Renato Tamburrini, Cristianità n. 16 (1976)
Esiste, a proposito del cristianesimo primitivo, una tesi, largamente accettata dai nostri contemporanei, sintetizzabile grosso modo in queste affermazioni: il cristianesimo, nato come fenomeno popolare e con caratteri sostanzialmente eversivi rispetto all’ordine politico-sociale in quel momento vigente, si venne accordando poi con questo stesso ordine, accettandone i presupposti culturali attraverso l’assunzione della filosofia greca e del diritto romano, e snaturò la sua origine messianico-rivoluzionaria, trasformandosi insomma da cristianesimo in cattolicesimo. Questa tesi, particolarmente cara al modernismo e al progressismo in genere, trova propugnatori e seguaci anche in ambienti politici che si definiscono “di destra”, anche se poi, ovviamente, il giudizio di merito sulla trasformazione suddetta è diametralmente opposto nei due ambienti. Sarebbe molto interessante studiare la genesi di questo luogo comune, cercare di capire il perché di una convergenza apparentemente tanto strana. Ma per il momento mi atterrò alla constatazione della sua esistenza e, soprattutto, della sua recrudescenza negli ultimi tempi. Un esempio piuttosto recente di quanto ho affermato è costituito da un articolo del sen. Mario Tedeschi apparso su Il Borghese (1).
Questo articolo mi è parso molto importante sia perché sintetizza un po’ tutto il discorso sul cristianesimo delle origini come realtà sovversiva gradualmente trasformatasi in cattolicesimo romano, sia perché dà a questo discorso un aggancio con l’attuale situazione politica e culturale. Ma vediamone i punti più caratterizzanti. L’articolo prende le mosse dalla pubblicazione di un libro di Ambrogio Donini (2), un militante marxista studioso di storia del cristianesimo, formatosi alla scuola del modernista Bonaiuti; scrive Tedeschi: “Per uno strano fenomeno, che gli psichiatri spiegherebbero con il ricorso all’inconscio, si moltiplicano in questi tempi i libri di carattere storico sulla disgregazione dell’Impero romano da parte del cristianesimo e sul progressivo ritorno della romanità, delle sue idee giuridiche, della sua organizzazione, a mano a mano che i cristiani diventano cattolici. Ora è una scrittrice liberale, come Lidia Storoni, che ricostruisce questo fenomeno […]; ora è uno storico marxista come Ambrogio Donini, che fa altrettanto esaminando le evoluzioni del cristianesimo dalle origini a Giustiniano.
“In effetti, si scontrano oggi, in Italia e nel mondo, due visioni antitetiche dell’uomo e dei suoi rapporti sociali. Sono concezioni che vanno ricondotte a tempi lontani, perché l’una, ispirata alla logica, al realismo e al diritto, affonda le sue radici nella tradizione di Roma e dell’Occidente, mentre l’altra, ispirata al sovversivismo e all’utopia, trova origine in Oriente, nel messaggio cristiano prima e marxista poi. Non è certo per un caso che il nuovo segretario della DC, Benigno Zaccagnini, a metà d’agosto ha sentito il bisogno, per rievocare De Gasperi, di ricordare l’unico discorso in cui lo scomparso uomo politico paragonò Cristo a Carlo Marx, mettendoli insieme in nome della comune origine razziale, della comune idea internazionalista, del comune disgusto per le rispettive società, del comune appello messianico.
“Tutte queste possono forse sembrare divagazioni, ma non lo sono. La storia si muove per tempi lunghi e bisogna avere presente ogni aspetto dei fenomeni di cui siamo momentanei spettatori, o protagonisti, per arrivare a capire da chi e da che cosa dobbiamo difenderci. Un Cardinale come quello di Torino, che si affanna ad invitare i fedeli della sua Diocesi a collaborare con le amministrazioni comuniste, non nasce per germinazione spontanea. Un Presidente del Consiglio Aldo Moro, che non fa nulla per impedire l’avanzata del PCI e che, anzi, appare già conquistato sul piano pragmatico all’Italia comunista domani, non si spiega soltanto rievocando gli episodi degli “Anni Quaranta”, allorché, presidente della FUCI e avendo a fianco come assistente ecclesiastico l’attuale Papa Paolo VI, lasciò sorgere fra i suoi organizzati il primo “partito comunista cristiano” d’Italia e del mondo.
“Del resto, proprio Ambrogio Donini, in un’intervista al Messaggero del due settembre, ha sottolineato come il cristianesimo, dopo aver distrutto, o contribuito a distruggere l’Impero romano, avesse poi accettato nel giro di appena tre secoli di diventare, in realtà, uno strumento di difesa della costruzione politica e giuridica realizzata da Roma. Partiti da posizioni che in termini attuali potrebbero essere definite di ultrasinistra, trotzkiste, marxiste, già nel 314 i cristiani erano stati nuovamente soggiogati dalla forza della logica e dal realismo, di cui Roma e l’Europa furono e sono tuttora, a dispetto del comunismo, il simbolo e la difesa. Infatti nel 314 il Sinodo di Arles scomunicò i soldati cristiani che avevano disertato le armate imperiali; e questo, quando il ricordo dei primi martiri cristiani, che erano stati condannati a morte proprio per aver disertato e rifiutato obbedienza, era ancora più che vivo.
“Ecco perché nella lotta politica che oggi conduciamo, e che vede l’Italia coinvolta fino a rischiare la libertà dei cittadini e l’indipendenza della Nazione, non è possibile distinguere l’elemento religioso da quello politico. I marxisti tentano di annettersi il cristianesimo, in nome di quelle comuni origini sovversive e messianiche, alle quali si richiamava nel 1944 Alcide De Gasperi per giustificare la sua collaborazione di allora con Palmiro Togliatti. La Chiesa cattolica, così come l’hanno trasformata il Concilio “Vaticano secondo” e le direttive giovannee e paoline, è incamminata sulla stessa strada: torna alle origini, ossia accetta di farsi annettere ideologicamente dal marxismo. I cattolici tradizionalisti, che respingono tutto questo, ripetono oggi, quasi sempre senza saperlo, la grande avventura di Giuliano l’Apostata“.
L’operazione culturale che questa pagina sottende è quella dell’allontanamento dalle prospettive cristiane di quanti intendono opporsi al comunismo: di fronte a un cristianesimo che ritrova le sue origini sovversive è priva di consistenza la posizione di quelli che si richiamano ai principi della Chiesa per far fronte al marxismo. L’accettazione supina dei luoghi comuni della storiografia marxista, l’identificazione del cristianesimo con i suoi esponenti progressisti e democristiani, la disattenzione al sostanziale carattere strumentale delle argomentazioni di Donini, volte proprio a fornire “materiale” per questo tentativo di annessione del cristianesimo da parte del marxismo, cui pure Tedeschi fa cenno, si spiegano solo alla luce di una tendenza laicista a staccare l’anticomunismo dal suo centro più ovvio, cioè quello costituito dall’immutabile insegnamento della Chiesa cattolica. Per questo mi occuperò solo di riflesso del libro di Ambrogio Donini. Mi preme soltanto preventivamente indicare a chiare lettere che esso non ha quel carattere scientifico che gli si è voluto attribuire (manca di note, alcune affermazioni sono soltanto ipotesi, altre non sono dimostrate); l’autore stesso ha voluto dargli un carattere più che altro divulgativo, come si evince anche dall’introduzione di Massimo Massara. Questo libro, insomma, è stato pubblicato con l’intento di fornire al militante marxista non specialista una prospettiva marxisticamente coerente della storia delle origini cristiane; è un puro strumento di politica culturale e in questa sede interessa soltanto perché le sue tesi sono accolte in un ambito non-marxista e sono utilizzate proprio nel tentativo di fondare in senso anticristiano la battaglia antimarxista. Comunque il succo del libro di Donini è quello che lo stesso introduttore ci fornisce e che Tedeschi ha completamente mutuato: “Fino alla metà del III secolo, le comunità cristiane hanno le loro basi più consistenti nei paesi del Mediterraneo orientale e nelle regioni settentrionali dell’Africa. Anche la comunità di Roma recluta i suoi adepti prevalentemente tra gli stranieri e gli immigrati di tradizione semitica e greco-orientale, per lo più gente povera, degli strati più bassi della società. E questa base sociale che dà al cristianesimo delle origini quel suo carattere eversivo che si verrà attenuando a mano a mano che la nuova religione si concilierà con il potere politico, romanizzandosi. Svanite le illusioni apocalittiche delle origini, con la loro carica eversiva, il cristianesimo accetta la realtà dell’impero e vi si adegua, sforzandosi solo di ottenere crescenti condizioni di privilegio – dalla tolleranza all’esclusivismo – per il suo culto e i suoi fedeli. Non è un caso che il confronto fra conciliatoristi e intransigenti si sia concluso con il trionfo dei primi e che il cristianesimo ufficiale, disposto a tutti i compromessi con il potere civile, abbia edificato le proprie fortune sulla sconfitta delle sette intransigenti, in particolare dei montanisti, che consideravano l’impero, nel suo stesso principio, come strumento di Satana e respingevano quindi ogni compromesso con esso” (3). Come si vede chiaramente questo brano è quasi perfettamente sovrapponibile a quello del sen. Mario Tedeschi; ma in esso si apre uno spiraglio, vi è qualcosa di apparentemente accidentale, che però, adeguatamente sviluppato, costituisce la chiave della risposta: vi si afferma infatti che c’è una differenza tra la Chiesa ufficiale e le sette, dette intransigenti, ma che altro non sono che i vari gruppi ereticali che si manifestarono fin dai primissimi tempi della Chiesa. È ovvio che per i marxisti i contrasti tra Chiesa ufficiale e sette ereticali non siano altro che la proiezione di interessi di classi contrapposte; è anche spiegabile la ricerca da parte marxista di antecedenti eversivi nel vasto campo delle sette che pullularono nella tarda antichità. Per i cristiani però i problemi dottrinali e la verità sono fatti reali, e non proiezione di interessi di classe. Anche per Tedeschi, immagino, dal momento che, pur non proclamandosi cristiano, fa riferimento alla tradizione di Roma, nel cui patrimonio penso non si possa senz’altro annoverare il materialismo storico. Dunque neppure Tedeschi dovrebbe confondere la Chiesa ufficiale e le sette ereticali, come non le confondono i cattolici. Non dovrebbe perciò presentare come cronologicamente successive all’interno della Chiesa posizioni che ad essa preesistevano e che ad essa si accompagnarono nel corso del tempo come eresie. In questa chiave avrebbe certo più senso una ricerca sugli antecedenti del marxismo; in questa chiave, infatti, autorevoli studiosi come il Voegelin lo collocano, insieme alle altre religioni secolari del nostro tempo, nel filone gnostico. Ma parlare di cristianesimo tout court, senza distinguere e soppesare, non è corretto; è necessario soprattutto tenere conto di quali sono le posizioni della Chiesa, fin dalle sue origini. Nel seguito di quest’articolo cercherò di fornire alcuni elementi in questo senso, soprattutto in relazione ai punti che mi sembrano particolarmente importanti per una conoscenza non deformata della Chiesa precostantiniana. Il primo argomento che affronterò è quello della composizione sociale delle comunità cristiane, visto che generalmente si tende a parlare di masse diseredate che attendevano “un “regno dei cieli” che ebbe all’inizio tutte le caratteristiche di un assestamento terreno, prima di venir confinato nell’aldilà” (4). Poi tratterò sommariamente della dottrina della Chiesa nei confronti dello Stato e della società civile in genere prima della pace costantiniana.
COMPOSIZIONE SOCIALE DELLE COMUNITÀ CRISTIANE.
Devo premettere che uno studio accurato sulla composizione sociale delle comunità cristiane dei primi secoli richiederebbe un’analisi particolareggiata tale da rendere conto delle differenze regionali, perché, per esempio, è diversa la situazione se si guarda alla parte occidentale dell’impero o a quella orientale; e anche all’interno di queste due grandi aree esistevano differenze non trascurabili; inoltre le varie zone andrebbero dettagliatamente distinte anche per periodi. Ritengo però che questo esuli dai limiti e dai fini del mio articolo e mi accontenterò di fornire qualche indicazione che mostri l’infondatezza della tesi che vede nel cristianesimo una dottrina tipica di masse diseredate. Infatti “il cristianesimo ha sempre attratto uomini di ogni genere e condizione. Molto prima che la conversione di Costantino rendesse conveniente per gli ambiziosi il professare la religione dell’imperatore, vi erano senatori e soldati cristiani e persino professori cristiani” (5). Nel Vangelo si vede chiaramente che Gesù non ha mai rivolto la sua predicazione a un determinato ceto sociale. Nicodemo è un fariseo, Zaccheo un pubblicano, il centurione della cui fede Gesù fa un esplicito elogio, è oltretutto un gentile: si tratta di persone che per un verso o per un altro difficilmente possono essere giudicate appartenenti alle “masse diseredate”. Giuseppe d’Arimatea è qualificato come membro distinto del consiglio (6). Gli Atti ci documentano la conversione del centurione Cornelio avvenuta attorno al 40 (7); Filippo battezza un ministro di una regina etiopica (8); Sergio Paolo, che secondo la tradizione diventò vescovo di Narbona, era proconsole di Cipro (9) fra il 46 e il 48; riguardo alla predicazione di san Paolo a Tessalonica apprendiamo che “alcuni di loro credettero […] come fece pure una gran moltitudine di Greci timorati di Dio e non poche nobili donne” (10). Altre notizie le desumiamo dalle lettere di san Paolo. Nella lettera ai Filippesi accenna alla penetrazione del cristianesimo nel Pretorio (11) e nel palazzo imperiale (12). Da questi episodi appare chiaramente che il cristianesimo non è riducibile all’espressione religiosa di masse diseredate, ma che veramente “ha sempre attratto uomini di ogni genere e condizione” (13).
Secondo Donini soltanto nel secondo secolo “cambia la composizione sociale delle comunità cristiane. Accanto alle masse sfruttate, che vedono ancora nel millennio dei profeti e dei salmisti ebraici una risposta alle loro esigenze di eguaglianza e di benessere, entrano i rappresentanti di ceti più agiati e più colti […]” (14). Ma noi sappiamo già da san Paolo che molti erano i pagani convertiti nella comunità romana (15). Tacito parla di Pomponia Grecina, moglie di Aulo Plazio, vincitore della Britannia, che fu giudicata nel 57 da un tribunale domestico sotto l’accusa di praticare una superstizione straniera (rea superstitionis externae) (16). Ci sono buone ragioni per credere che ella fosse cristiana (17). Comunque, nella seconda metà del primo secolo “la diffusione del cristianesimo nella nobiltà senatoria della capitale è un dato certo […] La notizia tacitiana relativa a Pomponia Grecina rende possibile che già nella prima metà del secolo non mancassero conversioni nell’aristocrazia” (18). All’epoca di Domiziano risultano cristiani Flavio Clemente e la moglie Domitilla, parenti dell’imperatore (19); secondo Harnack erano i nobili a dare il tono alla vita della comunità romana (20).
Nel 112-113 abbiamo l’importantissima testimonianza di Plinio il Giovane che da governatore della Bitinia scriveva all’imperatore Traiano per chiedergli come dovesse comportarsi nei confronti dei cristiani. Alla fine della lettera afferma che gli è sembrato opportuno chiedere consiglio all’imperatore a causa del gran numero di accusati, e aggiunge: “Molte persone di ogni età, di ogni condizione sociale, sia maschi che femmine, sono posti in stato di accusa e lo saranno ancora in futuro; e il contagio di questa superstizione si è diffusa non solo nelle città, ma anche per i villaggi e le campagne” (21). È evidente che il caso della Bitinia, regione orientale e più profondamente cristianizzata, non può essere preso come un esempio valido per tutto l’impero, soprattutto per quello che riguarda la penetrazione nelle campagne. Ma la notizia della diffusione in ogni ceto sociale, anche se in Oriente è stata senz’altro più forte, non fa che confermare quello che già sappiamo riguardo a tutto il primo secolo. È certamente possibile che nel secondo secolo il numero di persone provenienti da ceti più elevati sia stato maggiore; ma non è assolutamente ricostruibile un cambiamento radicale nella composizione sociale.
Per tutto il secondo secolo abbiamo testimonianze dell’appartenenza di membri di famiglie ragguardevoli alla comunità cristiana. Molte iscrizioni dell’Asia ci documentano l’esistenza di cristiani membri della loro curia municipale, che si occupano dell’amministrazione della città. Sappiamo che a Lione nel 177 fu martirizzato un buon gruppo di cristiani (composto di schiavi come Blandina, ma anche di persone benestanti come il notabile gallo-romano Vezio Epagato); l’ira popolare che provocò le persecuzione si rivolse contro i fedeli all’improvviso, cacciandoli dal foro e dai bagni (22). “Mi pare facile illazione quella che ritiene che i cristiani di quella città dovevano godere una buona posizione se frequentavano quei posti” (23). Da iscrizioni di Ostia risulta che alla fine del secondo secolo erano cristiani i membri della Gens Annaea e che morirono cristiani parecchi Pomponii (24). Nella cripta di Lucina, sull’Appia, si è ritrovato il sarcofago di Dazia Clementina, moglie di Giulio Basso, uno dei principali funzionari di Antonino e di Marco Aurelio; ivi sono raccolte anche le iscrizioni funebri di Annia Faustina, di Licinia Faustina e di Acilia Vera, i cui nomi e prenomi ci permettono di collegarle alle famiglie più illustri di Roma, anzi alla stessa casa imperiale (25).
Nel 300, alla vigilia della “grande persecuzione”, il concilio di Elvira si occupa dei problemi riguardanti i cristiani che prendono parte ai riti pagani in veste di sacerdoti provinciali o di duoviri e flamini municipali (26); anche Eusebio afferma che sulle soglie del quarto secolo i cristiani erano penetrati abbondantemente nell’amministrazione pubblica giungendo ad occupare cariche importanti (27).
Insomma, “il gesto di Costantino non sarà che il riconoscimento di una situazione preesistente” (28).
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Strettamente connesso con la composizione sociale delle comunità cristiane è il problema del rapporto tra cristianesimo e servizio militare. Ne parlerò brevemente, perché molti accettano acriticamente l’idea che i primi cristiani ritenessero il servizio militare incompatibile con la loro fede. Anche questo luogo comune è egregiamente riassunto da Tedeschi quando afferma: ” […] quando il ricordo dei primi martiri cristiani, che erano stati condannati a morte proprio per aver disertato e rifiutato obbedienza, era ancora più che vivo“.
Ecco in concreto quale fu l’atteggiamento del cristianesimo nei confronti della milizia. Ad alcuni soldati che lo interrogano su come debbano comportarsi il Battista risponde: “Non fate violenza a nessuno, né calunniate, e siate contenti della vostra paga” (29). La conversione del centurione di Cafarnao (30), “la cui fede semplice e intensa risulta in stretto rapporto, nel contesto evangelico, con la mentalità del personaggio, formata dalla disciplina militare e la conversione del centurione Cornelio (31) […] confermano che nessuna incompatibilità era avvertita, alle origini, fra milizia e cristianesimo” (32).
La lettera di Clemente ai Corinti, della fine del primo secolo, esprime “a chiare note l’aspirazione a trasferire sul piano cristiano il complesso di virtù (giustizia, obbedienza, spirito di sacrificio ecc.) di cui erano adorni i Romani; era pure accentuato il senso, schiettamente romano, dell’ordine e della gerarchia” (33).
Di incompatibilità si cominciò a parlare solo verso la fine del secondo secolo, con la diffusione dell’eresia montanista. Lo stesso Tertulliano, che pure aveva notevoli tendenze in questo senso, tanto che poi finì eretico, ricorda (34) che i cristiani riempiono gli accampamenti militari di Roma e ancora (35) che lavorano e “militano” con tutti gli altri (36).
L’atteggiamento della Chiesa nei confronti della condanna montanista del servizio militare è ben espresso dagli apologisti del secondo secolo, in particolare da Apollinare di Gerapoli.
“I casi di obiezione di coscienza fra i cristiani restano […] episodi isolati: tale è quello della recluta Massimiliano del 295 […] al quale lo stesso giudice pagano, Dione, fa presente l’inconsistenza della sua pregiudiziale, contraddetta dall’esempio degli altri cristiani” (37).
La diffusione del cristianesimo nell’esercito è confermata indirettamente dalla larga adozione del sermo castrensis nelle comunità cristiane. Per esempio, l’uso del termine paganus per indicare il non cristiano, secondo studi autorevoli (38) non si spiega se non passando attraverso l’uso militare di paganus opposto a miles, l’equivalente insomma del nostro “borghese”. I cristiani, considerandosi milites Christi, chiamarono pagani i non cristiani, con quella stessa punta di disprezzo con cui i militari sogliono dire “borghesi”. È chiaro che la facile adozione di un simile significato può spiegarsi solo alla luce di una grande diffusione dell’elemento militare nelle comunità cristiane; o per lo meno indica che non c’era alcuna pregiudiziale ideologica nei confronti della milizia.
QUALCHE CENNO SULLA DOTTRINA DELLA CHIESA RIGUARDO ALLO STATO E ALLA SOCIETÀ CIVILE
Affinché il quadro sia chiaro resta da vedere, per cenni, quale fu la dottrina della Chiesa riguardo allo Stato e alla società civile in genere, fin dai primissimi tempi.
La dottrina politica che si evince dal Nuovo Testamento è di rispetto per l’autorità; Gesù predica l’accettazione dell’autorità quale rappresentante di Colui che è vero padrone. Nel Vangelo di san Giovanni Gesù dice a Pilato: “Tu non avresti su di me alcun potere se non ti fosse stato dato dall’alto” (39). È il Sinedrio che tende a far apparire Gesù come un ribelle all’autorità romana. Ma Pilato non accetta quest’interpretazione; eppure non era certamente tenero verso le sedizioni giudaiche (40). La predicazione di Gesù si differenzia subito dallo zelotismo, e lo vediamo chiaramente nell’episodio del denaro (41). È superfluo elencare tutti i brani neotestamentari che affermano il dovere del rispetto verso l’autorità civile (42). Solo è opportuno ricordare che dai Vangeli, dagli Atti e dalle Lettere appare chiaramente che sono sempre i giudei che tendono a far apparire i cristiani come eversori dell’autorità (43).
Nella prima lettera di Clemente ai Corinzi, di cui ho già parlato, sono “ripresi ed accentuati i concetti paolini di una funzione etica attribuita al potere in quanto è ministro di Dio” (44).
Col montanismo, caratterizzato da “una violenta intransigenza di fronte allo Stato e alla società pagana e da un ritorno allo spirito antiromano delle rivolte giudaiche” (45), si manifestarono alcuni atteggiamenti di ribellione all’autorità civile. “Prima del 171, forse fin dall’epoca di Antonino Pio e del processo di Policarpo, il montanismo era presente fra i cristiani, se non con tutti i suoi sviluppi dottrinari, certo con l’animus che lo ispirava: e fu proprio questo animus, questa intransigenza di fanatici, che molti pagani confusero con lo spirito stesso del cristianesimo (è interessante osservare che Celso, scrivendo intorno al 178, nomina molte eresie cristiane, ma non il montanismo, del quale peraltro conosce e critica certi atteggiamenti, riferendoli tranquillamente, e senza alcuna distinzione, ai cristiani in generale) a suscitare nella classe dirigente romana i più gravi sospetti” (46). E in questo clima che matura la persecuzione di Marco Aurelio. “Questa persecuzione […] nasceva da un tragico equivoco: il cristianesimo non si identificava col montanismo, e la “grande Chiesa” e, con essa, la maggioranza dei cristiani, non condivideva affatto le pregiudiziali antistatali, antisociali ed antiromane dei seguaci della “nuova profezia”. Negli anni fra il 176 e il 177, quattro apologie, quella di Melitone di Sardi, di Apollinare di Gerapoli, di Atenagora di Atene e di Milziade, furono indirizzate a Marco Aurelio e si proposero di dissolvere l’equivoco che l’atteggiamento montanista aveva fatto sorgere nei rapporti fra cristianesimo e impero […]. In contrasto con le nostalgie giudaizzanti ed antiromane del montanismo […] queste apologie riaffermano con chiarezza il tradizionale lealismo dei cristiani nei confronti dell’impero” (47). Non ho elencato in dettaglio le numerose testimonianze di questo lealismo, da Policarpo di Smirne a Giustino, Atenagora, Ireneo di Lione e Teofilo di Antiochia. È però particolarmente meritevole di attenzione la posizione di Tertulliano, che sappiamo di mentalità montanista. Ebbene, proprio Tertulliano nell’Apologetico sottolinea la lealtà dei cristiani nei confronti dell’impero, lealtà che è loro imposta dai testi sacri (48). È stato osservato che in questo testo Tertulliano propone in sostanza un’intesa tra l’imperatore e il cristianesimo. Altrove dichiara che “l’imperatore è tale perché riconosce che il suo potere deriva da Dio. Una tale visione […] fa di Tertulliano uno di quegli scrittori la cui chiaroveggenza politica sarà poi dimostrata dai fatti; l’impero romano-cristiano di età medievale ha origine in questi primi tentativi di filosofia politica cristiana” (49).
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Anche in campo più strettamente economico-sociale è diffusa la credenza che il cristianesimo, da una fase iniziale di condanna della ricchezza e della proprietà, abbia progressivamente accettato queste realtà, venendo a compromesso con la società antica e le sue classi dominanti. Anche questa non è un’idea proprio nuova. Già all’inizio del nostro secolo mons. Umberto Benigni scriveva: “Alcuni scrittori moderni, così liberali, come socialisti, han voluto sostenere che Gesù condannò la ricchezza in sé stessa e che “la povertà era per lui una condizione indispensabile per entrare nel regno dei cieli. La parabola di Lazzaro è stata chiamata, quando le società cristiane sentirono il bisogno di legittimare la ricchezza, la parabola del cattivo ricco […] (NITTI, Social. catt. III)”. A confutare questo pregiudizio che i socialisti hanno cercato di volgarizzare, basterà una citazione tipica, quella del buon giovane [cfr. Matt. 19, 22]. Ecco dunque un ricco che può salvarsi rimanendo ricco; soltanto per uno stato di virtù perfetta, niente affatto obbligatorio, egli doveva rinunziare alla ricchezza, cioè fare il sacrificio d’una cosa lecita, nel che evidentemente sta l’eroismo della virtù perfetta” (50).
L’episodio di Anania e Saffira fuga inequivocabilmente qualsiasi discorso sul comunismo delle comunità cristiane primitive (51). I Padri hanno poi costantemente chiarito che la povertà evangelica è essenzialmente una povertà di spirito.
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I pochi fatti che ho ricordato dovrebbero essere sufficienti a chiarire che le argomentazioni del sen. Mario Tedeschi e di tutti quelli che si pongono nella sua stessa prospettiva politico-culturale non hanno alcun fondamento storico: sono volgarizzazioni ulteriori di un’opera destinata a essere uno strumento di politica culturale marxista, quale è la Storia del cristianesimo di Ambrogio Donini. Su questa base è possibile costruire una battaglia anticomunista? È possibile che a una così stretta parentela propagandistico-culturale corrisponda una vera contrapposizione politica?
Insomma, dal momento che le tesi del Donini non si situano neppure su un terreno rigorosamente scientifico, ma sono lo strumento di una precisa politica culturale marxista, che senso può avere riproporle in un ambiente che si definisce anticomunista? A chi giova in definitiva questo rinnovare – su un terreno culturale di tradizione illuministica e marxista – la vecchia accusa di rivoluzionarismo mossa al cristianesimo dal Sinedrio? A chi giova sottrarre la battaglia anticomunista al fondamento naturale e cristiano rappresentato dalla dottrina della Chiesa; al radicamento di una tradizione bimillenaria, per spingerla nelle nebbie di un’improbabile ricerca di legami con la Roma pagana, una Roma che al di fuori della Chiesa cattolica, che ne ha raccolto l’eredità vitale, è soltanto un fantasma letterario?
E se gli anticomunisti si perdono in cerca di fantasmi, chi ne trae vantaggio?
RENATO TAMBURRINI
Note:
(1) Cfr. MARIO TEDESCHI, O apostati o comunisti, in Il Borghese, 3 settembre 1975.
(2) Cfr. AMBROGIO DONINI, Storia del cristianesimo, Teti, Milano 1975.
(3) MASSIMO MASSARA, Prefazione a A. DONINI, op. cit., p. 13.
(4) A. DONINI, op. cit., p. 21.
(5) A. H. M. JONES, Lo sfondo sociale della lotta fra paganesimo e cristianesimo, in Il conflitto fra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Einaudi, Torino 1968 e 1975.
(6) Cfr. Mc. 15, 43.
(7) Cfr. Atti 10, 1; per la cronologia cfr. GABBA, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Milano 1958. p. 89.
(8) Cfr. Atti, 7, 27.
(9) Ibid. 13, 7-12.
(10) Ibid. 17, 4.
(11) Cfr. Fil. 1, 13.
(12) Ibid. 4, 22.
(13) A. H. M. JONES, op. cit.
(14) A. DONINI, op. cit., p. 139.
(15) Cfr. Rom. 1, 5 e 13.
(16) Cfr. Ann., XIII, 12.
(17) Cfr. MARTA SORDI, Il cristianesimo e Roma, Cappelli, Bologna 1965, p. 68.
(18) Ibid., p. 69.
(19) Cfr. UMBERTO BENIGNI, Storia sociale della Chiesa, Vallardi, Milano 1906, vol. I, p. 99; e PAOLO BREZZI, Dalle persecuzioni alla pace di Costantino, Studium, Roma 1960, p. 142.
(20) HARNACK, La missione e la propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, cit. in P. BREZZI, op. cit., p. 140.
(21) Epist., X, 96.
(22) Cfr. EUSEBIO, Storia ecclesiastica, V, 24.
(23) P. BREZZI, op. cit., pp. 154-155.
(24) Cfr. DE ROSSI, Roma sotterranea, II, nn. 22, 27, 48.
(25) EUSEBIO (H . E., V, 21, 1 ss.) ci dice che al tempo di Commodo la Chiesa godette pace su tutta la terra e la parola di Dio si diffuse conquistando ogni genere di persone, fra cui, a Roma, molti ricchi e molti nobili: per l’età severiana (193-235) Tertulliano ci documenta (Ad Scapulam IV) che furono cristiani uomini e donne della più alta nobiltà senatoria (clarissimi e clarissimae): nel 258 l’editto di Valeriano commina pene speciali ai cristiani appartenenti agli ordini senatorio ed equestre (Cypr. Epist. LXXXI; cfr. JONES, op. cit., p. 27 e P. BREZZI, op. cit., pp. 164-165).
(26) Conc. Ilib. can. 2-4, 55, 56.
(27) H. E., VIII, 1; cfr. anche LATTANZIO, De mort. pers. 15.
(28) BREZZI, op. cit., p. 178.
(29) Lc. 3, 14.
(30) Ibid. 7, 1-10.
(31) Atti 10, 1 ss.
(32) M. SORDI, op. cit., p. 481.
(33) P. BREZZI, L’impero romano e il cristianesimo dalle origini alla metà del V secolo, in Guida allo studio della civiltà romana antica, vol. I, Napoli 1952.
(34) Cfr. Apol., XXXVII, 4.
(35) Ibid., XLII, 3; anche nel suo discorso Sulla corona, che prende lo spunto dal rifiuto di un soldato cristiano di portare la corona d’alloro, dono degli imperatori Caracalla e Geta, condanna il servizio militare “non tanto in quanto occasione di omicidio, bensì in quanto esso richiedeva il giuramento di fronte ad un’autorità pagana […] Va tenuto presente, comunque, che un tale atteggiamento radicale non fu condiviso da tutta la comunità cristiana; l’episodio del soldato, ad esempio, suscitò delle critiche nei cristiani stessi, i quali non approvavano il suo gesto di sfida” (MORESCHINI, Cristianesimo e Impero, Sansoni, Firenze 1973, 48). E difatti sia il gesto del soldato sia le argomentazioni di Tertulliano non si capiscono al di fuori di un orizzonte montanista. Altri soldati della III Augusta assistettero all’episodio e non condivisero affatto il comportamento del loro commilitone montanista (M. SORDI, op. cit., p. 482).
(36) Si rivolge all’imperatore e ricorda i cristiani militanti nella XII legione Fulminata.
(37) M. SORDI, op. cit., p. 483; le parole di Dione: “Vi sono dei soldati cristiani che servono negli eserciti dei nostri signori […]” (Acta Maximiliani in RUINART, Acta sincera, pp. 340-342, cit. in JONES, cit.).
(38) TAGLIAVINI, Storia di parole pagane e cristiane attraverso i tempi, Morcelliana, Brescia 1963, pp. 9-12.
(39) Gv. 19, 11.
(40) Cfr. Lc. 13, 1 e GIUSEPPE FLAVIO, A. I . XVIII, 85 ss.
(41) Cfr. Mc. 12, 17.
(42) Cfr. Rom. 13, 1 ss.; 1 Pt. 2, 9 ss.
(43) Cfr. M. SORDI, op. cit., passim.
(44) P. BREZZI, op. cit., p. 232.
(45) M. SORDI, op. cit., p. 171.
(46) Ibid., p. 172
(47) Ibid., p. 185.
(48) Cfr. Apol., XXX.
(49) MORESCHINI, op. cit., pp. 50-51.
(50) U. BENIGNI, op. cit., pp. 32-33.
(51) Cfr. Atti 5, 4.