di essa tutti i documenti del magistero pontificio che riguardano la vita in società; a titolo esemplificativo le encicliche Rerum Novarum (23), del 1891, di Papa Leone XIII (1878-1903), la Quadragesimo Anno (24), del 1931, di Papa Pio XI (1922-1939), la Centesimus Annus (25), del 1991, di Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005); o del magistero episcopale, come per esempio la Lettera pastorale che i vescovi dell’Ecuador riuniti in Concilio Provinciale indirizzano ai loro fedeli diocesani (26), del 1885.
Si parla invece di «dottrina sociale cristiana» per tutti i documenti scritti da membri della Chiesa discente, i quali, anche se sacerdoti, anche se religiosi, anche se particolarmente dotti, sono comunque semplici fedeli. Il valore di tali documenti è quindi legato alla validità delle evidenze mostrate e alla correttezza dei ragionamenti, mentre quelli che provengono dalla Chiesa docente hanno un peso che deriva dalla fonte da cui promanano: il magistero episcopale preso in sé non è certamente infallibile, perché è un ministero che deve essere svolto in comunione con Pietro, e come tale può, nei tempi e nei modi opportuni, anche essere criticato; quando si parla di magistero pontificio, invece, ci si trova di fronte all’ultima istanza dell’autorità, e come tale deve essere recepita dai fedeli (27).
Note:
(1) Marco Tullio Cicerone (106-43 a. C.), De re publica, 3, fr. VI, in Idem, Dello Stato, testo latino, Zanichelli, Bologna 1990, pp. 214-215.
(2) Cfr. soprattutto san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, qq. 90-96; Idem, Contra gentiles, III, 135-140; una esposizione magistrale del tema della legge in san Tommaso è contenuta in Étienne Gilson (1884-1978), Il tomismo. Introduzione alla filosofia di san Tommaso d’Aquino, ed. it. condotta sulla sesta edizione francese a cura di Costante Marabelli e Filippo Marabelli, con una Presentazione di Azzolino Chiappini e un Saggio introduttivo di Costante Marabelli, Jaca Book, Milano 2011, pp. 440-449.
(3) Cfr. il sito web <http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_con_cfaith_doc_20090520_legge-naturale_it.html>, consultato il 28-10-2017.
(4) Cfr. Joseph de Maistre, Stato di natura. Contro Jean-Jacques Rousseau, trad. it., Mimesis, Milano-Udine 2013; Idem, Le serate di San Pietroburgo. Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, con mia Prefazione, Fede & Cultura, Verona 2014; e Idem, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, trad. it., con una Nota dell’editore, Il Cerchio – Iniziative editoriali, Rimini 2012.
(5) È degno di nota che due stralci del brano del retore e filosofo latino Cicerone in epigrafe siano citati dal Catechismo della Chiesa Cattolica nel paragrafo dedicato alla legge morale naturale (nn. 1954-1960, segnatamente al n. 1956); a un rapido — ma non troppo — controllo e fino alla possibile smentita è risultata l’unica citazione di un testo pagano nel catechismo.
(6) Mi sono avvalso anche di altri contributi, fra i quali Alberto Caturelli (1927-2016), Orden natural y orden moral. Lecciones de Filosofía Moral, Gladius, Buenos Aires 2011; José Antonio Ibarbia Goenaga S.J. (1903-1975), Philosophia socialis, C.I.S.I.C. Institutum Sociologiae Pastoralis, Roma 1964; Augusto Guzzo (1894-1987), Vittorio Mathieu e Virgilio Melchiorre, Natura, in Enciclopedia filosofica, 20 voll., Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate-Bompiani, Milano 2006, vol. VIII, Men-Pap, pp. 7729-7748; Antonio Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, nuova edizione interamente rielaborata, Leonardo da Vinci, Roma 2010; beato Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), Introduzione alla filosofia, vol. 2 di Opere edite e inedite di Antonio Rosmini, edizione nazionale promossa da Enrico Castelli (1900-1977), edizione critica promossa da Michele Federico Sciacca (1908-1975), a cura dell’Istituto di Studi Filosofici — Roma, e del Centro di Studi Rosminiani — Stresa, a cura di Vincenzo Sala, Città Nuova Editrice, Roma 1979, vol. II; Idem, Teodicea libri tre, ibid., vol. XXII, a cura di Umberto Muratore, I.C., 1977, pp. 7-570; e Carmelo Vigna e Susy Zanardo (a cura di), La regola d’oro come etica universale, Vita e Pensiero, Milano 2005.
(7) Sofocle, Antigone, vv. 446-460, in Idem, Tragedie e frammenti, trad. it., UTET, Torino 1982, vol. I, pp. 251-339 (pp. 282-285).
(8) Cfr. per esempio Esiodo (VII secolo a. C.), Le opere e i giorni, vv. 1-201, in Idem, Opere, trad. it., UTET, Torino 1977, pp. 247-299 (pp. 248-261); Marcel Griaule (1898-1956), Dio d’acqua, trad. it., Bompiani, Milano 1968, soprattutto pp. 24-33; e più estesamente Mircea Eliade (1907-1986), Miti, sogni, misteri, trad. it., Lindau 2007, soprattutto pp. 79-95.
(9) Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, VII, vv. 20-21, in Idem, Opere, trad. it., UTET, Torino 2000, vol. III, Metamorfosi, pp. 322-323.
(10) Cfr. Max Pohlenz (1872-1962), La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it., Bompiani, Milano 2005, pp. 235-236.
(11) Cfr. ibid., pp. 105-106.
(12) Cfr. Alleanza Cattolica, Direttorio. Profilo dottrinale e operativo proposto alla meditazione e alla pratica «ad experimentum» in occasione del Primo Capitolo Generale tenuto nel mese di maggio del 1977. Seconda versione proposta «ad experimentum» in occasione del Capitolo Generale tenuto nel mese di febbraio del 2011, n. 1.4; la fonte di tale tripartizione è J. A. Ibarbia Goenaga S.J., op. cit., p. 9.
(13) Tucidide, Storie, I, 22, in Idem, Le storie, trad. it., 2 voll., UTET, Torino 1982, vol. I, pp. 124-125.
(14) Giambattista Vico, Princìpi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1744), libro primo Dello stabilimento de’ princìpi, sezione terza De’ princìpi, 332-333, in Idem, Opere, 2 voll., a cura di Andrea Battistini, Mondadori, Milano 1990, vol. I, pp. 411-971 (p. 542).
(15) J. de Maistre, Della sovranità del popolo, trad. it., Editoriale Scientifica, Napoli 1999, p. 94.
(16) Gaio Plinio Secondo detto Il Vecchio, Naturalis historia, VII, 1, in Idem, Storia naturale, trad. it., 5 voll. in 6 tomi, Einaudi, Torino 1982-1988, vol. II, Antropologia e zoologia. Libri 7-11, 1983, pp. 8-11.
(17) Lucio Anneo Seneca, De otio, 4.2-5.4, in Idem, Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, trad. it., Bompiani, Milano 2000, pp. 185-195 (p. 191).
(18) Idem, Naturales quaestiones, I, praefatio, 11-12, ibid., pp. 501-681 (p. 513).
(19) Eraclito, B, 45, in Giovanni Reale [1931-2014] (a cura di), I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano 2008, pp. 350-351.
(20) Platone, Fedro, 246 A, in Idem, Tutti gli scritti, trad. it., Bompiani 2008, pp. 535-594 (p. 555).
(21) Idem, Fedone, 85 C-D, ibid., pp. 67-130 (p. 95).
(22) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa «Lumen Gentium», del 21-11-1964, n. 25.
(23) Cfr. Leone XIII, Lettera enciclica «Rerum Novarum» sulla condizione degli operai, del 15-5-1891.
(24) Cfr. Pio XI, Lettera enciclica «Quadragesimo Anno» sulla ricostruzione dell’ordine sociale nel 40° anniversario della «Rerum Novarum», del 15-5-1931.
(25) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Centesimus Annus» nel centenario della «Rerum Novarum», del 1°-5-1991.
(26) Cfr. Lettera pastorale che i vescovi dell’Ecuador riuniti in Concilio Provinciale indirizzano ai loro fedeli diocesani, in A. Caturelli, Esame critico del liberalismo come concezione del mondo, trad. it., premessa e cura di Oscar Sanguinetti, D’Ettoris Editori, Crotone 2015, pp. 141-179.
(27) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 880-892, soprattutto nn. 888-892.