di Maurizio Milano
Non solo ridotti a “coriandoli” ma pure “rancorosi”: il 51esimo Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese dipinge gl’italiani così. Già nel 2007, l’allora presidente del Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, Giuseppe De Rita, aveva descritto il nostro Paese come una «poltiglia», una «società mucillagine» composta da tanti coriandoli che stanno l’uno accanto all’altro, ma non assieme. Dopo una decina d’anni di crisi finanziaria ed economica, la situazione non è certamente migliorata: i recenti, timidi accenni di ripresa economica non sembrano risollevare gli animi dei nostri connazionali, complice ‒ dice il Censis ‒ una mobilità sociale che sembra funzionare più in discesa che non in salita, con una paura diffusa di retrocedere che contribuisce all’immobilismo del Paese e all’appiattimento su un presente senza progettualità. La disoccupazione, in specie giovanile e nel Mezzogiorno, è a livelli record; l’immigrazione clandestina e incontrollata spaventa; e il ceto medio si restringe perdendo fiducia e speranza nel futuro. Dopo anni di governi “tecnici”, tutto ciò si riflette in un astensionismo elettorale che fa dei disillusi dalla politica il primo “partito” nazionale. «L’immaginario collettivo», dice il rapporto «ha perso la sua forza propulsiva di una volta e non c’è più un’agenda condivisa». Agere sequitur esse: non sappiamo più che fare perché non sappiamo più chi siamo.
D’altronde cosa ci si potevamo attendere? Dopo 50 anni di “rivoluzione culturale” che dal Sessantotto a oggi ha lacerato profondamente il tessuto sociale del Paese, a partire dall’accanimento contro la famiglia e la tradizione cristiana che costituivano le fondamenta della nostra nazione, ci si può davvero stupire del fatto che gl’italiani abbiano perso la gioia di vivere e siano infelici, incupiti e rancorosi? Dopo avere distrutto ogni idea di paternità ‒ da quella di Dio e del paterfamilias a quella delle istituzioni ai vari livelli ‒, fondativa dell’auctoritas che fa crescere e che custodisce, davvero ci si stupisce che gl’italiani si sentano soli e insicuri avendo smarrito il senso della fratellanza e dell’appartenenza a una medesima “comunità di destino”?
Al di là della crisi materiale, il termometro più accurato del malessere profondo del nostro Paese si trova infatti nella crisi demografica sviluppatasi a partire dalla riforma del diritto di famiglia e dall’introduzione di divorzio e aborto negli anni 1970, che ha trovato ultimamente degno coronamento con l’introduzione delle famigerate “Disposizioni anticipate di trattamento” nel nostro ordinamento giuridico: una deriva eutanasica e liberticida, specchio fedele di un Paese intero che si sta lentamente suicidando e che ha smesso di credere nel futuro. Con una “società coriandolarizzata” davvero si può pretendere che uno “zero virgola” in più del Pil renda felici e buone persone sempre più sole e disorientate dal relativismo imperante e dalla “cultura di morte”?
Al di là degli aspetti economici e sociali, la condizione indispensabile per invertire la tendenza è tornare al punto in cui il Paese ha imboccato la strada sbagliata. La stessa ripresa economica non può prescindere da un tessuto sociale sano e innervato da famiglie stabili, aperte alla vita, dove la fiducia e la speranza costituiscono quel capitale immateriale che solo può supportare anche la creazione di lavoro, ricchezza e serenità per tutti.
E non serve derubricare a “populismo” o a “sovranismo” ‒ come fa il Censis ‒ le voci certamente confuse che salgono dal Paese ma che esprimono comunque un malessere reale e motivato, ancora privo di un interlocutore politico affidabile che sappia intercettarlo per proporre un’alternativa percorribile alle tecnocrazie dominanti. Perché se la soluzione ultima non è economica, politica o tecnica, ma culturale, è pur vero che le élite politiche ed economiche hanno forti responsabilità nell’avvitamento senza fine del nostro Paese. Alle urne l’ardua sentenza.