Francesco Verna, Cristianità n. 357 (2010)
La vita e le opere
Gian Francesco Galeani Napione, conte di Cocconato, nasce a Torino il 1° novembre 1748 da Carlo Giuseppe Amedeo Valeriano (1699-1769) e dalla contessa Maddalena de Maistre (1714-1802) (1). Pur incline a studi storici e letterari, consegue la laurea in giurisprudenza e dopo la morte del padre intraprende la carriera amministrativa. Nel 1776 viene assunto come impiegato nelle Regie Finanze, diventando intendente della provincia di Susa e poi di quella di Saluzzo. Sposa nel 1786 Luigia Crotti di Costigliole, che muore due anni dopo dando alla luce una figlia, e nel 1792 Barbara Lodi di Capriglio, da cui ha cinque figli.
Re Vittorio Amedeo III di Savoia (1726-1796) lo nomina nel 1787 sovrintendente alla perequazione e al censimento del Monferrato, nel 1790 componente della giunta per l’amministrazione dei Comuni e nel 1796 consigliere di Stato addetto agli archivi di Corte. Nei differenti incarichi si rivela attento e preparato studioso di economia e di finanza, e asseconda l’intento riformistico della Corte (2). Nel 1797 ottiene l’incarico di controllore generale delle Finanze — cioè responsabile di tutto il settore economico finanziario del regno — da cui si dimette poco dopo per non sottoscrivere un editto che riteneva dannoso al Paese.
Nel periodo repubblicano (1798-1799) si tiene lontano dalla vita pubblica, dedicandosi a saggi di varia erudizione su argomenti storici, militari, antiquari, paleografici, numismatici e letterari. Nominato socio dell’Accademia delle Scienze di Torino nel 1801, ne diventa presidente per la classe di scienze morali, storiche e filologiche, e infine bibliotecario. Nello stesso 1801 elabora una memoria sul riordino dell’università di Torino (3). Accetta senza entusiasmo l’annessione alla Francia di Napoleone Bonaparte (1769-1821), nel corso della quale, peraltro, è insignito della Legion d’Onore ed è nominato membro dell’Accademia della Crusca. Dopo la Restaurazione, nel 1814, è presidente dei Regi Archivi di Corte e fa parte del Magistrato per la Riforma dell’Università, adoperandosi per l’istituzione della cattedra di Economia Politica. Nel 1816 gli viene conferita la croce dell’Ordine Mauriziano. Muore a Torino nel 1830.
Uomo di cultura ampia e raffinata, ha lasciato scritti letterari, in prosa e in versi, una nutrita serie di memorie — politiche, economiche e finanziarie — e un’opera che lo ha reso celebre, Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, del 1791, in cui disserta sulla necessità di avere nel regno una sola lingua, appunto l’italiano (4). Lungi dall’essere precorritrice di un “imminente Risorgimento” (5), l’opera utilizza negativamente il termine “francese” per criticare l’illuminismo e il fanatismo rivoluzionario, così che “il pensiero di Napione non è molto distante da quello del De Maistre [Joseph (1753-1821)]” (6).
Fra le memorie di politica estera e interna, commissionategli dalla Corte, alcune sono relative a progetti di federazione fra gli Stati italiani. È del 1780 la stesura delle Osservazioni intorno al progetto di pace tra S[ua]. M[aestà]. e le potenze barbaresche, in cui auspica la creazione di una confederazione degli Stati marittimi della Penisola per difendere il commercio via mare e rafforzare l’unione fra le popolazioni italiche; come capo della confederazione propone il Pontefice, “venerabile per rispetto della Religione e principe per instituto pacifico” (7).
Ritorna sull’argomento nel 1791 con l’Idea di una confederazione delle potenze d’Italia (8), rivista l’anno seguente anche alla luce della crescente aggressività della Francia rivoluzionaria e poi rielaborata nel 1797 nell’opuscolo Del nuovo stabilimento delle Repubbliche lombarde (9). Una confederazione di Stati è, a suo avviso, la soluzione migliore per amalgamare e per difendere la nazione contro i nemici esterni, accrescerne la gloria e porla fra le grandi potenze europee. Nel corso dei secoli non si era dato vita a una stabile alleanza perché la presenza diretta del Pontificato e quella indiretta del Sacro Romano Impero non avevano reso indispensabile tale soluzione. Ma la mutata situazione internazionale suggerisce la nascita di una confederazione, che avrebbe avuto, rispetto a quella elvetica e a quella germanica, in cui confluivano popolazioni di religione diversa, il vantaggio di riunire genti con un unico credo e di annoverare fra i suoi potentati l’autorità suprema del cattolicesimo.
Le teorie federaliste in Italia
In Italia, nonostante l’allarme destato dalla Rivoluzione Francese del 1789 (10), il dibattito sul federalismo stenta a decollare “[…] perché quella che appare nelle opere di alcuni scrittori e nell’azione di alcuni governi (quando si prescinda dall’unico caso del Napione che proponeva una confederazione fra le potenze della Penisola al fine di stringerla in un “vasto corpo politico”) non va al di là di una semplice speculazione filosofica o di una occasionale unione di stati per lega od alleanza” (11).
Il tema federalista acquisisce un’importanza crescente dopo la Restaurazione, alla luce della bufera napoleonica, che ha messo in luce la debolezza dei piccoli Stati di fronte al prevalere di una politica di potenza e di spregiudicata competizione internazionale. Consapevoli della grande disomogeneità delle diverse parti della penisola, unificate solo parzialmente dalla lingua letteraria e divise da costumi e da strutture politiche peculiari, moderati e democratici concepiscono l’unificazione nazionale come il risultato di un’evoluzione graduale e la immaginano come frutto di politiche convergenti dei singoli governi. L’orientamento predominante nella prima metà del secolo XIX è quello federale, ritenuto più realistico rispetto alla prospettiva unitaria e comunque da compiersi gradualmente, salvaguardando la necessaria libertà d’azione del pontefice. Secondo una suddivisione effettuata dallo storico Antonio Monti la produzione politico-letteraria del decennio 1840-1850, ossia nel periodo immediatamente antecedente l’Unità d’Italia, si può raggruppare in:
“1) idea dell’unità nazionale personificata da Mazzini [Giuseppe (1805-1872)] con programma repubblicano-unitario;
“2) idea neoguelfa, o della federazione presieduta dal Pontefice;
“3) idea repubblicana-federalistica, con carattere decisamente rivoluzionario;
“4) idea piemontese, o della missione storica del Piemonte, che diede luogo al partito d’azione italiano, alla quale presto o tardi aderirono la prima e la seconda idea e tutte le loro sottospecie” (12).
L’esponente più noto dell’idea neoguelfa è l’abate torinese Vincenzo Gioberti (1801-1852) che nell’opera Del Primato morale e civile degli italiani (13), del 1843, auspica un movimento nazionale guidato dal Papa per dar vita a un’Italia con una struttura federalistica. Ma il modello proposto è molto generico e tralascia una serie di questioni, quali la presenza austriaca nel Paese, la definizione del ruolo dello Stato Pontificio e le modalità con cui il Papa avrebbe potuto conciliare la presidenza della nuova federazione con il suo mandato universale. La natura “congiunturale e tattica” (14) di tale soluzione è evidenziata anche dal repentino mutamento di prospettiva di Gioberti, che pochi anni dopo propugna una soluzione unitaria, auspicando per di più la fine del potere temporale e la separazione completa fra Stato e Chiesa (15).
Più concrete sono le teorie del beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855), sacerdote di Rovereto, che propugna una soluzione federale per difendere il pluralismo sociale, visto come limite efficace contro il centralismo e lo statalismo. Partendo da considerazioni realistiche Rosmini-Serbati asserisce che l’Italia, con le sue differenze di dialetti, usi, costumi, consuetudini e ordinamenti politici può trovare unità nella varietà (16). Alla base del progetto elaborato vi sono tre punti: l’uniformità legislativa degli Stati, l’organizzazione di una Dieta cui affidare la gestione dei rapporti tra gli Stati e le relazioni estere, l’istituzione di un’Alta Corte di giustizia, con a capo il Papa, che giudicasse sulle controversie insorte fra gli Stati.
I principali teorici del modello repubblicano-federalista sono Giuseppe Ferrari (1811-1876) e Carlo Cattaneo (1801-1869), estranei a ogni esperienza religiosa e sostenitori della soppressione del potere temporale del Papa e dell’instaurazione generalizzata di una forma di governo repubblicana; per questi motivi Monti li annovera fra i “rivoluzionari estremisti” (17). Opponendosi tanto al programma unitario repubblicano quanto a quello monarchico, entrambi restano ai margini del processo di unificazione politica dell’Italia, iniziato dal primo e concluso dal secondo.
Il sospetto insinuatosi fra i diversi regnanti, la difficoltà d’individuare una soluzione rispettosa delle prerogative del Pontefice e la presenza asburgica nella Penisola indicano che un processo federativo richiede tempo e riflessione, ma il precipitare degli eventi non offre a questa prospettiva il tempo necessario per una maturazione adeguata.
Dopo l’Unità lo storico napoletano Giacinto de’ Sivo (1814-1867) contrappone al principio di nazionalità l’universalismo cattolico e prospetta, in opposizione al piano rivoluzionario, che persegue “l’unità geografica, e la disunione morale” (18), l’ipotesi di una confederazione italiana in cui possano sopravvivere le autonomie, le leggi, le tradizioni di ciascun popolo della penisola; in questo modo, inoltre, “[…] l’Italia cristiana riederà al suo naturale primato” (19), cioè alla sua vocazione storica di accogliere e di proteggere la Cattedra di Pietro. “L’Italia non fu una come Inghilterra, Spagna e Francia, perché Iddio la creò svariata, la fe’ lunga e smilza, e rotta da fiumi e da montagne; la popolò di stirpi diverse d’indoli, di bisogni, di costumanze, e quasi anche di linguaggio; le mise più centri, le fe’ elevare più città capitali; e die’ a tutte le sue contrade una prosperità che basta a ciascuna, e a ciascuna una mente, un’anima e una persona compiuta. Han sì somiglianza, ma non omogeneità.
“[…] Non si può per una nazionalità ideale distruggere le nazionalità reali” (20).
Infine, in cui esponeva le ragioni etnografiche, storiche, etc.,e in un circolo viziosoe coll’ parola federazione e come questa sia st
“particolarmente notevole dal punto di vista federale, più ancora che da quello reazionario, è l’opera del Conte Emiliano Avogadro della Motta [1798-1865]” (21), che critica in particolare la scelta di far di Roma la capitale del nuovo Stato unitario. “In essa deve stare il cervello della nazione, e tutta la tradizione, il suo centro di luce, di calore, di azione. […] Orbene, Roma e il popolo suo non ebbero la menoma iniziativa a formare tale regno, non possono possederne l’idea e lo spirito; per Roma, l’Italia fu sempre ed è troppo piccola” (22).
Note
(1) Sulla vita, cfr. Lorenzo Martini (1785-1844), Vita del Conte Gian-Francesco Galeani Napione, Bocca, Torino 1836; Leonilda Fusani, Gian Francesco Galeani Napione di Cocconato-Passerano. Vita e opere, Tip. Baravalle e Falconieri, Torino 1907; Francesco Lemmi (1876-1947), Galeoni Napione di Cocconato, conte Gian Francesco, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Istituto G. Treccani, Milano 1932, vol. XVI (Franck-Gian), pp. 265-266; Orietta Bergo, Galeoni Napione di Cocconato, Gian Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 51, Roma 1998, pp. 384-387; Paola Bianchi, Introduzione a G. F. Galeani Napione, Del modo di riordinare la Regia Università degli Studi, Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino 1993, pp. 1-43; e Corrado Malandrino, Il conte Gian Francesco Galeani Napione. Una proposta di confederazione italiana, in Trimestre. Storia-politica-società, anno XXXIII, n. 1-2, Teramo 2000, pp. 63-76.
(2) Cfr. Antonio Fossati (1900-1954), Il pensiero economico del conte G. F. Galeani-Napione (1748-1830), Fedetto & C., Torino 1935.
(3) Cfr. G. F. Galeani Napione, Del modo di riordinare la Regia Università degli Studi, cit.
(4) Cfr. Idem, Dell’uso e dei pregi della lingua italiana. Libri tre, Fontana, Torino 1846.
(5) Cfr. Carlo Calcaterra (1884-1952), Il nostro imminente Risorgimento. Gli studi e la letteratura in Piemonte nel periodo della Sampaolina e della Filopatria, Società Editrice Internazionale, Torino 1935.
(6) Giuseppe Crosa, Carlo Luigi Amico di Castellalfero e l’”Idea di una Confederazione delle Potenze d’Italia” di Gian Francesco Napione, in Studi Piemontesi, vol. XVIII, fasc. 2, Torino novembre 1989, pp. 525-529 (p. 527).
(7) Cit. in L. Fusani, op. cit., p. 8.
(8) Cfr. G. F. Galeani Napione, Idea di una confederazione delle potenze d’Italia, in questo numero di Cristianità, pp. 41-54.
(9) Cfr. Idem, Del nuovo stabilimento delle Repubbliche lombarde, in Nicomede Bianchi (1818-1886), Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, vol. III. Predominio francese. Governo provvisorio. 1799-1802, Fratelli Bocca, Torino 1879, pp. 570-611.
(10) Sui tentativi di creare una lega italiana antirivoluzionaria, cfr. Giuseppe Nuzzo (1902-1996), Italia e Rivoluzione francese. La resistenza dei principi (1791-1796), Liguori, Napoli 1965.
(11) Antonio Monti (1882-1953), L’idea federalistica nel Risorgimento Italiano. Saggio storico, Laterza, Bari 1922, p. 82; cfr. anche, con maggiore attenzione alla posizione dei democratici, Franco Della Peruta, Le ideologie del federalismo italiano, in Luigi De Rosa e Ennio Di Nolfo (a cura di), Regionalismo e centralizzazione nella storia di Italia e Stati Uniti, Olschki, Firenze 1986, pp. 135-168.
(12) A. Monti, op. cit., p. 43.
(13) Cfr. Vincenzo Gioberti, Del Primato morale e civile degli italiani, a cura di Gustavo Balsamo Crivelli (1869-1929), Utet, Torino 1946.
(14) C. Malandrino, op. cit., p. 72, nota 29.
(15) Cfr. V. Gioberti, Del Rinnovamento civile dell’Italia, a cura di Luigi Quattrocchi, Abete, Roma 1969.
(16) Cfr. Antonio Rosmini-Serbati, Sull’unità d’Italia, in Idem, Scritti politici, a cura di padre Umberto Muratore I.C., seconda edizione accresciuta, Edizioni Rosminiane, Stresa (VB) 2010, pp. 247-265.
(17) A. Monti, op. cit., p. 83.
(18) Giacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967, p. 43.
(19) Ibid., p. 64.
(20) Ibid., pp. 46-47.
(21) A. Monti, op. cit., p. 168.
(22) Ibid., p. 169; la citazione è tratta da Emiliano Avogadro della Motta, La Rivoluzione e il ministero torinese in faccia al Papa e all’Episcopato italiano, Speirani, Torino 1862.