Antonio Maria Sicari OCD, Cristianità n. 386 (2017)
L’abito della Vergine
Pubblichiamo volentieri questo testo di padre Antonio Maria Sicari, dell’Ordine dei carmelitani scalzi, noto soprattutto per i suoi Ritratti di santi — di cui sono usciti finora quindici volumi presso l’editrice Jaca Book —, che aiuta a comprendere la bellezza e la profondità della devozione allo scapolare della Vergine del Carmelo. Molti militanti e amici di Alleanza Cattolica lo portano come segno di amore filiale nei confronti di Maria. Viene indossato, da chi lo desidera, a conclusione degli esercizi spirituali di sant’Ignazio promossi dalla Fraternità San Filippo Neri.
I primi ricordi
La devozione alla Vergine Carmelitana — titolo che, però, risale al secolo XV — nasce al tempo delle crociate, quando il popolo cristiano si andava affezionando, in maniera crescente, ai segni del passaggio di Gesù su questa terra e ne ricercava appassionatamente le tracce.
Allora i pellegrini si dedicarono con fede ingenua a rintracciare tutti i luoghi evangelici cari al loro cuore.
In particolare, quelli legati al ricordo di Maria furono oggetto d’intensa ricerca e devozione: alcuni di essi erano carichi di evidenze e di certezze storiche, soprattutto a Nazareth e a Betlemme; altre «identificazioni» — ad Ain Karim, a Cana, a Gerusalemme — erano frutto di tradizioni popolari, ma tutto contribuiva a tramandare e a diffondere la devozione a Maria e una certa conoscenza «teologica» popolare dei misteri mariani.
Così, vicino alla Porta Aurea in Gerusalemme veniva mostrata la casa di Gioacchino e Anna, dove era avvenuta l’«immacolata concezione» di Maria e dove sarebbe stato fondato il primo convento di carmelitani nella Città Santa; nella povera abitazione di Nazareth si venerava il suo «verginale concepimento»; nella cappella laterale del Calvario si ergeva l’altare dell’Addolorata che ricordava il suo ruolo di «corredentrice»; sul Sion c’era la chiesa della «dormizione», da dove Maria era stata «assunta in cielo»; e in tanti altri luoghi, indicati dalla tradizione popolare, si ricordavano il suo passaggio e le sue grazie, inizi della sua certa e universale mediazione.
Anche la sacra montagna del Carmelo offriva ai pellegrini un certo «discorso mariano» che non era strettamente biblico o evangelico, ma comunque legato a quel mondo sacro. E ciò, anzitutto, perché nella splendida valletta che dal Carmelo si affaccia sul mare vi era un raggruppamento di eremiti che avevano dedicato la loro chiesetta alla Vergine, scegliendoLa come patrona.
L’anonimo estensore di uno degli antichi «itinerari» — La Citez de Hierusalém, racconto di viaggio di un pellegrino, scritto fra il 1220 e il 1231 — ne parla così: «Sul fianco della medesima montagna [del Carmelo] vi è un luogo molto bello e delizioso, dove abitano gli eremiti latini chiamati frati carmelitani; là vi è una piccola chiesa della Madonna. In tutta la zona c’è abbondanza di buone acque che escono dalla stessa roccia della montagna».
Era il tempo in cui i crociati accorrevano in Palestina come «vassalli di Cristo», venuti a difendere la terra del loro Dominus, e anche quegli eremiti carmelitani si erano riuniti per prestare a Cristo Signore il loro obbediente servizio di fede, l’obsequium. Ma era anche il tempo in cui l’Europa si riempiva di cattedrali dedicate a «Nostra Signora» e anche gli eremiti avevano deciso di riconoscere la Santa Vergine come Domina: «Signora del luogo» e «patrona», alla quale intendevano prestare uno spirituale vassallaggio.
Era noto a tutti, del resto, che il biblico Cantico dei Cantici aveva paragonato la bellezza della Sposa a quella della santa montagna — «Quanto sei bella, o mia diletta! Il tuo capo è simile al Carmelo», 7,6 — e che il profeta Isaia aveva descritto la santa Gerusalemme come una Sposa alla quale «è stata data la gloria del Libano e la bellezza del Carmelo» (Is. 35,2): testi celebri che l’esegesi tradizionale, i canti liturgici e la pietà popolare attribuivano alla Vergine, al punto che il Monte Carmelo veniva considerato «possedimento di Maria». Veniva considerato anche come una «terra promessa», «giardino di grazie», per il fatto che questo era il significato originale del nome Carmel (1).
Inoltre, i pellegrini che si recavano sul Carmelo sapevano che quel monte era sacro al santo e glorioso profeta Elia, tanto che gli stessi eremiti erano ritenuti suoi discendenti e discepoli.
Bisogno di protezione
Quando, dunque, gli eremiti carmelitani dovettero trasmigrare in Occidente, verso il 1238 — scacciati dai saraceni che si andavano man mano impadronendo di tutta la Terra Santa —, vi giunsero sconosciuti e indesiderati — perché la Chiesa aveva anche il problema di una eccessiva e incontrollata proliferazione di ordini e comunità religiose —, ma pur consapevoli di un particolare lignaggio spirituale e di un particolare legame di origine con la Vergine, di cui amavano dirsi «fratelli», alludendo al loro patrimonio spirituale, storico e leggendario (2), intriso di familiarità, al punto che non temevano di chiamare Maria loro «bellissima Sorella» (3).
Fra il 17 luglio 1274 — data in cui un decreto dell’ultima sessione del Concilio di Lione salvava i carmelitani da una immediata soppressione — e il 1374, quando, durante una disputa all’Università di Cambridge, veniva solennemente riconosciuto loro il diritto di chiamarsi «fratelli della Vergine», i carmelitani dovettero lottare per sopravvivere, e gli accadimenti principali e i principali riconoscimenti ottenuti da pontefici, concili, vescovi e università furono vissuti come grazie ricevute da Maria (4).
In breve, tutti i titoli mariani, le devozioni e le preghiere dei frati tesero a convergere verso la venerazione di Maria come «Madre dell’Ordine Carmelitano», e anche questo titolo voleva includere non solo l’invito ai frati perché imparassero ad affidarsi a lei in ogni circostanza, ma anche la «notizia genealogica» — o, se si vuole, il ricordo — del fatto che l’Ordine era stato da lei generato con un’azione simile a quella della generazione del Figlio di Dio. Perfino i pontefici nel corso dei secoli impareranno ad esprimersi così e indirizzeranno i loro documenti ai carmelitani sottolineando — come Papa Sisto IV (1471-1484) nella Bolla Dum attenta Meditatione, del novembre 1476 — che «la Beata Vergine Maria diede alla luce Cristo e mise al mondo l’ordine carmelitano».
Così la «teologia mariana carmelitana» delle origini, per tanti versi ingenua e ricca d’incanto, nel corso dei secoli XIII e XIV andò riversandosi in un alveo più universale: quello della protezione di Maria, la Mater omnium, che raccoglie i figli sotto il suo manto, rivestendoli di grazie e di cure, un tema antichissimo che troviamo già nella più antica preghiera mariana oggi conosciuta, il Sub tuum praesidium, che deve essere tradotto: «Sotto il tuo manto misericordioso noi tutti ci rifugiamo, Santa Madre di Dio».
Ed è a questo punto che si lega la vicenda dello Scapolare, quando l’abito religioso fu non solo indossato in onore di Maria, e per affidarsi a lei, ma venne recepito come suo dono, come sua promessa certa di protezione e misericordia.
Il dono dell’abito
Per i medioevali la percezione che l’abito religioso fosse «di Maria» e fosse un suo dono era in molti casi ovvia: persuasione teologicamente fondata sulla comune devozione alla Vergine e sulla fede indiscussa nella sua Maternità e nella sua Mediazione, nonché sulla certezza del suo intervento attivo nelle vicende dei cristiani.
Il racconto delle rispettive visioni in cui il santo — fondatore o interprete — riceve l’abito all’origine, o riceve nuovamente un abito già esistente, ma dotato di grazie e di privilegi, esprime piuttosto l’atto con cui coloro che ne sono rivestiti lo rimettono nelle mani della Madre e ne scoprono i significati profondi e gli impegni che da esso derivano.
Ed ecco, dunque, in particolare, la vicenda di san Simone Stock (1165 ca.-1265) — di origine inglese, sesto priore generale dell’Ordine Carmelitano —, che nel 1251 avrebbe implorato dalla Vergine un particolare soccorso per l’Ordine in pericolo e avrebbe ricevuto in dono l’abito — peraltro già in uso — con l’assicurazione bruciante che in hoc moriens aeternum non patietur incendium: «chi morirà indossandolo non cadrà nelle eterne fiamme dell’inferno».
La richiesta del priore generale riguarda la sopravvivenza storica del suo Ordine, allora incompreso in Occidente e perseguitato: egli chiede dunque alla Vergine un qualche privilegio, qualcosa che lo garantisse e lo stabilisse nella Chiesa, e questo «qualcosa» che ottiene — in grado di ottenergli credito presso Papi, vescovi e fedeli — è la certezza che con quell’abito si sarà liberati dalle pene dell’inferno.
Nel Medioevo non occorreva altro per ottenere un ampio spazio vitale nella Chiesa e per vedere accorrere con simpatia masse di cristiani.
Un abito per evitare l’inferno
In quei secoli si diffuse un uso che oggi ci farebbe sorridere, anche se ne restano tracce anche ai nostri giorni, quello dei laici che chiedevano la grazia di essere seppelliti indossando l’abito religioso al quale si sentivano spiritualmente vicini: c’era chi sceglieva l’abito benedettino o certosino o domenicano o francescano o carmelitano o di qualche altro Ordine. Questi laici avevano parte ai meriti, alle preghiere e ai suffragi propri dell’Ordine, e la Chiesa garantiva loro particolari indulgenze.
Il dono dello Scapolare, fatto dalla Vergine a san Simone Stock, aveva dunque questa valenza immediata: la Madre riprendeva nelle sue mani l’abito dei suoi figli — o forse, come abbiamo detto, i figli lo mettevano nuovamente nelle sue mani — ed Ella lo restituiva loro confermando la sicurezza di quel sacro rivestimento contro i pericoli infernali.
Primitiva e scabra fin che si vuole — perché tutta orientata verso l’eterna salvezza, nelle forme dell’assicurazione sulla vita —, la teologia soggiacente non era però sostanzialmente diversa da quella che, ai nostri tempi, spinge i cristiani a cercare negli antichi Ordini una spiritualità di cui vivere una strada di santità, una patria spirituale.
Oggi noi sappiamo che «essere tutti chiamati alla salvezza» non è cosa diversa dall’«essere tutti chiamati alla santità», anche se il passaggio da una formulazione all’altra ha richiesto secoli di riflessione e di approfondimenti teologici e di esperienze spirituali. C’è voluto quasi tutto il secondo millennio perché la prima formulazione sfuggisse alle tentazioni minimaliste e alla mentalità manichea, alle preoccupazioni solo moraleggianti e alla visione contrattualista dei rapporti con Dio, alla indebita gerarchizzazione degli stati di vita e al pregiudizio negativo che pesava sulla condizione coniugale e laicale. C’è voluta la pienezza della coscienza ecclesiale raggiunta nel Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) perché i cristiani concepissero la loro salvezza come «santità», donata a tutti e a tutti possibile.
Nel frattempo e con gli stessi tempi di maturazione si è evoluta anche la questione dell’«abito di protezione» che i fedeli, consacrati e no, hanno continuato a chiedere alla loro Madre: abito di salvezza e/o di santità, secondo la coscienza che essi hanno di volta in volta maturata a riguardo della loro eminente dignità di battezzati.
Un abito per il Paradiso
La questione dell’abito dei frati — considerato e desiderato come abito di salvezza e/o di santità —, benché fosse in quel tempo molto generalizzata ed espressa in tante devozioni diverse, si è via via solidificata attorno alla storia dello Scapolare del Carmine, la cui pratica e la cui devozione si sono affermate e universalmente diffuse man mano che altri usi e tradizioni tendevano a scomparire.
Si tratta di comprenderne il perché. Dobbiamo qui ricordare un’altra vicenda, quella del cosiddetto «privilegio sabatino», legato allo Scapolare in base a un avvenimento che sarebbe accaduto una cinquantina d’anni dopo la visione di san Simone Stock.
Si narra che Jacques Duèze (1249-1334), dal 1316 Papa Giovanni XXII, avrebbe avuto una visione in cui la Madonna gli chiedeva di proteggere l’Ordine Carmelitano. Ella, da parte sua, s’impegnava a liberare dalle fiamme del Purgatorio tutti i fedeli, religiosi e non, che morissero rivestiti dell’abito dell’Ordine — allora ci si riferiva soprattutto al mantello bianco. Anzi, li avrebbe liberati da quelle pene il primo sabato dopo la morte, essendo il sabato un giorno a lei consacrato.
Di fatto, nel corso dei secoli numerosi pontefici confermarono quella pia credenza e le pratiche ad essa connesse — portare «il segno dell’abito», osservare la castità secondo il proprio stato, recitare se possibile le ore canoniche, osservare particolari digiuni e astinenze —, senza impegnarsi sulla storicità del racconto, ma attingendo direttamente alla loro autorità. Era lo stesso procedimento già osservato per la visione dello Scapolare: se non si può storicamente provare che Maria abbia offerto di sua iniziativa un miracoloso privilegio, si può comunque trarne lo spunto per mettersi devotamente ed efficacemente nelle sue mani.
E poiché questo affidamento del fedele è lo scopo da raggiungere, la Chiesa può riconoscere da sé la strada che conduce a tal fine. Per usare una formulazione libera e simpatica, si può dire che nel rapporto fra Maria e la Chiesa possono accadere ambedue le cose: che Maria offra miracolosamente un privilegio per stringere a sé i suoi figli, o che i suoi figli si stringano a lei al punto da ottenere un miracoloso privilegio.
Evidentemente il procedimento non è semplicistico, perché bisogna anche badare che la fede, in tal modo, si accresca e non ne abbia detrimento. Tanto è vero che non esiste soltanto la storia della incredibile diffusione dello Scapolare, a cui i fedeli si sono sempre aggrappati con sorprendente fiducia, ma anche la storia dell’opposizione aspra che coinvolse eretici, giansenisti e anche teologi cattolici.
Si sa ad esempio che verso il 1603 il cardinal vicario Camillo Borghese (1552-1621), il futuro Papa Paolo V (1605-1621), era fortemente intenzionato a sopprimere ogni indulgenza e ogni privilegio, impedendone la predicazione, perché gli era giunto fra le mani un memoriale scandaloso. In esso alcune persone gelose «[…] esponevano come una cortegiana di Roma la quale portava l’habito di essa Madonna del Carmine, non voleva lasciar il peccato, dicendo che, per l’habito che portava, gli sarebbero perdonati tutti gli suoi peccati. Di più esponevano che un macellaro, qual nel suo essercitio aveva rubati molti denari et portava similmente l’habito della Madonna, diceva non essere obbligato a restituire poiche per l’habito che aveva, veneva esser liberato da tal obbligo. Concludevano poi nel detto memoriale che simili inconvenienti gli havevano predicati e divulgati gli Frati del Carmine, per interessi propri» (5).
E si sa che, nelle varie nazioni cattoliche, l’Inquisizione vigilava attentamente e spesso interveniva a proibire la predicazione dei privilegi legati allo Scapolare, quando riteneva che le formule usate non fossero in sintonia con i princìpi della fede. La questione fondamentale riguardava le parole stesse della Madonna a san Simone Stock: la formula originaria «in hoc moriens aeternum non patietur incendium» sembrava troppo assoluta e pericolosa. Tutti erano d’accordo che bisognava interpretarla analogicamente ad altre formule simili.
I teologi carmelitani avevano buon gioco a ricordare che la stessa Scrittura dice che «chiunque sarà battezzato sarà salvo» (Mc. 16,16) e che «chi mangia il corpo del Signore non muore in eterno»; eppure tutti sanno che neppure il Battesimo e l’Eucaristia garantiscono la salvezza se chi li riceve non vive in maniera degna dei sacramenti ricevuti. A maggior ragione bisognava, dunque, dirlo e pensarlo dello Scapolare.
Il ragionamento non faceva una piega, ma a molti la formula usata nel racconto della visione sembrava comunque troppo pericolosa, perché poteva indurre ad atteggiamenti superstiziosi.
La soluzione fu semplicissima e tuttavia saggiamente rigorosa. La Chiesa, con una decisione di Papa Clemente X (1670-1676) nel 1672, volle che la formula mariana fosse così precisata: «In hoc pie moriens, aeternum non patietur incendium»: «non subirà il fuoco eterno chi morirà piamente rivestito dal Santo Scapolare». Da allora tutti i testi liturgici furono corretti in tal senso. Si noti che l’avverbio può essere riferito sia all’atto del morire — e per «morire piamente» bisogna aver consegnato a Dio la propria vita, sia pure in un ultimo sussulto di «filialità» —, sia all’atto del morire «piamente rivestiti dallo Scapolare», avendolo cioè portato con la dignità filiale che a un tale abito conviene.
Per quanto riguarda il privilegio sabatino, invece, la Chiesa volle che non lo si illustrasse con forme indebite: non si doveva né dire che Maria scendeva nel Purgatorio a liberare le anime, né raffigurarla così — nelle fiamme scendevano gli angeli custodi da lei inviati, come si vede puntualmente nelle numerose raffigurazioni che adornano le nostre chiese e tanti capitelli —; e non si doveva legare troppo meccanicamente la grazia della liberazione a un computo cronologico.
Inoltre, anche in questo caso, il racconto della promessa fatta da Maria a Giovanni XXII doveva essere introdotto da un «pie creditur»: lo si crede «piamente», cioè con atteggiamento «filiale», che non pretende insegnare indebite certezze. Ma è bello anche ricordare che nell’Ordine invalse l’uso di invocare Maria con questo «elogio di speranza»: «Auxilium in die sabbati» (6).
Resta comunque, alla fine, una domanda: non vi è stata una perdita di vigore nel passaggio dalla promessa fatta a san Simone Stock — la liberazione dalle fiamme infernali — a quella fatta a Giovanni XXII — la veloce liberazione dalle fiamme del Purgatorio? Certamente la seconda non esclude la prima, anzi, così come suona, la seconda promessa è perfino più esigente: sia perché la speranza si volge verso una più sollecita entrata in Paradiso, sia perché le richieste della Vergine sono più esplicitamente indirizzate verso la santità della vita dei suoi devoti.
Tuttavia la prima questione è quella radicale e bruciante, e allontanarla dall’orizzonte del nostro spirito potrebbe essere deleterio, mentre la seconda potrebbe più facilmente scivolare nel devozionale.
E il mondo divenne carmelitano
Bisogna tuttavia ammettere che fu il «privilegio sabatino» a rendere universale la devozione all’abitino del Carmine.
Con opportune correzioni dell’autorità ecclesiastica — che andavano tutte nel senso di legare la veste esteriore con l’atteggiamento filiale del cuore —, la pratica di rivestirsi dello Scapolare carmelitano si diffuse in maniera incredibile. La festa della Madonna del Carmine divenne «la festa dell’abito», come si usava dire nella Spagna del secolo XVI.
Mediante lo Scapolare si aggregarono all’Ordine Carmelitano schiere innumerevoli di laici: verso la fine di quel secolo uno scrittore diceva che la Spagna sembrava diventata tutta un immenso convento carmelitano; qualcosa di simile accadeva in Italia e nelle terre di Oltreoceano; nel secolo XVII la devozione invase la Francia, dove soprattutto nobili e regnanti si pregiavano di indossare una tale livrea, e si diffuse a livello universale. In certe regioni invalse addirittura l’uso di dare lo Scapolare assieme al battesimo. Nell’India del Sud, ancor oggi, esso è addirittura segno dell’appartenenza alla Chiesa Cattolica. Ed è caratteristico, oltre che raro, il fatto che la celebrazione liturgica della festa del Madonna del Carmine ebbe perfino la forza di penetrare in altri riti cristiani, e la si trova ancora in quello mozarabico, greco-albanese, caldeo, maronita…
Si può dire che la devozione allo Scapolare ereditò, conservandolo fino ai nostri giorni, l’immenso flusso di devozione con cui il Medioevo si rivolse a Maria e corse a rifugiarsi sotto il suo manto misericordioso.
«L’abito di salvezza e di santità»
Vale ora la pena rivedere i fondamenti e i contenuti teologici di questa devozione, ripercorrendo il cammino a ritroso: partendo, cioè, dalla maggiore chiarezza che oggi possediamo, fino a rintracciare le sante radici da cui ancora traiamo linfa.
Il testo teologico che meglio spiega il rapporto che lega Maria ai cristiani lo si trova nelle ultime battute della Lumen Gentium dove si legge: «Con materna carità ella si prende cura dei fratelli del Figlio suo, ancora peregrinanti e posti in mezzo ai pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata. Per questo la Beata Vergine è invocata dalla Chiesa con i titoli di Avvocata, Ausiliatrice, Soccorritrice, Mediatrice» (7).
Non può sfuggire il fatto che proprio queste parole — che esprimono in maniera «costituzionalmente dogmatica» la relazione che intercorre fra Maria e i fedeli cristiani (la cura materna che Ella si prende, le penose situazioni in cui essi si dibattono, il porto in cui Ella li conduce) — potrebbero riassumere alla lettera i racconti sopra narrati sul dono dello Scapolare.
La vicenda carmelitana, infatti, non si configura in altro modo che come caso particolare — una particolare applicazione — della materna carità con cui la Vergine «si prende cura dei fratelli del Figlio suo, ancora peregrinanti e posti in mezzo ai pericoli e affanni» e garantisce loro di raggiungere la «patria beata» (8). Vi si aggiunge solo un segno espressivo, quello dell’abito con cui la Madre riveste amorevolmente i suoi figli. A sua volta, il segno della veste è, fra tutti, quello che meglio rievoca il mondo biblico in genere e quello familiare in specie; potremmo dire, il mondo dell’Incarnazione, il mondo di Nazareth.
«Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, e mi ha avvolto col manto della giustizia» (Is. 61,10). Questa preghiera-ringraziamento si trova proprio là dove il Profeta ha dato voce al Servo di Jahvè che dà il «lieto annuncio» di un grande Giubileo: «Lo Spirito del Signore è sopra di me / perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione / e mi ha mandato a portare un lieto annunzio ai miseri / a fasciare le piaghe dei cuori spezzati / a proclamare la libertà degli schiavi / la scarcerazione dei prigionieri / e a proclamare l’anno di misericordia del Signore» (Is. 61,1-2).
E poiché questo annuncio verrà letteralmente ripreso e personalizzato da Gesù di Nazareth (cfr. Lc. 4,18-19), è a Lui che si riferisce anche la gioia riconoscente di sapersi rivestiti di salvezza e avvolti da un manto di giustizia.
Anche questo canto di ringraziamento, del resto, ha un suono molto vicino a quello del Magnificat. «Rivestirsi di Cristo» è il senso dell’avvenimento e del dono battesimale: «Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo!» (Gal. 3,27) ed è di conseguenza l’urgente imperativo rivolto ai cristiani: «Rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm. 13,14).
Dicono gli esegeti che questa «è un’espressione favorita da S. Paolo (cfr. anche Col 3,9; Ef 4,24) ed esprime la trasformazione, la compenetrazione e la mistica identificazione dei fedeli con Cristo; tutto questo comporta l’assimilazione del suo pensiero e dei suoi sentimenti, la imitazione delle sue virtù, la comunione della sua vita medesima. Rivestirsi di Cristo è rivestirsi delle “armi della luce”» (9).
E, per quanto riguarda l’estensione e l’applicazione di questo invito alla vicenda carmelitana, non si può dimenticare che il tema del «rivestimento della creatura nuova», e i testi biblici ad esso collegati, hanno nella Regola un posto centrale (10).
Il simbolo della veste ha dunque questa particolare natura: è elementare, addirittura semplice e modesto, ma può condurci fino alle più abissali profondità mistiche. Il venerabile Papa Pio XII (1939-1958), in occasione del settecentesimo anniversario della visione, scrisse che la devozione allo Scapolare aveva, fra tutte le devozioni mariane, questo vantaggio: «[…] che, per la sua semplicità, è adatta all’intelligenza di tutti», tanto più che «[…] non si tratta di cosa di poco conto, ma dell’acquisto della vita eterna in virtù della tradizionale promessa della Beatissima Vergine Maria: si tratta infatti dell’impresa più importante e del modo sicuro di attuarla» (11).
Ma, in tale occasione, il Papa volle inviare la sua lettera autografa il giorno 11 febbraio del 1950, giorno commemorativo dell’apparizione della Vergine di Lourdes, sottolineando espressamente il fatto. Anzi egli chiese esplicitamente che la famiglia carmelitana vedesse nello Scapolare — proprio nell’«ingenua struttura della veste» — anche il segno «di quella consacrazione al Cuore della Vergine Immacolata, che recentemente e vivamente abbiamo raccomandato».
E poiché tutta la devozione allo Scapolare, nel corso della storia, si regge sulla certezza delle ripetute approvazioni pontificie, vale la pena sottolineare questo fatto: il Papa ha volutamente immesso nell’antica devozione questo nuovo elemento che intende valorizzare gli apporti delle ultime due grandi apparizioni mariane: quelle dell’Immacolata Concezione a Lourdes, che si conclusero la sera della festa del Carmine, il 16 luglio 1858, e quelle di Fatima, in cui Maria chiese appunto la consacrazione del mondo al suo Cuore Immacolato, apparizione che Ella concluse, il 13 ottobre 1917, mostrandosi rivestita del santo abito carmelitano.
Bisogna inoltre aggiungere che san Giovanni Paolo II (1978-2005), nella Lettera indirizzata agli Ordini Carmelitani per il 750° anniversario, ha esplicitamente affermato come «[…] la forma più genuina della devozione alla Vergine Santissima, espressa dall’umile segno dello Scapolare, sia la consacrazione al suo Cuore Immacolato» (12).
Il carisma, abito di salvezza e di santità
Oggi ci è chiesto di rileggere in maniera ecclesiologicamente corretta la questione di fondo che sorregge tutta la storia che abbiamo raccontato: come vedere nella vita consacrata e nell’abito che la esprime un dono e un appello per la santità di tutti?
Gli antichi medioevali accorrevano per stringersi sotto la veste di Maria, chiedendo a lei, in tal modo, di «rivestirli di Cristo».
San Giovanni Paolo II, nella sua lettera per il 750° anniversario dello Scapolare, ha chiesto di fare un passo avanti anche nella maniera stessa di usare la parola «abito». Per questo, oltre all’uso tradizionale del termine e dell’immagine della veste («rivestirsi interiormente di Cristo», alla presenza e sotto la dolce e materna guida di Maria), egli ne ha suggerito anche una lettura più «filosofica»: quella dell’«abito» inteso come «indirizzo permanente della propria condotta cristiana, intessuta di preghiera e di vita interiore».
Oggi questo «abito», quest’«abitudine di vita», altro non può essere che l’immedesimazione nella forma di vita di Gesù e della sua Santissima Madre, nel familiare e sublime gioco con cui Gesù ci dona a Maria e Maria ci dona a Gesù. Ma, se vogliamo scorgere i contenuti pedagogici di questo divino gioco — che iniziò, ricordiamolo, in un antico eremo —, diventa necessario interrogarsi sulla «bella forma» (13) che è necessario rivestire, guardando a Maria casta, povera e obbediente, per chiedere a lei che ci renda tutti, consacrati e laici, casti, poveri e obbedienti come suo Figlio.
Ciò vale certamente per tutti i cristiani. Nel Carmelo l’abito resta un segno che può ancora essere portato sul proprio corpo da laici, consacrati, presbiteri e pontefici (14), ma lo scopo dev’essere quello di lasciarci tutti abbracciare dallo stesso dono: oggi lo chiamiamo con più consapevolezza carisma.
L’abito, dunque, non soltanto ci riveste, ma ci dona un luogo in cui abitare, una «patria spirituale» — un «angolino di cielo» (15), diceva santa Teresa d’Avila (1515-1582) —, dove anticipare quaggiù il Paradiso.
La santa Elisabetta della Trinità (O.C.D.,1880-1906) — che amava restare «immersa nel fuoco della Trinità» e trovava il cielo sulla terra nel suo stesso cuore «inabitato» — ha un giorno accompagnato il dono dello Scapolare, preparato da lei, in quanto guardarobiera, per la Professione di una consorella, con un biglietto in cui immagina che sia Maria stessa a donarlo con queste parole: «Nelle mie braccia Gesù, entrando nel mondo, fece la prima oblazione di sé al Padre, ed ora mi manda a ricevere la tua. Ti porto uno Scapolare, come pegno della mia benedizione e del mio amore e, al tempo stesso, come un segno del mistero che si compirà in te. Figlia mia, vengo per finire di rivestirti di Gesù Cristo, affinché tu cammini in Lui, via regale, cammino luminoso, affinché tu sia radicata in Lui nella profondità dell’abisso, con il Padre e lo Spirito d’amore, affinché tu sia edificata sopra di Lui, tua roccia, tua fortezza, affinché tu sia fortificata nella fede, credendo soprattutto all’immenso amore che esce dal focolare della Trinità e si riversa nel fondo della tua anima. Figlia mia, quest’amore onnipotente farà in te grandi cose. Credi alla mia parola. È quella di una Madre che trasale di gioia vedendo con quale particolare tenerezza tu sei amata. Oh, resta nelle profondità del tuo spirito. Ecco che Lui viene a te ricco di tutti i suoi doni, circondato dall’abisso del suo amore come da una veste. È lo Sposo. Silenzio!…Silenzio!…Silenzio!» (16).
Così l’Abito di Maria viene addirittura illuminato dal fuoco bruciante dell’amore trinitario, diventa un progetto di totale conformazione a Cristo e introduce l’anima al più profondo silenzio contemplativo.
Un esempio per ricordare
La storia dello Scapolare è tutta intessuta di «esempi» e di «fioretti». Non possiamo concludere senza riportarne almeno uno che ci resti come ricordo e come profumo.
Il card. Alessandro di Ottaviano de’ Medici (1535-1605) venne eletto Papa il 1° aprile 1605 e assunse il nome di Leone XI. Si racconta che, al momento in cui gli tolsero la veste cardinalizia, il prelato che lo aiutava volle togliergli dal collo anche lo Scapolare, spiegando ossequiosamente che la veste papale era superiore ad ogni altro abito. Ma il neo-eletto Pontefice glielo impedì dicendo: «Lasciami Maria, affinché Maria non lasci me».
Che un giorno si possa essere abbandonati è il dramma del bambino ed è il dramma del vecchio. Nel corso della vita, poi, si cerca di trovare qualcuno da amare e che ci ami, sperando che non ci lasci mai soli. Non è soltanto una paura psicologica, è la nostra drammatica condizione umana. Anche per questo Gesù è venuto e ci ha dato una Madre.
Per non sentirsi soli, può bastare un segno.
Note:
(1) Si pensi, per fare un solo esempio, al testo di Ger. 2,7, che rievocava il dono della terra promessa, al tempo dell’Esodo, con queste parole messe in bocca a Dio: «Io vi ho introdotto in una terra da giardino (letteralmente: «in un Carmelo») perché ne mangiaste i frutti»; testo destinato logicamente ad avere un posto privilegiato nella liturgia carmelitana.
(2) La parola «leggenda» viene intesa nel senso più nobile, quello di una storia e di insegnamenti meritevoli di considerazione: «Legenda», cose da leggersi, per la propria formazione e, in certi casi, anche per la propria preghiera, pur se tramandati in forma di racconti popolari, spesso abbelliti e amplificati.
(3) Emanuele Boaga O. Carm., La Signora del luogo. Maria nella storia e nella vita del Carmelo, Edizioni Carmelitane, Roma 2001, p. 59.
(4) Sembra che la data della festa di Nostra Signora del Carmine, che un tempo era appunto il 17 luglio anziché il 16, sia stata scelta in ricordo della «protezione» avuta al tempo del Concilio.
(5) Francesco Voersio da Cherasco, Breve relazione della vita, e gesti, del R.mo P.M. Enrico Siluio Asteggiano, generale della religione della gloriosa vergine Maria del Carmine, per Virgilio Zangrandi, Asti 1613, pp. 58-59.
(6) Pietro Tommaso Saraceni (1566 ca.-1643), Informationi spirituali per i divoti della Santiss. Vergine del Carmine, presso Clemente Ferroni, Bologna 1635, p. 258.
(7) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa «Lumen gentium», del 21-11-1964, n. 62.
(8) Dal testo della Lumen Gentium si può agevolmente ricavare che la promessa fatta da Maria a san Simone Stock fa parte, per così dire, dell’attività abituale della Vergine che «[…] con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna» (ibidem).
(9) Cfr. le annotazioni a Rm 13,14 in La Sacra Bibbia, Marietti, Roma-Torino 1952. Si noti che questi testi di san Paolo erano esplicitamente citati dagli autori carmelitani che illustravano il dono dello Scapolare (cfr. P. T. Saraceni, op. cit., p. 122).
(10) Gioverà qui ricordare che uno dei più antichi commenti alla Regola Carmelitana — scritto verso il 1317 da Giovanni Baconthorp (m. 1346 ca.), il Doctor resolutus — consiste in un sistematico raffronto fra le prescrizioni del testo e la vita della Vergine Maria.
(11) Pio XII, Lettera Neminem profecto latet, dell’11-2-1950, in Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale, vol. XLII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1950, pp. 390-391 (p. 390).
(12) San Giovanni Paolo II, Messaggio all’Ordine del Carmelo, del 25-3-2001, n. 4, nel sito web, consultato il 3-9-2017, <http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/2001/march/documents/hf_jp-ii_spe_20010326_ordine-carmelo.html>.
(13) San Paolo ha parlato della verginità come della «forma bella e nobile» («prós to euschémon», 1 Cor. 7,35) propria di chi si riveste di Cristo.
(14) «Anch’io porto sul mio cuore, da tanto tempo, lo Scapolare del Carmine! Per l’amore che nutro verso la comune Madre celeste, la cui protezione sperimento continuamente, auguro che quest’anno mariano aiuti tutti i religiosi e le religiose del Carmelo e i pii fedeli che la venerano filialmente, a crescere nel suo amore e a irradiare nel mondo la presenza di questa Donna del silenzio e della preghiera, invocata come Madre della Misericordia, Madre della speranza e della grazia» (San Giovanni Paolo II, Messaggio all’Ordine del Carmelo, n. 6, cit.).
(15) Teresa d’Avila, Vita, 35, 12.
(16) Elisabetta della Trinità, Scritti, trad. it., Postulazione generale dei Carmelitani scalzi, Roma 1967, p. 599. Benché non sia quasi mai citato, questo è, a nostro parere, il più bel testo della letteratura carmelitana sullo Scapolare.