Giovanni Cantoni, Cristianità n. 26-27 (1977)
In margine a un articolo sul dissenso
S. J. OPPURE K. G. B. ?
Il tema del «dissenso» oltre la cortina di ferro è troppo importante, delicato e complesso per poter essere affrontato – non dico risolto – in una breve nota. Ma proprio perché si tratta di un argomento tanto importante, delicato e complesso non mi pare possibile esentarsi da qualche piccola considerazione in margine a un articolo di padre Robert Hotz S. J., dal titolo I «dissidenti» dell’Est europeo. Voci che cambiano un mondo o voci di un mondo cambiato?, comparso sul fascicolo 3046 de La Civiltà Cattolica, del 21 maggio di quest’anno, alle pp. 339-350.
Quale la ragione di questo intervento, che mi pare assolutamente necessario? Tale ragione non risiede certamente nelle ovvietà o nelle scarse informazioni contenute nell’articolo, ma piuttosto in alcune affermazioni in esso sparse, che finiscono, per altro, per decidere del suo sapore e per essere ampiamente determinanti del suo taglio.
L’ambiguità del taglio traspare anche dal sommario che dell’articolo dà la stessa rivista che lo ospita. «L’Autore – vi si legge – mira a dare una visione il più possibile completa degli elementi necessari per una valutazione non superficiale del fenomeno del «dissenso» nell’Est europeo. Una breve panoramica muove dai precedenti lontani degli artisti non conformisti costretti ad emigrare dall’Unione Sovietica negli anni venti e, passando per il risveglio negli anni del disgelo, giunge fino alle origini e allo sviluppo recente del samizdat e del movimento per i diritti dell’uomo. I dissidenti sono certo il segno indicativo di un diffuso disagio e delle debolezze dei sistemi d’Oltrecortina, ma la risonanza internazionale dei loro interventi, in parte anche intenzionalmente ricercata, rischia di farli diventare elementi di un gioco politico mondiale, che può alterarne le finalità ed anche comprometterne i risultati. Il giudizio storico sul dissenso rimane evidentemente un problema aperto, ma l’impegno per la dignità dell’uomo non è mai privo di significato».
Proprio questo sommario, anche se coperto da una consueta clausola retorica, mi ha spinto alla lettura completa del testo, e quindi mi ha fatto incontrare le affermazioni cui prima facevo riferimento.
Trascrivo la prima, che suona così: «La soddisfazione per il fatto che finalmente comincia a sorgere anche all’Est un’aperta opposizione (che si può interpretare come segno di debolezza interna, o perfino come crisi del temuto avversario comunista) in occidente tende troppo facilmente a far dimenticare che è estremamente difficile ricondurre ad un comune denominatore le varie concezioni dei “dissidenti”. Queste presentano tutta una gamma di sfumature, che, nelle loro forme estreme, si ispirano chiaramente ad uno sciovinismo nazionale russo e, come salvezza dal comunismo, preconizzano un regime sovietico di segno negativo, che (antisemitismo compreso) dimostra talvolta chiari tratti fascistoidi, difficilmente compatibili con un pensiero democratico. Per questo motivo non è facile qualificare senz’altro ogni dissidente come combattente per la libertà democratica».
Dunque, i dissidenti non presentano un quadro dottrinale omogeneo o, come si direbbe in parole povere, non la pensano allo stesso modo. La cosa, per poco che si osservi il fenomeno, è evidentissima, ma non riesco francamente a vedere come si debba trattare di un motivo valido per spegnere la «soddisfazione», che mi pare legittima e di buona lega, per la presenza, anche all’Est, di una opposizione al comunismo.
L’unica ragione valida per limitare questa «soddisfazione» mi parrebbe fondabile sul sospetto che il «dissenso» sia infiltrato dalle autorità comuniste, che ne farebbero veicolo privilegiato per esportare in Occidente socialismo e ateismo non «sovietici»; ma non è questa la preoccupazione di padre Hotz. Egli insiste, infatti, sul fatto che, non solo i dissidenti non la pensano allo stesso modo, ma, horribile dictu, sono anche nostalgici della Santa Russia. Se questa nostalgia per la Santa Russia è stigmatizzata per rapporto allo scisma della cosiddetta «ortodossia», e quindi si auspica per la Russia la santità vera, cioè la santità cattolica, il pensiero di padre Hotz, anche se espresso in una forma non eccessivamente comprensibile, mi trova comunque toto corde consenziente. Ma temo proprio che le cose non stiano così. Tant’è che, immediatamente, tali nostalgici della Santa Russia vengono accusati dallo stesso articolista di preconizzare un «regime sovietico di segno negativo» e di presentare, talvolta, «chiari tratti fascistoidi», si da non poter essere definiti «combattenti per la libertà democratica».
Mi chiedo, con ansia, che cosa può essere di tanto terribile un «regime sovietico di segno negativo», cioè il contrario di un regime sovietico considerato come qualcosa di positivo.
Ingenuamente, mi parrebbe di poter apprezzare il contrario dell’errore e della sua traduzione statuale, il contrario della «intrinseca perversità» comunista divenuta Stato. Ma nella prospettiva di padre Hotz, se non intendo male – come sinceramente mi auguro – questo contrario del comunismo non solo non è positivo, ma ha addirittura «chiari tratti fascistoidi». E si ha il sospetto che il regime sovietico venga positivamente valutato.
Orbene, non è certamente obbligatorio essere informati, ma irruzioni di gergo da trivio partitico o da gruppuscolo in un discorso che, almeno per la sede, vorrebbe parere dignitoso, è una spia non trascurabile. Dunque, a nulla servono e sono servite le analisi – pur non convergenti in toto, ma non trascurabili certo, al punto da dimenticarle completamente in quello che pure vorrebbe essere uno studio – di Hannah Arendt o di George L. Mosse, di René Rémond o di Renzo De Felice? Non dico sia ormai indispensabile avere inteso e quindi ammettere il carattere assolutamente moderno delle strutture portanti dei fenomeni fascisti, ma qui siamo ancora al fascismo come carattere, sostanza o almeno tratto del contrario del comunismo?
Pare di sì, dal momento che l’anticomunista nostalgico della Santa Russia – e quindi non ateo e «socialista dal volto umano» – non solo viene messo in quarantena come sospetto di fascismo – viene il dubbio che la Russia, invece che dai santi Cirillo e Metodio sia stata convertita dai «quadrunviri»! -, ma gli è anche rifiutata la qualifica di «combattente per la libertà», perché questa libertà non è, eventualmente, «democratica». È per questa ragione che hanno così poco «successo» gli oppositori cattolici e monarchici del nazionalsocialismo? Ma è proprio indispensabile, per essere lieti della esistenza del dissenso nei paesi dell’Est, che i dissidenti lottino per il perseguimento della «libertà democratica»? Non basta la libertà? E se, per dirla con Talmon, la democrazia fosse totalitaria? Non ricorda, padre Hotz, il radiomessaggio del ‘44 di Pio XII?
Che l’articolista de La Civiltà Cattolica sia scarsamente informato sul fascismo, appare evidente anche dalla seconda affermazione che mi sembra opportuno citare. In essa, il merito dell’esistenza del dissenso, o meglio, della sua espansione e della sua uscita dall’isolamento, è attribuito «anche» all’ideologia Comunista. Ringraziando il cielo per il provvidenziale «anche» – che toglie un poco di merito ai carnefici del Cremlino, e spazio alla tesi, eventualmente proponibile, dei «meriti» di Nerone e di Diocleziano nella diffusione del cristianesimo -, trascrivo la motivazione: «A differenza della massima parte delle dittature della storia, che cercano di mantenere i sudditi nella maggior ignoranza possibile per poterli più facilmente dominare, alcuni capi comunisti concepirono la Rivoluzione d’Ottobre non come una semplice conquista politica del potere, ma anche come una rivoluzione culturale. L’educazione popolare divenne uno dei punti più importanti del programma ideologico, che non fu cancellato neppure da Stalin, poiché il suo programma di industrializzazione supponeva la formazione culturale. Il fatto che l’analfabetismo sia stato sostanzialmente debellato e si sia realizzato un ampio ed articolato programma educativo è una delle poche glorie indiscutibili dei comunisti sovietici.
«Tuttavia non si è potuto evitare che col crescere della cultura le soluzioni ideologiche siano divenute oggetto di valutazione più critica. In certa misura gli ideologi comunisti si sono formati essi stessi i loro critici e “dissidenti”. Non senza motivo questi provengono dai circoli degli intellettuali, poiché un pensiero ben esercitato acuisce l’intelligenza critica e rende così ostili all’ideologia».
A parte una sciatteria di linguaggio da terza pagina di quotidiano socialista, siamo alle Paludi Pontine e al «libro e moschetto»!
Passi il rubricare sotto la voce «dittatura» la massima espressione del totalitarismo – come è ben noto ai colti e ai meno colti, le differenze tra Quinto Fabio Massimo e Stalin sono scarse e scarsamente rilevanti! -; ma, qual era e qual è il contenuto di quella «formazione culturale», non sospesa «neppure da Stalin»? Esistono dubbi che si tratti del marxismo-leninismo? E allora, la diffusione del marxismo-leninismo, realizzata attraverso «un ampio ed articolato programma educativo», può, senza scandalo, essere definita da un padre gesuita «una delle poche glorie indiscutibili dei comunisti sovietici»? A quando una lapide alla memoria di Goebbels verrà scoperta alla Pontificia Università Gregoriana? Non ha forse ben diffuso, attraverso «un ampio ed articolato programma educativo», il nazionalsocialismo?
Se qualcuno mi facesse notare che non è un problema di abilità, ma di contenuti, è quindi esposta la tesi secondo cui lo studio esclusivo e accurato del marxismo-leninismo prepara il dissenso?
Dunque, purtroppo i dissidenti non sono omogenei dal punto di vista ideologico, e talora sono persino anticomunisti in modo positivo, sostanziale, cioè hanno un ideale, alternativo alla realtà sovietica, che non coincide né con la Cecoslovacchia della «primavera di Praga», né con le democrazie nordiche. Per fortuna, la loro presenza testimonia il successo del processo di alfabetizzazione della vecchia Russia imperiale, ignorante e codina, nonché sedicente santa.
Comunque, le cose non vanno ugualmente bene. Infatti – è sempre padre Hotz a rivelarcelo – «dal punto di vista dei dirigenti sovietici e dei Paesi satelliti, l’appoggio internazionale al movimento per i diritti dell’uomo non rappresenta altro che un collegamento politico tra l’occidente e gli ambienti degli espatriati e i loro obiettivi. Per i comunisti ciò equivale ad una ricaduta nella mentalità della “guerra fredda”, perché essi considerano i dissidenti espatriati come esponenti di un confronto e di una polarizzazione radicali».
La gravità della situazione, quindi, non è da imputarsi ai «dirigenti sovietici e dei Paesi satelliti» oppure ai comunisti occidentali; infatti «d’altra parte bisogna ammettere che i “dissidenti” sovietici, costretti ad emigrare, con il loro comportamento non contribuiscono ad appianare le difficoltà. Molti di questi esiliati in Occidente si sono trasformati da promotori della liberalizzazione e dei diritti dell’uomo in veri e propri predicatori di crociate globali contro il comunismo. Talvolta essi vengono addirittura costretti a questo ruolo. Sono presi in consegna da organizzazioni anticomuniste e portati in giro di Paese in Paese (talvolta senza conoscere le diverse situazioni e non sempre ben consigliati) per ammonire contro il pericolo comunista in toni profetici e minacciosi».
Pare incredibile, ma è proprio scritto così. E non è tutto. Infatti il testo prosegue: «Così, invece di combattere una battaglia per una maggiore libertà nei Paesi dell’Est, essi mirano talora a un rovesciamento totale del regime o – come si può psicologicamente comprendere -, ad una specie di riconquista della patria perduta».
Bontà sua, padre Hotz ammette che si possa «psicologicamente comprendere» la posizione di lotta anticomunista dei dissidenti, ma alla «comprensione» psicologica fa seguito subito la denuncia: «questo loro atteggiamento – nota padre Hotz – di riflesso finisce col rafforzare i regimi comunisti dei diversi paesi del blocco orientale nella convinzione che i “dissidenti” non sono altro che traditori dell’ordinamento socialista e perfino agenti al servizio dell’occidente».
Mi chiedo – ed è l’ultima di una serie di domande penose – che cosa, di grazia, dovrebbero fare i dissidenti «costretti ad emigrare»: ritirarsi a vita privata? iscriversi a partiti «eurocomunisti»? affidarsi al Tribunale Russell? oppure chiedere consigli ai promotori della Ostpolitik vaticana, esponendosi al rischio che si tenti di «ibernarli», come si è provato a fare con l’eroico cardinale Mindszenty e si cerca di fare con il cardinale Slipyj?
Basta, anche se non mancherebbero altre «perle», benché di minore consistenza. Basta comunque per valutare il taglio dell’articolo: i dissidenti sono scomodi e ostacolano la maturazione dei comunisti sia orientali che occidentali. Non si fa la proposta di farne una retata e di restituirli alle autorità sovietiche forse solo perché, se queste talora li hanno espulsi, vuol dire che non li vogliono. E non bisogna assolutamente scontentare i futuri padroni. Futuri per molti, certamente; forse per tutti. Ma per padre Hotz viene il sospetto che siano già attuali. Il suo «servizio», infatti, è tanto perfetto che più volte sono tornato all’inizio, dove è indicato l’autore, per vedere se avevo letto bene: Robert Hotz S.J. o Robert Hotz K.G.B.?
GIOVANNI CANTONI