ALFREDO MANTOVANO, Cristianità n. 212 (1992)
7. Segnali negativi
Dopo aver indicato gli elementi di maggior interesse sul piano dei fatti e della legislazione nei mesi seguenti gli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è opportuno prendere in esame altri dati, relativi al medesimo arco temporale, che fanno sorgere più di un dubbio sull’effettiva volontà politica di mutare rotta. Quattro accadimenti significativi, risalenti al periodo estivo del 1992, relativi a modifiche o a proposte di modifica della legislazione esistente e che hanno avuto eco diversa da parte dei mass media, inducono a non dar per scontato che l’inversione di tendenza cui ho fatto cenno sia reale ed effettiva. Si tratta dell’introduzione nella legge di conversione del “decreto antimafia” della norma di cui all’articolo 14 bis, del varo del decreto legge sul sequestro dei beni dei corrotti e dei corruttori, della ripresa della “campagna” per legalizzare la droga, e delle varie proposte di amnistia e/o di condono per i pubblici amministratori coinvolti nelle inchieste dette “mani pulite”.
8. A livello legislativo
A. L’estensione dell’affidamento in prova al servizio sociale
Convertendo in legge il decreto antimafia, il Parlamento ha inserito una norma, l’articolo 14 bis, non contenuta nel testo originario del provvedimento, con cui, interpretando l’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario, viene stabilito che il limite di pena da non superare perché il condannato possa beneficiare dell’affidamento in prova al servizio sociale deve tener conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive.
Per comprendere il senso della disposizione, è necessaria qualche premessa; l’affidamento in prova al servizio sociale è una misura alternativa alla detenzione introdotta dalla cosiddetta “legge Gozzini”, e consente, al fine di limitare al massimo la permanenza nell’ambiente carcerario, che colui al quale sia stata inflitta una pena detentiva non superiore a tre anni, purché sia stato in carcere per almeno un mese, prosegua l’espiazione di fatto in libertà, ma sotto la guida e il controllo del Centro di Servizio Sociale per Adulti, impegnato in attività lavorative e di ricupero (67). Si è a lungo discusso in giurisprudenza sull’individuazione del limite di pena quando interviene una causa di estinzione della pena stessa; se, per esempio, Tizio è stato condannato a quattro anni di reclusione e nel frattempo sopraggiunge un provvedimento di condono che gli cancella due anni, può essere ammesso a questo beneficio? Dopo una serie di pronunzie contrastanti, anche da parte della Corte di Cassazione, nel 1989 è intervenuta una decisione delle Sezioni Unite della medesima Corte che, dopo una disamina articolata e approfondita, valutate le ragioni a sostegno dell’una e dell’altra posizione, ha ritenuto l’irrilevanza delle cause estintive della pena, per cui, in base alla lettera della legge, si deve far riferimento non già alla sanzione che in concreto va eseguita, bensì alla “pena inflitta” (68); quindi la questione era risolta e non vi era alcun bisogno di esegesi da parte del legislatore.
Invece il Parlamento ha ritenuto di dover fornire l’interpretazione autentica della norma, ribaltando l’orientamento espresso in modo autorevole dalla Corte di Cassazione e inserendo, come si è detto, l’articolo 14 bis — in base al quale vanno considerate pure le cause estintive della pena — al momento della conversione del decreto n. 306, dell’8 giugno 1992. L’esito pratico è che oggi chi sia stato condannato a cinque anni di reclusione per fatti antecedenti il 24 ottobre 1989 — data cui si ferma l’operatività dell’ultimo condono —, rischia, se non ha subito carcerazione preventiva, di stare in carcere per appena un mese: cinque anni meno l’abbuono di due per il condono fanno tre anni, limite che fa scattare l’affidamento in prova; allo stesso risultato si perviene per chi è stato condannato a sette anni di reclusione per fatti che non oltrepassano l’8 giugno 1986, data ultima di efficacia del precedente condono — quello varato nel dicembre 1986 —, i cui effetti benefici si sommano a quelli del condono del dicembre del 1990, con uno “sconto” complessivo di quattro anni di pena detentiva.
È appena il caso di ricordare che l’articolo 14 bis è contenuto in un decreto, convertito in legge, qualificato “antimafia” — chiunque può valutare quanto una norma come questa ostacoli la criminalità di ogni tipo, e quindi pure quella mafiosa —, e che quell’articolo è stato introdotto al culmine dello “scandalo tangenti”. Ritenere che più di uno all’interno del Parlamento abbia inteso cautelare sé stesso, e/o persone a lui vicine, per l’immediato futuro, non è esercizio di malizia, ma uso elementare d’intelligenza. D’altra parte risale al mese di settembre del 1992, ed è stato possibile proprio in virtù dell’applicazione sia della nuova norma che dei decreti di condono, l’affidamento in prova al servizio sociale — disposto dal Tribunale di Sorveglianza di Roma — dell’on. Pietro Longo, già segretario del Partito Socialista Democratico Italiano, più volte ministro, che era stato condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione per concussione, avendo ricevuto una tangente di un miliardo e mezzo dalla ditta milanese Icomec in relazione all’appalto di costruzione della centrale idroelettrica di Edolo, in provincia di Brescia, quando ricopriva anche l’incarico di consigliere di amministrazione dell’ENEL. Divenuta definitiva la sentenza di condanna, l’on. Pietro Longo era stato condotto in carcere il 30 aprile 1992; poiché il condono del 1990 gli aveva cancellato due anni di reclusione, restavano da espiare due anni e mezzo: l’articolo 14 bis prima richiamato gli ha consentito di lasciare Rebibbia il 29 settembre, e quindi di trascorrere effettivamente in stato di detenzione soltanto cinque mesi (69).
B. Il decreto legge sul sequestro dei beni dei corrotti
Parlare del decreto legge n. 385, del 19 settembre 1992, decaduto per mancata conversione da parte del Parlamento e riproposto con qualche modifica il 20 novembre 1992 con il n. 450, come di un provvedimento al tempo stesso inutile e dannoso, può sorprendere, dal momento che il Governo lo ha presentato come la più decisa risposta alla corruzione straripante e alle varie inchieste “mani pulite”. Eppure, quanti avrebbero dovuto essere i più diretti interessati all’applicazione delle norme, i pubblici ministeri, e che dalle nuove disposizioni avrebbero dovuto trarre aiuto per l’accertamento e la persecuzione dei delitti dei pubblici amministratori, lo hanno criticato duramente; si è trattato della solita vis polemica dei magistrati contro i politici, e in particolare contro il ministro di Grazia e Giustizia, promotore del decreto, o le ragioni a sostegno delle forti perplessità sollevate hanno qualche fondamento?
Per rispondere al quesito è necessario riassumere, sia pure per cenni, il contenuto del provvedimento, il quale, nella seconda versione, priva di sostanziali mutamenti rispetto alla prima, prescrive che, “quando è stato disposto il giudizio — così recita testualmente l’articolo 1 del testo rinnovato — o comunque si procede al giudizio” per i delitti più gravi contro la pubblica amministrazione, il pubblico ministero chiede al giudice, che poi dispone con decreto motivato, il sequestro dei beni dell’imputato, in misura equivalente al “vantaggio patrimoniale o al concreto profitto derivato dal reato ovvero, per i delitti di concussione o corruzione, pari a quanto dato o ricevuto”. Rispetto alla prima stesura è stata riproposta la norma, contenuta nell’articolo 2, in base alla quale il sequestro può riguardare anche i beni di un’impresa, o di un consorzio di imprese, se colui, nei cui confronti si procede per corruzione, ha agito in nome o per conto dell’una o dell’altro, e se ciò ha alterato la formazione di contratti stipulati con la pubblica amministrazione. Inoltre, all’articolo 3, si è previsto che chi riporti condanna per corruzione, concussione o peculato, incorra nelle stesse misure interdittive della legislazione di prevenzione antimafia: fra esse, il divieto di ottenere licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio, concessioni edilizie, iscrizioni negli albi di appaltatori o di fornitori di opere, o per lo svolgimento di attività imprenditoriali, e così via; e, se ottenute, la decadenza da esse.
Era un decreto necessario? Sicuramente no. Il codice di procedura penale prevede, all’articolo 253, “il sequestro del corpo del reato” — il cosiddetto “sequestro probatorio” —, intendendosi per “corpo del reato le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo”; agli articoli 316 e seguenti disciplina il cosiddetto “sequestro conservativo” dei beni dell’imputato, adottabile quando manchino le garanzie per il pagamento delle spese del giudizio, delle pene pecuniarie e del risarcimento in favore della parte civile; agli articoli 321 e seguenti contempla infine il cosiddetto “sequestro preventivo”, per evitare l’aggravamento delle conseguenze di un reato derivanti dalla libera disponibilità di cose pertinenti al reato stesso. Le previsioni sono complete, le procedure relativamente semplici e abbracciano l’intero arco del procedimento penale: vi è solo l’imbarazzo della scelta del tipo di sequestro da azionare a fronte della situazione concreta.
La disciplina del sequestro, di cui ai decreti n. 385, del 19 settembre 1992, e n. 450, del 20 novembre 1992, anzitutto crea confusione, sovrapponendosi alla normativa già esistente, senza curarsi di coordinare questa con quella, e poi finisce per danneggiare il lavoro dell’inquirente. Se ne vuole la prova? Il procedimento di sequestro, per il nuovo decreto, può essere avviato “quando è stato disposto il giudizio o comunque si procede al giudizio”; com’è noto, per il codice di procedura penale il “giudizio” corrisponde ordinariamente al dibattimento: rinviare l’adozione del sequestro a questa fase vuol dire quindi saltare a pie’ pari l’intero arco delle indagini, con la conseguenza che l’interessato, o chi per lui, dovendo a un certo punto essere messo a conoscenza che si procede nei suoi confronti, ha tutto il tempo per occultare o per distrarre i suoi beni. Il sequestro è sempre stato atto “a sorpresa”; e lo è ancora in base alle norme del codice di procedura penale: va cioè disposto all’insaputa di colui nei cui confronti sarà eseguito. Chi ha la disponibilità di un bene e viene avvisato che il bene stesso corre il rischio di assoggettamento a misura cautelare, di regola non perde tempo a farlo sparire; bene, il decreto legge ha introdotto questo “avvertimento”, quando ha stabilito quale condizione di operatività del sequestro che il giudizio debba essere stato comunque disposto, il che presuppone che l’indagato abbia già ricevuto la notizia del procedimento avviato contro di lui.
Ma vi sono altri aspetti preoccupanti. Se è vero che nella corruzione il rapporto si pone fra due soggetti — chi dà e chi riceve —, l’accertamento del reato è possibile in modo celere solo se uno dei due riferisce ciò di cui è al corrente. Il decreto del Governo, nel momento in cui impone il sequestro dei beni per un importo pari a quanto dato o ricevuto, incentiva soltanto il silenzio: quale imputato — che, per altro, in caso di condanna, è tenuto anche al risarcimento dei danni in favore delle parti offese che si siano costituite parti civili — può essere indotto a dire quanto sa, se l’estensione del sequestro, e della conseguente confisca, è direttamente proporzionale a quello che lui stesso avrà rivelato? Altrettanto negativa è la previsione dell’applicazione delle misure interdittive della legislazione di prevenzione antimafia a chi venga condannato per i reati contro la pubblica amministrazione: se tali misure, in sé abbastanza gravose, hanno una loro logica sul fronte della prevenzione del crimine organizzato, al fine di allontanare le mani delle associazioni di tipo mafioso dall’economia, la loro estensione a questo tipo di reati appare del tutto vessatoria. Infatti essa, oltre a rafforzare il convincimento che non si deve collaborare nell’accertamento dei reati, provocherebbe gravissimi problemi per la sopravvivenza stessa delle imprese, soprattutto nei casi in cui l’amministratore è anche, in tutto o in parte, proprietario, e quindi pure per il posto di lavoro di tanti dipendenti.
La direzione che il Governo ha percorso con questo provvedimento è quindi esattamente opposta a quella auspicata dai magistrati che finora si sono occupati con successo di questo tipo di delitti (70), i quali hanno più volte auspicato il varo nel settore di una legislazione “premiale”, che conceda sconti e riduzioni di pena a chi collabori concretamente all’accertamento della verità: infatti, si tratta di un tipo di legislazione sperimentato con successo con il terrorismo e che proprio oggi sta dando i suoi frutti quanto alla criminalità mafiosa. Battere per Tangentopoli la strada inversa è segno di una chiara scelta politica, pur se paludata delle insegne del rigore: infatti, se chi finora ha aiutato la giustizia non parlerà più, si saprà a chi attribuire il merito.
La riprova che queste considerazioni non sono frutto di malizia ma della lettura oggettiva delle nuove norme, è fornita con evidenza da un’omissione del decreto in questione. È noto che una parte consistente delle tangenti è andata e va a finire nelle casse dei partiti; ebbene, l’articolo 3 del decreto legge n. 405, del 20 novembre 1992, stabilisce che un’impresa o un consorzio di imprese che hanno lucrato un vantaggio economico a seguito di affari frutto di corruzione, devono subire prima il sequestro e poi la confisca dell’equivalente di quanto hanno dato, mentre nessuna norma prevede che accada lo stesso per il partito o per la corrente che hanno beneficiato della tangente, essendo questo sancito soltanto per il corrotto come persona fisica: così si configura una graziosa immunità, che si somma a quella di cui godono i parlamentari, e viene dato un contributo alla retta interpretazione dello “spirito” di tutto il provvedimento.
Al momento della pubblicazione della prima versione del cosiddetto “decreto anticorrotti” sorgeva il dubbio se esso fosse frutto semplicemente di grossi errori di valutazione, ovvero di un preciso calcolo mirante a ostacolare quanti, con le loro indagini, danno fastidio. Pur non ritenendo l’insipienza una prospettiva più favorevole della malafede, la ripresentazione del provvedimento, nonostante la mole di critiche e di osservazioni mossa nei suoi confronti, induce a optare con poche incertezze per la seconda soluzione.
C. Le proposte di modifica della disciplina sugli stupefacenti
A scadenze ormai fisse si torna a parlare di liberalizzazione e/o di legalizzazione della droga, trascurando i dibattiti svolti sul tema negli anni passati, e riproponendo pari pari argomenti già usati, come se nulla si fosse mai detto. Nel mese di agosto del 1992 la discussione è stata aperta da un ministro di Grazia e Giustizia appartenente a quello stesso partito che pochi anni prima si era fatto portatore di istanze ben diverse, recepite nella legge Vassalli-Russo Jervolino del 1990: se si legalizzasse la droga — è stata la tesi non nuova dell’on. Claudio Martelli, che tuttavia ha tratto spunto dai fatti gravissimi di Capaci e di via D’Amelio — si priverebbe la mafia della fonte principale dei suoi introiti e se ne ridurrebbero il potere e la capacità operativa. Gli ha dato corda, sulla stessa linea, l’on. Giuseppe Ayala, ex magistrato, ora deputato in Parlamento, mentre hanno mostrato apprezzamento i vari antiproibizionisti; significativamente ostili invece, con sfumature di tono che non intaccano una sostanziale comune contrarietà, i rappresentanti delle comunità terapeutiche.
Così com’è stata posta, la tesi è fuorviante; ammettendo che essa abbia un fondamento di verità — ma non l’ha, come vedremo subito —, prenderla in considerazione equivarrebbe a sostenere che nella vicenda il problema principale, se non esclusivo, non è già quello della schiavitù dei giovani nei confronti della droga, che crescerebbe qualora la proposta si traducesse in legge, bensì solo quello dello sfruttamento della tossicodipendenza da parte delle organizzazioni criminali (71).
Lo stesso don Luigi Ciotti, che pure — e in modo non del tutto esatto — è stato presentato come favorevole alla legalizzazione, ha sottolineato questo aspetto, confessando di porsi “[…] molti interrogativi, tanto più se per legalizzazione si volesse intendere la semplice distribuzione delle droghe pesanti, disinteressandosi della persona concreta, se non si accompagnasse a percorsi di sostegno e di aiuto delle persone che vivono il disagio, del quale l’uso di sostanze è solo sintomo e non causa. […] Il vero problema è e rimane quello di creare le condizioni perché la persona si liberi dalla schiavitù della droga” (72). E, può aggiungersi, l’offerta di stupefacente più a buon mercato non è certo in grado di portare aiuto in questa direzione.
Ma, come spiegava anche il compianto Paolo Borsellino, dalla distribuzione legale della droga non deriverebbe alcun vantaggio alla lotta alla mafia: “Intanto non si distruggerebbe la mafia perché la mafia riconvertirebbe la sua attività. La droga è un accidente nell’esistenza della mafia. La mafia è stata in passato e può essere in futuro pericolosa anche senza la droga” (73). Infatti, posto che nessuna legalizzazione può mai essere completa — a meno di non voler ammettere che anche a un bambino di otto anni si debba consentire senza problemi di acquistare la sua “dose”, e per diverse volte nel corso della giornata —, i limiti di un’eventuale disciplina legalizzatrice riguarderebbero inevitabilmente la minore età del compratore e la quantità massima di sostanza stupefacente acquistabile, con conseguente schedatura dei tossicodipendenti, per impedire che essi prendano la droga nel giro di poche ore e da più esercizi.
Provo a immaginare alcuni dei problemi che si porrebbero di conseguenza:
a. quanti accetterebbero di essere etichettati a vita o per un certo tempo come “tossicodipendenti”?
b. una volta fissata legislativamente l’età minima — 18,16,14 anni? e in base a quali criteri? — con ciò stesso si creerebbe una fascia costituita da tutti coloro che saranno al di sotto di essa, di “clandestini”;
c. si dovrà determinare la quantità di “sostanza attiva” presente in ogni dose; tuttavia essa, com’è noto, varia a seconda del grado di assuefazione: se dieci milligrammi di eroina “pura” bastano per una dose destinata a soggetto non assuefatto, cento milligrammi possono non soddisfare un soggetto gravemente assuefatto. Se si ritenesse di fissare una soglia elevata di sostanza attiva per dose, è facile immaginare che in pochi giorni il numero di decessi per droga subirebbe un’impennata, provocata dai “principianti” stroncati dall’assunzione di dosi pesanti; se ci si orientasse verso una soglia bassa, i tossicodipendenti assuefatti cercherebbero di procurarsi il resto in modo non “legale”;
d. la droga dovrà essere fornita in farmacie o in strutture pubbliche; ricordando quello che è accaduto tante volte con la consegna del metadone nei vari “pronto soccorso” e “guardie mediche”, chi garantirà l’incolumità del farmacista o dell’addetto alla distribuzione dello stupefacente che non intenda derogare ai limiti imposti per cedere la dose?
Dunque, le associazioni criminali continuerebbero a gestire il mercato clandestino della droga, destinato per forza di cose a permanere. “Allora la liberalizzazione non colpirebbe la mafia perché la mafia può esistere senza la droga. Né eliminerebbe il mercato clandestino: creerebbe solo nuovi danni alle categorie più deboli, ad esempio i minori. E in Italia ci sono già drogati anche di dieci anni” (74); e, inoltre, non faticherebbe a inserirsi, come oggi fa per tante attività in sé lecite, nella conduzione di imprese cui lo Stato dovrebbe concedere la coltivazione, la “raffinazione”, il “taglio” e la commercializzazione delle sostanze stupefacenti.
È certo piuttosto che l’obiettivo della campagna per la legalizzazione della droga lanciata nel cuore dell’estate del 1992 non è solo quello immediato di consentire la vendita controllata dell’eroina, ma anche quello mediato di ottenere comunque una revisione di quella legge Vassalli-Russo Jervolino che, approvata nel 1990 dopo un lungo iter parlamentare, ha ribaltato il precedente modo di affrontare il problema. Più di uno dei sostenitori della proposta dell’on. Claudio Martelli ha dichiarato senza mezzi termini che, quand’anche non si arrivasse a concretizzarla, comunque sarebbero necessarie modifiche dell’attuale disciplina normativa. Lo stesso presidente del Consiglio, on. Giuliano Amato, sembra essersi mosso in questa direzione quando, nel corso di una conferenza stampa tenuta il 7 novembre 1992 insieme all’on. Marco Pannella, da sempre fautore dell’”antiproibizionismo”, ha sostenuto che il tossicodipendente non deve finire in carcere, e che la legge in vigore va cambiata nella parte in cui consentirebbe che ciò avvenga.
E invece si tratta di una legge che, pur perfettibile e bisognosa di procedure più snelle e meno confuse nella fase applicativa, va difesa senza incertezze nella sua impostazione di fondo (75) che, com’è noto, si muove su due binari: da un lato, un chiaro giudizio di disvalore nei confronti non soltanto del traffico e dello spaccio, ma anche dell’assunzione degli stupefacenti; dall’altro, la predisposizione di una serie di misure in favore del ricupero del tossicodipendente. Da un lato, la considerazione del consumatore non come un ammalato bisognoso esclusivamente di cure mediche — tale era l’impostazione della legislazione precedente —, ma come un soggetto che, senza dubbio in virtù di una serie di condizionamenti di vario tipo, compie una scelta, che non può trovare apprezzamento da parte dell’organismo sociale. Dall’altro, la mano tesa a chi ha sbagliato, che non viene immediatamente colpito dalle sanzioni penali, ma è esortato al ricupero attraverso un articolato iter di natura amministrativa, solo al termine del quale — in caso di rifiuto — si avvia il procedimento penale, la cui prosecuzione è a sua volta condizionata dalla volontà di lasciare la droga.
Non si possono neppure condividere le posizioni dei critici della riforma del 1990 quando sostengono che essa ha dato come unico frutto la criminalizzazione del tossicodipendente; è vero il contrario: infatti, posto che per valutare gli effetti di una legge, soprattutto in una materia così complessa, non bastano certamente due anni, va detto che questo periodo ha conosciuto il significativo rallentamento del trend dei decessi per droga — dal 1° gennaio al 10 novembre 1992 sono morte in Italia per questa causa 988 persone contro le 1.200 del medesimo periodo del 1991 (76) —, il parallelo notevole incremento dei sequestri di sostanze stupefacenti — nel periodo appena indicato 1.133 chilogrammi di eroina, 1.270 di cocaina e 22.585 di hashish (77) —, grazie anche alle particolari facoltà operative date alle forze dell’ordine, e un sostegno di grosse proporzioni alle comunità terapeutiche.
Quanto al luogo comune, che ha purtroppo trovato eco autorevole anche a Palazzo Chigi, secondo cui la disciplina Vassalli-Russo Jervolino avvierebbe il tossicodipendente al carcere, basta ricordare che, dal momento in cui essa è entrata in vigore fino al mese di maggio del 1992, la polizia giudiziaria ha segnalato per possesso di droga in quantità limitate 32.556 persone, ma soltanto in 1.662 casi gli atti sono stati trasmessi — e solo “trasmessi”, il che non significa che è iniziato automaticamente un procedimento penale — all’autorità giudiziaria (78). I tossicodipendenti oggi chiusi in galera hanno, nella gran parte dei casi, commesso reati sicuramente collegati alla loro condizione, dai furti alle rapine, alle estorsioni, queste ultime soprattutto a danno dei familiari, ma non per semplice uso di stupefacenti: è quanto non si stanca di ripetere, benché spesso inascoltato, il direttore degli Istituti di prevenzione e pena, dottor Nicolò Amato, il quale anche di recente ha ricordato “[…] che oggi, nelle carceri, non c’è nessun detenuto per uso puro e semplice di sostanze stupefacenti” (79).
Da ultimo, va tenuto presente che il decreto legge n. 431, del 12 novembre 1992, che ha riproposto il contenuto di provvedimenti sostanzialmente identici decaduti per mancata conversione, ha elevato a quattro anni il limite della pena della reclusione, — originariamente fissato in tre anni dalla legge Vassalli-Russo Jervolino —, la cui esecuzione è possibile sospendere se si è riportata condanna per reati connessi allo stato di tossicodipendenza, sempre che sia in corso un programma terapeutico o di riabilitazione. Se sussiste quest’ultima condizione, lo stesso decreto impedisce sia che nella fase delle indagini siano disposte misure restrittive della libertà, sia che prosegua la detenzione di quanti risultano affetti da HIV: si tratta di un insieme di disposizioni che tengono conto delle più gravi patologie ai fini del mantenimento in carcere, e che confermano la netta propensione verso il ricupero del drogato. Se questi resta dietro le sbarre è non già perché ha assunto sostanza stupefacente, ma perché, oltre ad assumerla, l’ha spacciata, oppure ha consumato delitti tesi a procurare il denaro per acquistare le “dosi”; posto che neanche gli antiproibizionisti arrivano a richiedere, almeno pubblicamente, la depenalizzazione delle rapine e delle estorsioni, in entrambi i casi il tossicodipendente evita la reclusione, se accetta un piano di riabilitazione.
D. Amnistia e/o condono per Tangentopoli?
“Se i partiti si dimostreranno capaci di una radicale autoriforma è giusto pensare a un’amnistia per i politici corrotti”: così il segretario generale aggiunto della CGIL, nonché esponente del Partito Socialista Italiano, Ottaviano Del Turco, nel corso di un’intervista pubblicata all’inizio dell’estate del 1992 (80), introduceva quella che appariva come una sorta di pur tardiva controffensiva del partito di via del Corso allo scandalo delle tangenti. Che fosse soltanto l’ouverture è stato poi confermato dal più ampio intervento pronunciato il giorno successivo alla Camera del Deputati dall’on. Bettino Craxi, il quale, dopo aver ricordato che quello che è emerso negli ultimi mesi rappresenta in fondo qualcosa che è noto a tutti da tempo immemorabile, ha aggiunto che, “se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale” (81).
La sede nella quale sono state rese queste affermazioni e l’ampiezza del dibattito che hanno suscitato impongono che sul tema siano fissati alcuni punti, i quali possono apparire ovvi, ma il senso d’inutilità della riflessione è superato dalla considerazione che proprio l’ovvio oggi spesso latita, e che talvolta esso riesce più difficile da spiegare delle cose complesse. Anche perché l’ipotesi di un perdono, nella forma del condono piuttosto che in quella dell’amnistia, è stata avanzata pure dal dottor Gherardo Colombo, uno dei pubblici ministeri milanesi più impegnati sul fronte delle indagini sulle tangenti, nonché dall’on. Enzo Binetti, dirigente del Dipartimento Giustizia della Democrazia Cristiana.
Anzitutto va osservato che i procedimenti penali in corso in varie città italiane non hanno e non hanno avuto per oggetto soltanto semplici violazioni alla legge sul finanziamento dei partiti, ma anche, e non in misura marginale, casi o di concussione o di corruzione, cioè casi in cui vi è stata costrizione da parte del pubblico ufficiale alla corresponsione della “tangente”, ovvero questa ha costituito il prezzo di un accordo con vantaggio per il privato. L’iter logico seguito dall’on. Bettino Craxi, se descrive in termini assai ampi un fenomeno che taluno forse immaginava più circoscritto — ma gli eventi giudiziari che hanno seguito queste affermazioni hanno superato ogni fantasia —, non può dunque conseguire l’effetto di trasformare in lecito quanto è intrinsecamente illecito, proprio perché si discute di delitti gravemente puniti dal codice penale. Dire che tanti rubano può dispiacere sul piano soggettivo, ma non implica per ciò solo la rinuncia alla persecuzione penale del furto: ed è inutile ricordare che la concussione è qualcosa di più grave del furto.
Quanto al problema dei costi dell’azione politica, sottolineato dal segretario del PSI, del quale certi fenomeni costituiscono il logico corollario, si potrebbe osservare che, se questo problema esiste — come in realtà esiste —, andrebbe denunciato in quanto tale, senza necessità di legittimare concussione e corruzione; ma, al tempo stesso, sarebbe necessario, poiché è una questione d’interesse generale, comprendere l’estensione e la destinazione del denaro preteso dalla politica: nel conto spese rientrano i buoni di benzina generosamente elargiti dai candidati in campagna elettorale? E le cene? E le serate in discoteca con i divi della canzone? E le opere pubbliche create ad hoc, al fine di concedere il relativo appalto?
Quello che certamente non serve è, come propone Ottaviano Del Turco, un colpo di spugna generalizzato, all’insegna del “saremo buoni”; in realtà, ferma la necessità di una seria rimeditazione dei caratteri dell’attuale sistema politico e della formazione del consenso al suo interno, lo Stato — volendo limitare il discorso agli aspetti giudiziari della vicenda (82) — non può rinunciare in via anticipata all’esercizio dell’azione penale, soprattutto contro chi ha gravemente contravvenuto le leggi, creando sconcerto e seri danni materiali e d’immagine delle istituzioni. I guasti prodotti dal frequentissimo ricorso nella storia della Repubblica alle amnistie e ai condoni (83), in termini di incertezza della pena e di incertezza del diritto, sono fin troppo noti per non far guardare con il massimo sfavore un’ipotesi di questo tipo; che peraltro, a differenza di quanto accade di solito per i provvedimenti legislativi di clemenza, interverrebbe su indagini ancora in corso, impedendo lo stesso accertamento dei fatti-reato e della relative responsabilità.
Quanto alle proposte formulate dal dottor Gherardo Colombo e dall’on. Enzo Binetti, è vero che per il primo il condono non sarebbe incondizionato, bensì subordinato alla collaborazione con la giustizia, mentre per il secondo andrebbe collegato alla restituzione del maltolto, ma in entrambi i casi si tratterebbe pur sempre di azzerare il conto relativo a condotte illecite: si tratterebbe cioè di un’operazione in sé ingiusta, perché negherebbe il “suo” — costituito nella specie dalla sanzione penale — a chi ha violato la legge, e al tempo stesso antipedagogica verso la collettività, perché rafforzerebbe la convinzione che, almeno quanto alle conseguenze sul piano del diritto positivo, solo chi si comporta onestamente ha ragioni per rammaricarsi. Il “[…] frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, a scadenze quasi fisse, […] favorisce nei cittadini l’opinione che si possa disobbedire alle leggi dello stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o persino premiata la loro trasgressione della legge” (84).
La restituzione del maltolto rappresenta di regola un effetto dell’affermazione di colpevolezza, mentre non si vede perché la collaborazione prestata in sede giudiziaria debba necessariamente sfociare nella rinuncia dello Stato a far eseguire qualsiasi sanzione, e non debba contenere il suo rilievo, con riferimento al trattamento del reo, in una diminuzione di pena, come è avvenuto per i pentiti del terrorismo, e come avverrà, grazie alle ultime riforme legislative, per i pentiti della mafia.
9. L’applicazione delle leggi
Se, dunque, prima con le sentenze della Corte Costituzionale e successivamente con buona parte delle norme introdotte dal decreto antimafia e con la cattura di pericolosi latitanti, i “messaggi” provenienti a vario livello istituzionale si muovono nella direzione della lotta decisa alla criminalità organizzata, non altrettanto può dirsi per altri testi normativi approvati o anche solo genericamente proposti nello stesso periodo. Eppure, in un momento in cui la sfiducia nei rappresentanti dell’autorità rischia con facilità di trasformarsi in sfiducia nell’autorità in quanto tale, vi è assoluto bisogno di una compattezza di condotta senza cedimenti e senza demagogie di alcun tipo: “La sola possibilità per lo Stato di segnare un’inversione di rotta — sosteneva Giovanni Falcone — mi sembra consista nel garantire un livello minimo di convivenza civile […]. Una delle pre-condizioni, delle clausole fondamentali di un simile contratto di convivenza consiste nell’assicurare l’applicazione della legge e nel contrastare efficacemente la criminalità. Se non si realizzano queste condizioni, è inutile rifugiarsi nell’illusione generosa che lo sviluppo possa cancellare come per magia la mafia” (85).
Ma la lotta alla criminalità, e più in generale il ricupero della legalità, non è solo problema di leggi — per quanto sia tale in misura prevalente —, bensì pure di applicazione di leggi, e di comportamenti pubblici in senso lato. In più di un caso è lecito dubitare della volontà politica non soltanto di cambiare la legislazione nella direzione di una maggiore efficacia per l’affermazione del diritto, ma anche della corretta esecuzione alle norme esistenti; com’è stato acutamente osservato, l’Italia sembra essere oggi “un Paese dalle leggi severe temperate dall’inosservanza” (86), frutto di “un comportamento apparentemente schizofrenico dello Stato il quale, da una parte, dà luogo ad una produzione legislativa e paralegislativa sempre più affannosa e alluvionale, dall’altra mostra sempre maggiore fiacchezza e disinteresse nel curare e, quando necessario, imporre (come sarebbe suo diritto e dovere), l’osservanza di non poche leggi, formalmente vigenti” (87): il che è vero non già, ovviamente, per il diritto procedurale, finora connotato da eccesso di garantismo, ma, soprattutto, per ampi settori del diritto sostanziale.
Qualche esempio? “Esiste una severa norma penale (il D.L. n. 66 del 1948) che vieta i blocchi stradali e ferroviari, ma ciò non impedisce che essi vengano invece sistematicamente tollerati, tanto da essere considerati quasi come una legittima forma di protesta” (88). Dilagano i film a luci rosse, pur se “esiste un art. 21 della Costituzione che vieta le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le manifestazioni contrarie al buon costume […], ed esiste un art. 528 del codice penale che punisce appunto le pubblicazioni e gli spettacoli osceni” (89). “Esiste una minuziosa e dettagliata normativa in materia di commercio ambulante, in forza della quale nessuno può esercitare tale attività se non munito di apposita licenza. Essa non impedisce, però, che migliaia di soggetti (per lo più immigrati extracomunitari) esercitino senza licenza alcuna e del tutto indisturbati il commercio ambulante di oggetti vari (non di rado muniti di marchi contraffatti) nei luoghi più frequentati di tutte le città. […] Esiste una normativa urbanistica ma, specie in certe zone del territorio nazionale, essa viene platealmente violata senza che le autorità comunali, cui, per legge, sarebbe affidata la sorveglianza sul territorio, mostrino minimamente di avvedersene, e senza che le autorità statali intervengano in qualche modo per richiamarle all’ordine […]. Esiste una normativa […] in materia di circolazione stradale, che prevede, ad esempio, limiti di velocità, divieti di sosta di veicoli sui marciapiedi e sugli altri spazi riservati ai pedoni, uso obbligatorio di cinture di sicurezza, ecc. Ognuno vede come tali limiti e divieti vengano fatti osservare” (90).
L’amara conclusione, del tutto condivisibile, è che “[…] la sistematica tolleranza di tali comportamenti costituisce sintomo inequivocabile di un atteggiamento dei pubblici poteri generalmente portato a nutrire nei confronti dell’illegalità un atteggiamento di fatalistica rassegnazione” (91).
Al lassismo nella fase dell’esecuzione delle leggi si somma il cattivo funzionamento degli uffici pubblici; com’è stato affermato in un documento proveniente dal ministero dell’Interno, redatto sulla scorta delle indicazioni e delle informazioni fornite dai Prefetti, “l’azione di contrasto ad ogni forma di penetrazione” della criminalità “non può fare a meno […] del sostegno di una Pubblica Amministrazione la cui attività sia quotidianamente improntata a criteri di efficienza e trasparenza” (92); fra quelli che vengono chiamati “fattori inibenti” (93) il buon funzionamento dell’amministrazione statale, si segnalano “il non ottimale impiego delle risorse umane” (94), “radicati lenti ritmi lavorativi” (95), l’“assenteismo” (96), e più in generale la distorsione dello spirito di servizio “[…] nei significati più deteriori quali l’inamovibilità, l’impunità, l’identificazione dell’uomo con l’incarico ricoperto” (97).
La crisi della legalità dipende perciò anche dalla sfiducia in un apparato che appare ordinariamente incapace di rispondere in tempi ragionevoli e con efficacia operativa alle esigenze più elementari della collettività: lentezze e ritardi non connotano soltanto l’amministrazione della giustizia in senso stretto, la persecuzione dei reati e la risoluzione delle controversie civili, ma anche il rilascio di un certificato da parte di un qualsiasi ufficio — si pensi alle code davanti agli sportelli del Catasto per ottenere i dati riguardanti il pagamento dell’ISI, l’Imposta Straordinaria sugli Immobili —, per non parlare di atti amministrativi che richiedono l’intervento di più uffici pubblici o di più articolazioni di uno stesso ufficio; si pensi alla concessione edilizia o alla licenza di abitabilità. La sfiducia cresce ulteriormente quando, approfittando dei ritardi endemici della burocrazia, il singolo funzionario o impiegato propone all’utente, dietro corrispettivo, l’”accelerazione” della pratica: una prassi tutt’altro che infrequente, favorita da quel cattivo funzionamento della Pubblica Amministrazione riconosciuto apertamente dai responsabili di quest’ultima.
10. Le polemiche
Ma la voce “comportamenti pubblici” non si esaurisce qui, per quanto questo sia aspetto da non trascurare, poiché con esso ciascuno è destinato a scontrarsi quotidianamente; quella voce va integrata dalle polemiche ad alti livelli istituzionali che, nonostante confermino l’immagine di uno Stato diviso e in perenne conflitto al suo interno, sembrano costituire un punto fisso e insopprimibile nel panorama. Certamente non fanno crescere né la cultura della legalità, né la fiducia verso lo Stato le critiche che il ministro di Grazia e Giustizia, nel corso di una trasmissione televisiva, rivolgeva alla “potente corporazione dei magistrati” (sic), seguite dall’affermazione che “[…] comunque è meglio il Far West della vittoria della mafia” (98).
E ha avuto lo stesso senso il pervicace rifiuto dello stesso ministro di dare il “concerto” per la nomina alla carica di Procuratore Nazionale Antimafia, avendo il Consiglio Superiore della Magistratura proposto un candidato — il dottor Agostino Cordova, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palmi, in provincia di Reggio Calabria — evidentemente a lui sgradito, nonostante la cosiddetta “superprocura” fosse stata a più riprese presentata come strumento decisivo per la lotta alla mafia, e perciò da far funzionare con urgenza: infatti, era stata costituita con decreto legge; e poi, una volta che il decreto antimafia aveva mutato i requisiti per l’incarico, e quindi aveva riaperto i termini e le modalità del concorso per lo stesso, la manifesta ostilità verso il medesimo dottor Agostino Cordova, culminata nell’invio alla Procura della Repubblica di Palmi di un’ispezione ministeriale nel mese di agosto del 1992, in pieno periodo di ferie, nonostante la precedente ispezione fosse stata completata nel giugno dello stesso 1992 (99)!
Né, ancora, milita verso la chiarezza dei comportamenti pubblici la serie di corsivi comparsi sul quotidiano Avanti! alla fine di agosto sempre del 1992 (100) senza firma — e quindi da attribuire alla segreteria del PSI —, contenenti insinuazioni e sospetti sul dottor Antonio Di Pietro, fumosamente additato come frequentatore di taluni personaggi sui quali avrebbe indagato, e dai quali avrebbe ottenuto collaborazione; una polemica vuota, sgonfiatasi nel giro di pochi giorni per mancanza di contenuto, il cui unico obbiettivo, in assenza della precisazione di fatti concreti che lasciassero ipotizzare addebiti di qualsiasi tipo per il pubblico ministero milanese, era con tutta probabilità quello, peraltro non conseguito, di far saltare i nervi, provocando reazioni che invece non ci sono state. Resta il fatto che, anche da parte del ministro di Grazia e Giustizia, pur mancando — lo ripeto — dati oggettivi, è stato chiesto al dottor Antonio Di Pietro di difendersi da accuse che nessuno ha mai specificato (101): un tentativo di gettare ombra sul suo operato oggettivamente collocabile in una prospettiva di delegittimazione.
Infine, non aiuta quella collaborazione che dovrebbe essere la regola fra le istituzioni dello Stato la clamorosa levata di scudi che ha fatto seguito all’iniziativa della Procura della Repubblica presso la Pretura circondariale di Napoli, nell’ambito di indagini sul cosiddetto “voto di scambio”, di sottoporre a sequestro penale i floppy disk dei computer di politici eletti in Parlamento in quel collegio elettorale, a cominciare da quelli custoditi negli studi del ministro della Sanità, on. Francesco De Lorenzo, e del vicesegretario del PSI, on. Giulio Di Donato. Ancora una volta, il più deciso nella polemica con i pubblici ministeri di Napoli è stato il ministro di Grazia e Giustizia: “I magistrati — ha tuonato l’on. Claudio Martelli — hanno violato, con la Costituzione e le leggi, i loro doveri d’ufficio”, perché “[…] hanno conferito ai loro provvedimenti, nonostante il difetto dell’autorizzazione a procedere, gli effetti propri della perquisizione domiciliare” (102).
Ora, il 2° comma dell’articolo 68 della Costituzione subordina la perquisizione personale o domiciliare del parlamentare al rilascio dell’autorizzazione da parte della Camera di appartenenza, il che si traduce già di per sé in una totale immunità di fatto da qualsiasi tipo di perquisizione. infatti, cosa mai sarà trovato indosso o nei luoghi di pertinenza di un deputato e di un senatore una volta decorso il lungo tempo necessario perché l’autorizzazione venga data? Ma è anche vero che, fra gli atti che esigono la pronuncia della Camera di appartenenza non è compreso il sequestro, per eseguire il quale è comunque necessario l’accesso in un determinato luogo, sì che è quanto meno dubbio che vi sia stata quella vistosa violazione di cui ha parlato il ministro Claudio Martelli.
11. Legalità, moralità e responsabilità
Quella volontà politica fino a pochi mesi fa tragicamente assente, e della quale può intravvedersi qualche segnale nelle misure di legge e nei risultati operativi degli ultimi tempi, va dunque rafforzata con un riordino organico della legislazione penale e con condotte coerenti quanto a prassi amministrativa e a responsabilità individuale degli uomini politici. La corrispondenza a livello diffuso da parte dei consociati in termini di ricupero del senso di legalità è certamente una scelta dei singoli, ma è ampiamente condizionata dai “messaggi” provenienti a livello istituzionale: “Il recupero etico a livello personale e a livello sociale risultano tra loro strettamente connessi — ha osservato in proposito Giovanni Paolo II —. Le ingiustizie e i mali sociali, autentiche strutture di peccato o peccati sociali, […] derivano dall’accumulazione e concentrazione di molti peccati personali” (103).
È certo che i recenti successi conseguiti dalle forze dell’ordine, l’efficacia delle indagini sulle varie Tangentopoli e l’esempio offerto fino al sacrificio della vita da magistrati e da uomini delle forze dell’ordine hanno avuto riscontri estremamente positivi fra i più, alimentando quella fiducia nella capacità dello Stato, e in particolare, all’interno dello Stato, dell’apparato giudiziario, che, fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, sulla scia di polemiche e di oggettive incapacità, era stata fortemente incrinata. Una fiducia che fra i primi frutti apprezzabili ha prodotto sicuramente — in misura diversa a seconda dei luoghi — maggiore collaborazione per l’accertamento della verità; ciò vale con riferimento all’aiuto prestato da indagati e da testimoni non solo nelle varie inchieste “mani pulite”, ma anche nell’opera di contrasto, coordinato e coraggioso, che in alcuni centri — da Capo d’Orlando, in provincia di Messina, a San Vito dei Normanni, nel Brindisino — è stata realizzata nei confronti di associazioni mafiose impegnate nelle estorsioni.
Anche in questo caso è indispensabile distinguere fra zona e zona — le sacche di omertà persistono ovunque e non sono scomparse —, e fra i differenti modi di reagire agli altrui soprusi: infatti, un conto è che un imprenditore denunci pretese di tangenti, e quindi rischi in prima persona di perdere occasioni di lavoro, e magari di non essere creduto per la difficoltà di rintracciare riscontri certi, un conto è che, com’è accaduto, davanti alla televisione o scendendo per strada, ci si limiti ad applaudire al passaggio dell’arrestato di turno che viene condotto in carcere; nel secondo caso è improprio parlare di “reazione”, e non si sa fino a che punto si tratti di un atteggiamento moralmente lecito, soprattutto quando proviene da chi fino a un recente passato ha, anche nel piccolo, avallato per quanto di propria competenza prassi illegali (104).
La ripresa di credibilità è però oggi un dato difficilmente discutibile. Che tuttavia fa immediatamente sorgere una necessità: che non si tratti di un fuoco di paglia, com’è avvenuto altre volte; che, piuttosto, con tutte le precisazioni che vanno fatte, quest’atteggiamento si consolidi e si rafforzi nel corpo sociale. Perché ciò avvenga occorre non fermarsi a gioire del rumore delle manette, ma individuare la radice autentica di quella legalità, che a parole tutti sostengono di voler realizzare; e questa non può essere altro che la moralità: “Il rispetto della legalità è chiamato ad essere non un semplice atto formale, ma un gesto personale che trova nell’ordine morale la sua anima e la sua giustificazione” (105).
Moralità e legalità sono nozioni distinte: “[…] la prima, da concepirsi come libera accoglienza interiore ed esteriore di ogni giusta norma, a cominciare da quelle divine; la seconda, da intendersi come comportamento in linea con la normativa vigente, qualunque essa sia” (106); e, tuttavia, la differenza concettuale non cancella il legame esistente fra l’una e l’altra: “[…] le leggi devono corrispondere all’ordine morale, poiché, se il loro fondamento immediato è dato dall’autorità legittima che le emana, la loro giustificazione più profonda viene dalla stessa dignità della persona umana che storicamente si realizza e si esprime nella società, anzi dalla condizione creaturale dell’uomo, per cui vindice della sua dignità non è semplicemente lo stato, ma Dio stesso” (107).
Il discorso a questo punto si fa concretamente più complesso, perché esige impegno e responsabilità personale da parte di tutti, ma non per questo può essere eluso. Il radicamento della legalità non può partire, a livello diffuso, che dal ricupero e dal rispetto di una morale autentica, antropologicamente fondata; come è stato notato, “lo sfascio dello Stato, l’invasione della criminalità sia minuta che organizzata e la desacralizzazione del costume pubblico e privato sono due facce della stessa medaglia” (108). Il progetto “secolarizzante” (109) che, preparato culturalmente negli anni Cinquanta e Sessanta, ha manifestato i suoi effetti più dirompenti negli anni Settanta, ha colpito e dissipato quel patrimonio di moralità allora ancora presente in larghi strati della popolazione, senza offrire — anche perché era impossibile riuscirvi — alcuna valida alternativa; non deve sorprendere allora se “si è diffusa […] una cultura dell’illegalità che è l’esatto corrispondente a livello del diritto di quella cultura permissiva che ha trionfato in campo morale” (110).
Si è allentato il senso di responsabilità, non soltanto sotto il profilo della stretta osservanza della norma positiva; le spaventose condizioni dell’economia italiana, emerse nella loro cruda realtà soltanto all’indomani delle ultime elezioni politiche, dipendono certamente dall’invadenza statalistica e da un esagerato assistenzialismo, fonte di sperperi e di clientela, ma anche — forse in misura minore, ma certamente in concorso con il cattivo esempio dato a livello istituzionale —, da comportamenti a dir poco disinvolti a livello individuale, orientati più a spendere oltre le possibilità che a economizzare per il futuro.
In tale quadro si potrà parlare in termini propri di riaffermazione della legalità se questa sarà accompagnata dal rispetto personale e pubblico — e quindi anche legislativo — della morale oggettiva, nella consapevolezza della reciprocità del rapporto fra singoli e istituzioni, e senza attendere che altri facciano il primo passo: “C’è dunque — ammonisce il Sommo Pontefice — una responsabilità alla quale nessuno può sottrarsi, adducendo il pretesto che le strutture del peccato oltrepassano le forze dei singoli. Come esistono le “strutture di peccato”, ci possono e ci debbono essere le “strutture del bene”, della giustizia, della solidarietà, del rispetto reciproco, della pace, esse pure frutto e concentrazione di atti personali” (111).
Catturare i latitanti è importante; così com’è importante la funzionalità del processo penale e l’efficacia nella conduzione delle indagini. Ma ciò non basta, di per sé, a concludere che si è alla svolta, e che quanto appariva il tramonto della legalità è stato in realtà solo un’eclissi, prossima alla conclusione. La svolta sarà effettiva quando la legalità sarà stabilmente fondata — a tutti i livelli — sulla morale oggettiva, nella prospettiva del bene comune.
Alfredo Mantovano
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(67) Per una ricostruzione storica dell’istituto in questione, cfr. Dott. Pietro Fornace, Affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 ordinamento penitenziario), in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, n. 3, cit., pp. 42-51; il dottor Pietro Fornace è presidente del Tribunale di Sorveglianza di Torino.
(68) Cfr. Corte di Cassazione. Sezioni Unite Penali, Sentenza 26 aprile 1989, imp. Russo, in Il Foro Italiano, n. 7-8, luglio-agosto 1989, II, coll. 401-406.
(69) Cfr. Il Sole-24 Ore, 30-9-1992.
(70) Cfr. Antonio Di Pietro, Intervento al seminario Corruzione politica in Italia, organizzato dall’Arel, l’Agenzia di ricerche e legislazione, Roma 1-10-1990, in A corrotto che fugge…, dossier a cura di Pino Buongiorno, in Panorama, anno XXX, n. 1387, 15-11-1992, pp. 104-114.
(71) Cfr. Mauro Ronco, Il flagello della droga. Note su cause, effetti e rimedi, in Cristianità, anno XVI, n. 155, marzo 1988.
(72) Avvenire, 7-8-1992.
(73) Il brano è tratto da una conferenza tenuta dal magistrato a Mazzara del Vallo, in provincia di Trapani, nel 1990, ampi stralci della quale sono riportati in Corriere della Sera, 7-8-1992.
(74) Ibidem.
(75) Per valutazioni d’insieme sulla riforma della disciplina degli stupefacenti cfr. M. Ronco, “Il controllo penale degli stupefacenti”, intervista a mia cura, in Cristianità, anno XIX, n. 190, febbraio 1991.
(76) Si tratta di dati forniti — come quelli immediatamente seguenti — dal direttore del servizio centrale antidroga del ministero dell’Interno, Pietro Boggini: cfr. Avvenire, 13-11-1992.
(77) Ibidem.
(78) Cfr. Sandro Acciari, Lavora, è giovane, si buca, in L’Espresso, anno XXXVIII, n. 47, 22-11-1992, pp. 46-49.
(79) Avvenire, 25-11-1992.
(80) La Stampa, 2-7-1992.
(81) La Gazzetta del Mezzogiorno, 4-7-1992.
(82) Per i quali cfr. Giovanni Cantoni, Qualche domanda su “riforme”, “questione morale” e altro, in Cristianità, anno XX, n. 207-208, luglio-agosto 1992.
(83) Cfr. il mio La giustizia negata. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale, cit., pp. 122-127.
(84) Conferenza Episcopale Italiana. Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, Nota pastorale Educare alla legalità, del 4-10-1991, n. 9.
(85) G. Falcone in collaborazione con M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, cit., p. 143.
(86) Pietro Dubolino, Crisi della legalità: significato e responsabilità, in Magistratura Indipendente, anno III, numero 3-4, maggio-agosto 1991, p. 19.
(87) Ibid., p. 18.
(88) Ibidem.
(89) Ibidem.
(90) Ibidem.
(91) Ibid., p. 19.
(92) Ministero dell’Interno, Rapporto sullo stato degli uffici decentrati delle Amministrazioni statali e degli enti pubblici non territoriali, a cura dell’Ufficio di Gabinetto del Ministro, Roma 1992, p. 7.
(93) Ibid., p. 15.
(94) Ibid., p. 18.
(95) Ibid., p. 19.
(96) Ibidem.
(97) Ibidem.
(98) La trasmissione televisiva è Mixer, andata in onda su RAI 2 il 7-2-1992; il brano è stato riportato sui quotidiani del 6-2-1992.
(99) Per un interessante profilo professionale del dottor Agostino Cordova, cfr. Cordova, “Chi è costui?”, in MD notiziario di Magistratura Democratica, n. 1, 29-5-92, pp. 13-14. Stralci di una memoria presentata dallo stesso magistrato al CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura, in merito alle polemiche delle quali è stato al centro sono riportati in Liberazione. Giornale comunista, dal 9 al 16-10-1992.
(100) Cfr. Avanti!, 23/24, 25 e 26-8-1992.
(101) Cfr. ibid., 5-9-1992.
(102) Avvenire, 6-11-1992.
(103) Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti del mondo del lavoro nello stabilimento dei Cantieri Navali di Castellammare di Stabia, del 19-3-1992, n. 1, in L’Osservatore Romano, 20/21-3-1992.
(104) Cfr. in proposito le riflessioni dell’arcivescovo di Vercelli, S.E. mons. Tarcisio Bertone S.D.B, in Avvenire, 9-10-1992.
(105) Conferenza Episcopale Italiana. Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, Nota pastorale Educare alla legalità, cit., n. 2.
(106) Ibid., n. 10.
(107) Ibid., n. 2.
(108) Rocco Buttiglione, L’unità politica dei cattolici come risposta ad un pragmatismo sterile, in Avvenire, 15-3-1992.
(109) Cfr. Giovanni Paolo II, Annunciare il valore religioso della vita umana. Discorso “Sono lieto”, del 1°-3-1991, Cristianità, Piacenza 1991.
(110) R. Buttiglione, art. cit.
(111) Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti del mondo del lavoro nello stabilimento dei Cantieri Navali di Castellammare di Stabia, cit., n. 1.