di Marco Respinti, del 19 gennaio 2018
La più piccola intemperanza del presidente degli Stati Uniti d’America Donald J. Trump riempie giornali e notiziari per giorni: vera o presunta che sia, visto che l’unico ad avere riferito le presunte parole ingiuriose del presidente verso alcuni Paesi di emigrazione è solo il senatore del Partito Democratico Richard Durbin e visto che martedì 16 gennaio il neoministro della Sicurezza nazionale, Kirstjen Nielsen, ascoltata sull’immigrazione dal Senate Judiciary Committee, ha testimoniato sotto giuramento di non avere mai udito il presidente pronunciare la famosa parolaccia, peraltro edulcorata nella versione italiana che è circolata (una nota di costume interessante: nell’inglese statunitense il vocabolo che si adopera per significare “turpiloquio” è “profanity”). Ogni atto di governo e decreto legge di Trump viene messo alla gogna mediatica. Ogni suo tweet viene rimbalzato e vivisezionato. Ma il proclama con cui il presidente ha fatto del 16 gennaio la Giornata della libertà religiosa è stato ignorato da tutti.
Lo aveva promesso in campagna elettorale nel 2016, impegnandosi per iscritto, e lo ha ribadito più volte da presidente. Ora dà seguito alle promesse.
La data scelta non è casuale. È il giorno in cui, nel 1786, venne varato lo Statuto sulla libertà religiosa dello Stato della Virginia. A scriverlo fu, nel 1777, Thomas Jefferson (1743-1826), l’autore della Dichiarazione d’indipendenza del 1776. Introdotto nell’Assemblea generale della Virginia nel 1779, è entrato in vigore appunto il 16 gennaio 1786. Il suo effetto immediato fu quello di proteggere la libertà di culto per tutti; l’effetto strutturale che ha prodotto è stato quello di fornire il modello al Primo Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti (entrata in vigore nel 1789) che, ratificato nel 1791 assieme agli altri nove che compongono quel Bill of Rights fortemente voluto da chi temeva centralismo e statalismo, fa della libertà religiosa il primo dei diritti politici dei cittadini americani.
Questo diritto, che fonda tutti gli altri diritti di cui si sostanzia la cittadinanza statunitense, è il primo dei diritti politici del Paese giacché non garantisce solamente la libertà di coscienza in materia religiosa, ma con lo scudo della legge federale protegge espressamente anche la dimensione pubblica della fede. Che oggi Trump scelga di riferirsi esplicitamente a questa cultura politica con un atto di governo firmato in prima persona è un fatto d’importanza enorme.
«La fede è incorporata nella storia, nello spirito e nell’anima del nostro Paese», scrive Trump nel proclama. «I nostri avi, cercando rifugio dalla persecuzione religiosa, riposero fiducia in una verità sempiterna: la libertà non è una regalo del governo, ma un diritto sacro che proviene da Dio Onnipotente». Ora, benché la protezione della libertà religiosa sia iscritta a lettere d’oro nei documenti di fondazione e d’identità degli Stati Uniti, non tuti gli americani ‒ precisa il proclama ‒ riconoscono questo bene fondamentale. È il caso di chi minaccia «[…] conseguenze fiscali per certe forme particolari di espressione religiosa», ovvero quanto stabilisce l’“Emendamento Johnson”, dal nome del presidente liberal Lyndon B. Johnson (1908-1973) che lo fece approvare nel 1954 come modifica al Codice di diritto tributario quando era leader della minoranza Democratica al Senato federale dando potere al fisco di revocare l’esenzione dalle imposte alle organizzazioni non-profit che sostengano o che avversino candidati politici. Le prime a rimetterci sono sempre state le Chiese e le associazioni religiose, e Trump aveva promesso di combattere l’“Emendamento Johnson” il 2 febbraio scorso, intervenendo al National Prayer Breakfast. Oppure di chi costringe «[…] le persone a conformarsi a leggi che violano i princìpi religiosi centrali senza giustificazioni sufficienti»: è il caso del “Patient Protection and Affordable Care Act”, ovvero la riforma della Sanità firmata dal presidente Barack Obama il 23 marzo 2010 e soprannominata “Obamacare”, che obbliga anche ordini religiosi, istituzioni quali università e ospedali rette da loro o da enti d’ispirazione religiosa, organizzazioni di ben preciso orientamento quali i comitati promotori delle marce per la vita e simili, nonché le aziende gestite da credenti a calpestare la propria coscienza regalando ai dipendenti anticoncezionali e aborto sotto forma di assistenza medica.
Per Trump sono «[…] incursioni che, poco per volta, distruggeranno la libertà fondamentale su cui si regge la nostra democrazia». Per questo ‒ ricorda ‒ «[…] subito dopo essere entrato in carica, ho affrontano questi temi con un ordine esecutivo che aiuta a far sì che gli statunitensi abbiano la possibilità di seguire la propria coscienza senza indebite interferenze del governo», ovvero con quel decreto legge del 4 maggio che fu criticato dai conservatori perché giudicato poco incisivo e quindi rafforzato dal ministero della Giustizia che ‒ precisa Trump nel proclama del 16 gennaio ‒ «[…] ha diramato alle agenzie federali linee guida affinché esse si conformino alle leggi che proteggono la libertà religiosa». È quanto il Guardasigilli Jeff Sessions ha fatto il 6 ottobre.
Infatti, precisa il presidente, «nessuno cittadino degli Stati Uniti ‒ si tratti di una suora, di un’infermiera, di un fornaio o di un imprenditore ‒ dev’essere costretto a scegliere tra i princìpi della propria fede e il rispetto della legge». Non sono esempi a caso, ma casi famosi. Quello delle Piccole Sorelle dei Poveri, le suore cattoliche che dopo una dura battaglia legale hanno vinto contro l’“Obamacare”. Quello dei milionari protestanti evangelical David e Barbara Green titolari della Hobby Lobby Stores Inc., la popolare ed enorme catena di hobbistica e oggettistica di Oklahoma City, che hanno vinto la stessa battaglia. E quello di Jack Phillips, pasticcere di Lakewood, in Colorado, e cristiano praticante, trascinato in tribunale per essersi rifiutato nel 2012 di confezionare una torta nuziale per una coppia omosessuale e in attesa del verdetto della Corte Suprema federale.
Ma non basta. La libertà religiosa è minacciata in tanti luoghi del mondo e gli Stati Uniti, che fondano la propria concezione di libertà politica sulla libertà religiosa, non sono indifferenti. Trump lo dice così: «Gli Stati Uniti sono i campioni supremi della libertà religiosa nel mondo giacché noi non crediamo affatto che i diritti della coscienza siano riservati solo agli statunitensi». Quando il presidente aggiunge che «continueremo a condannare e a combattere l’estremismo, il terrorismo e la violenza contro i credenti, incluso il genocidio dello Stato Islamico di Iraq e Siria contro yazidi, cristiani e sciiti», precisando che Washington non verrà meno «[…] all’impegno di monitorare la libertà religiosa e di agire per la promozione di essa», sta mantenendo un’altra promessa, quella affidata all’intervento svolto dal vicepresidente Mike Pence alla serata di gala della fondazione “In Defense of Christians” il 25 ottobre.
Oggi la voce di chi descrive la religione come fomite di discordia e violenza, addirittura una patologia da estirpare, si fa sempre più insistente. Trump pensa il contrario: «Il libero esercizio della religione è fonte di stabilità personale e nazionale, e la sua preservazione è essenziale per la protezione della libertà umana». Infatti «la fede insuffla vita e speranza nel mondo»: per questo «dobbiamo custodire, conservare e riverire scrupolosamente questo diritto inalienabile».
Uno dei modi con cui il presidente sta cercando di rendere concreto il proprio impegno è la nomina del nuovo ambasciatore per la libertà religiosa nel mondo. Ha scelto Samuel D. Brownback, governatore del Kansas, Repubblicano, gran conservatore, cattolico convertito nel 2002 dal metodismo e mai timido nel mostrare la propria fede in pubblico. Trump lo ha nominato il 26 luglio, ma la necessaria conferma da parte del Senato non è arrivata e così la sua candidatura è scaduta con la fine del 2017. Per questo l’8 gennaio è stata ripresentata. Il suo più grande nemico è da sempre la lobby LGBT.