S.E. Mons. Cesare Nosiglia, Cristianità n. 372 (2014)
Intervento di S. E. mons. Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, pubblicato in La Voce del Popolo, Torino 23-2-2014, con il titolo La vita è dono.
Da tempo non provavo un turbamento come quello di questi giorni, di fronte alla notizia proveniente da Bruxelles: una legge con cui si rende possibile l’eutanasia o il suicidio assistito anche sugli adolescenti e i bambini che si trovino in condizioni particolari di sofferenza e malattia.
Come uomo, ben prima che come prete e vescovo, sono obbligato a domande talmente inquietanti e così «ultime» da lasciarmi quasi senza fiato. Perché uno Stato, una comunità articolata e complessa di persone, ha come prima motivazione quella di garantire e promuovere l’esistenza in vita dei suoi abitanti — meglio, dei suoi cittadini. Questa legge, invece, mi pare riveli una sostanza, una concezione della vita che non ha più alla base la vita stessa ma qualcos’altro. Qualcosa che si stenta a capire ma che — non so dirlo in altro modo — ci spinge verso il nulla. Nel gennaio scorso ho visitato, in Kenya, i preti fidei donum della diocesi di Torino che reggono una parrocchia a Nairobi; con loro abbiamo incontrato, alla missione del Cottolengo, la comunità che accoglie i bambini ammalati di Aids, trasmesso loro dalle madri sieropositive. Ho ripensato a loro, come ai bambini malati e ai loro genitori del «Regina Margherita» di Torino, incontrati durante la visita pastorale. I piccoli di Nairobi come quelli di Torino non chiedono e non si chiedono di morire. Vogliono vivere invece, per essere amati. Vogliono vivere, anzi, perché sentono di essere amati. Perché sono amati.
Davvero sono alcune condizioni dell’esistenza a dover dettare legge sull’amore? In mezzo a quelle sofferenze ho toccato con mano tutto l’affetto profondo, la gioia che vi è nella relazione fra bambini, genitori, medici e personale sanitario, suore, volontari. Davvero tutta questa realtà d’amore è illusione del passato, è un limite non più accettabile alla libertà degli individui?
E non mi si dica che questo è il modo «cattolico» d’impostare la questione. Anche le associazioni dei pediatri italiani e del Belgio stesso hanno espresso la loro contrarietà. L’amore non è privilegio né monopolio dei cattolici. Forse è proprio questa, anzi, la radice del mio sgomento di fronte a quella legge: perché per me — come uomo, prima che vescovo — vita e amore sono intimamente congiunti, ben al di là delle condizioni del corpo e degli stati di vita. In più occasioni la Chiesa, in particolare con Benedetto XVI e Francesco, ha denunciato i danni di un relativismo — culturale, etico e di una «cultura dello scarto» — che tende a «giustificare» qualunque opzione, abolendo di fatto ogni valore generale di riferimento in modo che solo la «libertà individuale» sia maestra e criterio di vita. Da questo clima discendono rigidità ideologiche che ben conosciamo: nel caso dell’eutanasia si parla e si guarda solo al campo del «suicidio assistito» trascurando, per esempio, la realtà degli «hospices», dove l’accompagnamento alla morte avviene in un clima ben diverso. Per quanto riguarda l’aborto l’accento viene sempre posto sulla «libertà dell’individuo» senza alcun riguardo per la vita nascente e — amara ironia tutta italiana, contenuta nel titolo stesso della legge 194 — per la «tutela della maternità».
Con la legge belga, tuttavia, mi sembra che si stia andando ancora oltre. Il circuito artificiale di legislazione, consenso informato, decisori medici ed etici richiama — non so come chiamarla altrimenti — una «eugenetica soggettiva» dove si seleziona tra vita e vita, tra persona e persona e ci si arroga il diritto o di decidere per altri se vale la pena vivere o morire o si esalta come libertà assoluta persino il diritto di una scelta così definitiva e ultima data a un minore a cui di fatto sono esclusi molti diritti fondamentali perché ritenuto non in grado di valutarne la portata e le conseguenze. Giustamente osservano i pediatri citati: «Il bambino è una persona speciale anche per la sua ridotta autonomia di scelta e di giudizio che si aggrava nella malattia e proprio per questo merita il massimo rispetto e protezione maggiore». A tutti i bambini va dunque garantito l’accesso alle cure palliative alla terapia del dolore con una assistenza globale che include aspetti fisici, emozionali, sociali e spirituali. Da questa legge si spalancano porte inimmaginabili e se ne chiude una certa: quella sul futuro. Perché il contesto in cui si colloca richiama gli scenari della «decadenza» che ha investito l’Europa: un continente che non riesce più a dare speranza ai suoi giovani; un’Unione — lo dico senza esprimere alcun giudizio «politico» — che sembra preoccupata più di conservare il benessere presente che di inventare cammini nuovi di sviluppo.
Lo si nota con rammarico: perché proprio l’Unione europea in se stessa è una novità assoluta della storia, dopo la tragedia immane della seconda guerra mondiale che ha seminato morte e violenza su tanti bambini e minori anche malati e disabili uccisi per una ideologia la cui memoria pesa ancora sulla coscienza di tutti. Appiattiti sul presente, è di avvenire, invece, che abbiamo bisogno. In anni recenti la Chiesa italiana ha giocato molto del proprio peso morale e culturale sui «valori non negoziabili». Papa Francesco ci ha ricordato, in questo suo primo anno di magistero, che tali valori vanno non solo enunciati ma umilmente proposti e testimoniati innanzitutto in prima persona con la vita e l’esempio, e hanno da essere un riflesso, visibile e credibile, della tenerezza di Dio, senza spirito di proselitismo o tentazioni di riconquista. La Chiesa italiana ha iniziato la preparazione al suo prossimo Convegno nazionale (Firenze, 2015), dedicato al tema «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo»; e proprio l’umanesimo, mi pare, è la sfida che dobbiamo accettare e affrontare, in un contesto culturale e legislativo dove invece oggi vediamo affiorare il deserto, con tutti i suoi miraggi.
+Cesare Nosiglia
arcivescovo di Torino