Silvia Scaranari, Cristianità n. 382 (2016)
L’uomo del secolo XXI sente il bisogno di aprirsi al trascendente esattamente come quello del VI, del XII o del XIX, poiché, come afferma il filosofo romano Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.) nelle Lettere a Lucilio (102, 21) — appositamente menzionato nell’opera di Stefano Chiappalone, Alle origini della bellezza (p. 11) — «l’anima umana è una cosa grande e nobile, e non tollera che le siano posti altri limiti se non quelli comuni con la divinità».
Laureato magistrale in Storia Medievale presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, Chiappalone s’interessa di temi legati alla bellezza nell’ambito dell’apostolato culturale di Alleanza Cattolica, di cui è socio dal 2006. Collabora con la rivista La Roccia e conduce I miracoli eucaristici e altre trasmissioni presso l’emittente Radio Maria.
Nel mondo frenetico e compulsivo in cui ci troviamo immersi spesso non abbiamo il tempo di appartarci, di trovare il silenzio e di scendere nel profondo del nostro cuore per scoprire la presenza di Dio, come invece insegna sant’Agostino d’Ippona (354-430). Anche alla luce di queste premesse il Papa emerito Benedetto XVI (2005-2013) e Papa Francesco hanno additato nella via pulchritudinis una strada privilegiata per giungere al medesimo fine. Come Chiappalone evidenzia, prendendo a prestito una citazione del pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) posta in apertura di Alle origini della bellezza, «è sufficiente che la bellezza sfiori appena il nostro tedio perché il cuore ci si laceri come seta tra le mani della vita» (p. 5).
Il testo ripercorre, in cinque capitoli, un cammino alla scoperta della bellezza, non solo nell’opera d’arte ma anche nelle cose quotidiane, che possiamo trovare nella natura e nei piccoli gesti della nostra vita.
Nel primo capitolo, Creati per la bellezza (pp. 11-30), compare l’invito a usare una ragione aperta al mistero, perché quando «non si chiude in se stessa» (p. 13) può aprirsi alla contemplazione, che è «la prima e più diretta forma di conoscenza» (ibidem). La contemplazione è facoltà propria dell’uomo, tant’è che nessun animale è in grado di superare i limiti della materialità dell’oggetto per scendere nella profondità del suo significato. Infatti, «la purezza dell’acqua che sgorga da una sorgente ha da dirci molto di più di quanto è racchiuso nella formula H2O. […] Una stretta di mano, una formula come “buongiorno”, esprimono cordialità, un abbraccio esprime amicizia» (p. 19). Il nostro è un mondo fatto di simboli, di gesti che evocano altro; è un mondo in un certo senso «sacramentale», e da questo l’arte ha preso spunto per molti secoli. Ancora oggi le cattedrali del Medioevo dicono qualcosa all’uomo, mentre i casermoni o i palazzi a parallelepipedo del secolo XX sono solo edifici tristi e grigi. La bellezza che possiamo contemplare e la verità che possiamo scoprire con la ragione riconducono all’unico Creatore di entrambe. Per questo «non sono in antitesi» (p. 27), ma «si armonizzano e si integrano a vicenda» (ibidem), e in tal senso è utile recuperare la dimensione del «reincanto» (p. 29), cioè il saper ritrovare la capacità di stupirci di fronte alle cose, vederle con gli occhi dell’anima e non solo con quelli del corpo, onde scoprire cosa possono avere ancora da dirci.
Questa disposizione implica certamente uno sforzo, ma porterà molto frutto, com’è tematizzato nel secondo capitolo, La cerca (pp. 33-46). Citando ancora una volta Benedetto XVI, nell’omelia del 7 novembre 2010, a Barcellona, in occasione della dedicazione della chiesa della Sagrada Família, capolavoro dell’architetto spagnolo Antoni Gaudí (1852-1926), «la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza» (p. 32). Occorre però un attento discernimento, perché non tutto ciò che viene presentato come bello lo è veramente. Vi sono infatti una vera e una falsa bellezza. Vi è una bellezza dell’immediato, dell’emozione fine a sé stessa, che non allarga i nostri confini ma ci lascia nel nostro piccolo mondo, e una vera bellezza, che nell’immediato può risultare anche essere dolorosa, può darci una scossa, ma si tratta di una sofferenza salutare, nella misura in cui ci permette di uscire dal nostro guscio e di riaprire il nostro cuore all’Altro da sé. Si tratta in fondo di una ripresa del discernimento degli spiriti insegnato da sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), richiamato dall’autore: quando si tratta di verità, colta dall’uomo e conservata nel proprio cuore, l’anima si sente sollevata, rimane nel fervore spirituale e avverte la presenza di Dio desiderando sempre di più la purezza e la bellezza delle azioni e delle emozioni.
Chiappalone invita a non considerare degno di bellezza solo il capolavoro artistico o la straordinarietà di un fenomeno naturale, ma a sapere cogliere la bellezza nelle piccole cose. Su ogni uomo influisce a fondo l’ambiente in cui vive e quindi non è uguale abitare in una stanza standardizzata o in un’altra arredata con cura dei particolari, mangiare in un ristorante fast food o su una tavola ben apparecchiata, perché i «messaggi estetici veicolano messaggi spirituali» (p. 37). Citando a tal proposito san Giovanni Paolo II (1978-2005), l’autore ricorda che la cultura include «ciò che caratterizza tutto il suo comportamento e il suo modo di vivere, persino di abitare e di vestirsi, ciò ch’egli trova bello» (ibidem); e ancora, riprendendo le parole del pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995): «un mobile comodo è quello che serve solo al corpo, un mobile elegante è quello che serve anche all’anima» (p. 38).
«La formazione degli ambienti nella formazione delle tendenze vale non soltanto per la vita personale, ma anche per la vita della società. In Occidente un processo plurisecolare di aversio a Deo ha condotto la società a rispecchiare più Babilonia, figura della civitas diaboli, che non la Gerusalemme celeste, la civitas Dei» (p. 40), perché da secoli viviamo in un lento ma inesorabile processo rivoluzionario, ovvero un tentativo di riformulare la creazione e la vita sociale, secondo il volere degli uomini, anziché accogliere e rispettare quella che ci è stata donata da Dio. Ciò genera fatica, frustrazione, insoddisfazione che si coglie nella tristezza di fondo dell’uomo contemporaneo, sempre alla ricerca del riposo e della felicità ma mai veramente soddisfatto. Ancora citando sant’Agostino, il cuore dell’uomo è felice solo quando riposa in Dio — «Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te» (Confessioni I,1,1) —, solo quando è capace di accogliere la Verità riesce a trovare la vera libertà e quindi la felicità che non è fatta di momenti, di emozioni, ma di continuità nel bene. Anche oggi l’arte può ancora aiutare l’uomo a riscoprire lo stupore del bello e quindi del bene, che non possono mai essere scissi; dunque l’arte può — anzi deve — contribuire all’opera di evangelizzazione, che è propria del Terzo Millennio.
Nel terzo capitolo, Verso il santuario (pp. 47-60), viene messo l’accento su un nostro grave limite: la mancanza di tempo. La frenesia in cui viviamo ci vede sempre affannati a fare e incapaci di contemplare. La contemplazione ha bisogno di tempo e di silenzio, che non è solo l’assenza dei rumori — il silenzio esterno —, ma soprattutto il silenzio interiore, quello che l’uomo riesce a trovare se si ferma, si concentra non sulle cose da fare, ma su sé stesso. Oggi tutti leggono una molteplicità di pagine su Internet, scrivono sms e messaggi di posta elettronica, scorrono pubblicità e informazioni, ma non vivono la profondità di quello che fanno. «La bellezza richiede un proprio tempo, la cui misura è prossima all’eternità» (p. 51); è quindi necessario sapere guardare e ascoltare. Lo ha ricordato Papa Francesco nell’Angelus del 17 luglio 2016, commentando il brano evangelico di Gesù a casa di Marta e Maria (cfr. Lc 10, 38-42): «Ascoltare: questa è la parola-chiave». Ascoltare il proprio cuore, ascoltare la propria coscienza, ascoltare la moglie o il marito, ascoltare i figli, ascoltare gli anziani, ascoltare i vicini, ma anche ascoltare la natura e quello che ci circonda per capire quello che ha da dirci, perché attraverso queste voci parla anche Dio. S’impara a conoscere l’eterno solo imparando ad ascoltare e recuperando la calma, che non è inerzia o distrazione bensì «il sano equilibrio di tutte le facoltà interiori di fronte all’oggetto della contemplazione» (p. 54).
L’autore, seguendo le indicazioni del Pontificio Consiglio della Cultura sulla via pulchritudinis, indica tre itinerari per ritornare a casa, cioè ritrovarci in Dio: la bellezza della Creazione, la bellezza dell’opera dell’uomo, la bellezza della vita santa che è il culmine, perché «la bellezza estetica delle cose è un “sacramento” della bellezza eterna: tanto più lo è la bellezza di una vita buona, che è contemporaneamente una vita bella» (p. 59).
Nel quarto capitolo, Nel santo dei santi (pp. 61-74), l’autore evoca la bellezza per antonomasia, quella di Maria, di Gesù e della Santissima Trinità, di cui fa memoria anche la liturgia con appositi canoni. «La liturgia ordina innanzitutto il tempo, se ne appropria per riempirlo di significato riproponendo attraverso i vari cicli […] il mistero multiforme di Cristo» (p. 73). Un esempio particolare di ordine è quello che i monaci hanno saputo vivere, manifestazione della bellezza e della pace, preludio della nuova creazione.
Ma chi sa contemplare la vera bellezza è animato anche dalla carità e quindi è desideroso di attirare il prossimo a godere della stessa pace, dello stesso ordine, della stessa dimensione trascendente, e si deve fare quindi missionario di bellezza. È quanto l’autore sottolinea nel quinto capitolo, Contemplata aliis tradere (pp. 75-88). In ciò ci è maestro Benedetto XVI quando ricorda che la Chiesa ha sempre offerto agli uomini di godere della bellezza attraverso la liturgia, che non è patrimonio esclusivo del clero, bensì «è ricchezza del genere umano, di tutti, anche dei poveri, che infatti la desiderano e non se ne scandalizzano affatto» (p. 76). Al Papa emerito fa eco Papa Francesco quando, dopo le docce e la barbieria, ha aperto per i senzatetto di Roma le stanze dei Musei Vaticani e li ha invitati a visitare la Cappella Sistina. Ricordando questo evento Chiappalone commenta: «L’amore non può accontentarsi di rispondere ai soli bisogni materiali, non può limitarsi a somministrare cibo e vestiti, lasciando il povero nella disperazione, non può curare il corpo lasciandone vuoto lo spirito, come se avesse a che fare con un automa invece che con un uomo creato a immagine di Dio» (p. 78).
L’autore conclude l’opera con un post scriptum, L’autore nascosto (pp. 89-95), per indicare in Cristo eucaristia la Bellezza somma e disponibile alla contemplazione di tutti coloro che lo cercano con cuore sincero.
Silvia Scaranari