Giovanni Cantoni, Cristianità n. 252-253 (1996)
Articolo anticipato, senza note e con il titolo redazionale 21 aprile ’96: un «super ’48», in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLV, n. 91, 18-4-1996, pp. 1 e 14.
21 aprile 1996: un «super ’48»
Continuo a rileggere frasi attribuite, il 2 aprile 1996 dalle agenzie di stampa, al segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Ennio Antonelli. Secondo il presule, in previsione della tornata elettorale del 21 aprile, la Chiesa, «il clero e le realtà che la rappresentano pubblicamente, non devono coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito» perché non siamo nel 1948, ribadendo che, «se fossero in gioco, come nel ‘48, la libertà dell’uomo e della stessa Chiesa, allora i vescovi dovrebbero dare indicazioni più dirette. Ma la situazione è diversa e la Chiesa rimane sui valori generali».
Leggo e rileggo perché qualcosa non mi convince, pur di fronte all’ovvietà e all’evidenza che «la situazione è diversa». Ma, di fronte a situazioni diverse, la ricchezza di chi deve prendere qualche decisione è costituita dalla somiglianza fra le situazioni, nota come analogia. Ebbene, alla luce delle somiglianze non mi convince proprio l’affermazione principale, cioè che non siamo nel ‘48. È proprio vero?
Dice mons. Ennio Antonelli che nel 1948, in Italia, erano in gioco la libertà dell’uomo e quella della stessa Chiesa, oggi no. Mi chiedo: che cosa metteva in gioco, allora, la libertà dell’uomo e della Chiesa stessa? L’esistenza dell’URSS nel mondo o quella dei comunisti in Italia? Oppure entrambe le presenze? Se la causa del pericolo era l’esistenza dell’URSS, è vero che oggi non esiste più, almeno formalmente e nonostante i tutt’altro che risibili propositi riedificatori.
Ma, allora, se vi era l’URSS, vi erano anche — ogni medaglia ha il suo rovescio — gli accordi di Yalta, e in pieno vigore, come provava la sorte dei comunisti greci nello stesso 1948, accordi forse ignoti o inapprezzati dagli anticomunisti, ma ben noti ai comunisti, che li sapevano ostacolo insuperabile per la conquista della titolarità del potere da parte loro. Oggi invece, dopo il crollo del Muro di Berlino, Yalta ha perso ogni senso. E a cosa servirebbe la copertura di Yalta dopo la scomparsa dell’URSS?
Quindi, oggi, i comunisti possono seriamente pensare di affiancare alla loro egemonia nei diversi settori sociali la titolarità del potere politico.
Perciò, vengo all’altra causa del pericolo, quella costituita dai comunisti, pardon, dai post-comunisti. Ebbene, se l’URSS è scomparsa, non sono scomparsi i comunisti, oggi — come ho detto — non più limitati da Yalta. «Ma senza il sostegno dell’URSS», dirà qualcuno. Certo, ma anche senza il deficit propagandistico rappresentato dall’URSS e dalle sue «opere» non propriamente edificanti.
Dunque, mutatis mutandis, cioè fatti gli aggiornamenti necessari — se ne voglia tener conto oppure no —, siamo nel 1948. Nel 1948 gli italiani non hanno preso una decisione di politica internazionale, dal momento che tutto era già stato deciso a Yalta, ma hanno impedito ai comunisti di conquistare elettoralmente la titolarità del potere in Italia. E oggi, se l’URSS è assente sull’orizzonte della politica internazionale, rimane il pericolo che i comunisti conquistino tale titolarità, e il rischio è tanto maggiore quanto maggiore è l’insensibilità in proposito.
Qualcuno griderà al sofisma. Mi chiederà se, nel 1996, ho ancora paura dei GULag, se non trovo anacronistico parlarne, e così via. Rispondo che, se allora i campi di concentramento erano presenti e attivi in molti luoghi del mondo, oggi sono ancora operativi nella Corea del Nord e in Vietnam, dal 1945; in Cina, dal 1949; a Cuba, dal 1959; nel Laos e in Cambogia, dal 1975. Ma erano lontani dall’Italia anche nel 1948. Invece i comunisti, in Italia, nel 1948, erano lontani dal potere, mentre oggi è verosimile immaginare — se ne parla con indifferenza — una compagine governativa in cui a esponenti comunisti vengano affidati, per esempio, il ministero della Pubblica Istruzione, quello di Grazia e Giustizia e quello dell’Interno.
Quindi, non siamo nel 1948: siamo in una situazione peggiore, perché il rischio è raddoppiato: se si potesse scherzare, direi che 48 più 48 fa 96, un «super ‘48».
«Ma non scherziamo», dirà di nuovo qualcuno: i comunisti non esistono più, ci sono i post-comunisti. Sì, non esistono più? Sarebbe una notizia interessante se potesse andare di pari passo con qualche altra informazione: per esempio, quando e dove sono morti? Non ho letto di ecatombi, e umanamente sono molto contento. Ma non ho neppure letto di conversioni: anzi, ricordo una tesi dell’on. Achille Occhetto — dettata evidentemente da «il sentimento e la ragione» (1) — secondo cui «solo un comunista autentico può rivoluzionare tutto» (2): «Lasciavamo così la vecchia riva del fiume ma non per approdare sulla sponda opposta. Non ci presentavamo come il figliol prodigo pentiti e sconvolti davanti alla porta del padre. Volevamo andare oltre» (3). E «andare oltre» non significa abbandonare la prospettiva di sempre, «senza valori assoluti», relativistica, che fino al 1989 si sposava alla dittatura del proletariato, ma «rivoluzionare tutto», praticare una metamorfosi che permette di diffondere alternativamente, con l’Unità, i Vangeli e Nove settimane e mezzo, cioè sposare il relativismo alla democrazia, inaugurando una «democrazia senza valori», il «totalitarismo subdolo» denunciato da Papa Giovanni Paolo II (4). Cioè, ancora, rovesciare la formula che meglio sintetizza il principio di sussidiarietà — e che meglio descrive anche il programma del Polo per le Libertà — «tanta libertà quanto possibile, tanto Stato quanto necessario» (5) in «tanto Stato quanto possibile, tanta libertà quanto necessaria», necessaria perché la vittima non muoia; e servirsi dello Stato per impedire non solo l’affermazione, ma anche la propaganda di valori forti, di valori assoluti. Quei valori assoluti che danno senso alla libertà dell’uomo e la cui predicazione costituisce la ragion d’essere della Chiesa, e dei quali le libertà individuali e sociali sono il presupposto.
Quindi, il problema è ancora la libertà, in gioco in una modalità più sottile del 1948, ma anche più radicale; perciò non basta «rimanere sui valori generali», ma servono «indicazioni più dirette» perché i valori generali nei fatti vengono dopo la libertà di predicarli e di praticarli. Si potrebbe parafrasare la formula di Charles Maurras Politique d’ abord! in Liberté d’ abord! Non «libertà soprattutto», ma libertà «prima di tutto», libertà — di nuovo — come condizione per proporre e per tentare di realizzare i valori generali, ricordando che, se la «morale della situazione» è da rifiutare, la morale, ogni morale, si realizza in una situazione.
Eccoci dunque davanti al quadro attuale, adeguatamente ed efficacemente descritto nella premessa del Programma del Polo per le Libertà: «[…] la potente coalizione di interessi economici, burocratici, politici e sindacali che si muove contro chi può contare solo sul voto e sul consenso». Era auspicabile, era giusto, «sarebbe stato bello» che il personale ecclesiastico fosse l’«intellettuale organico», per usare l’espressione gramsciana, cioè costituisse guida sicura di questo nuovo «proletariato» politico, che «può contare solo sul voto e sul consenso» come quello classico solo sulla proles, sui figli,. Ma questo personale è — per la gran parte — impegnato a «fare il profeta», cioè a parlare di equidistanza e a promuovere l’Ulivo: infatti, come ha scritto don Gianni Baget Bozzo «[…] il “partito intellettuale” dei chierici ecclesiastici e laici è impegnato per l’Ulivo» (6). Così i «nuovi poveri» politici dovranno orientarsi da soli al Polo per le Libertà. E per il personale ecclesiastico sarà per un’altra volta. Sperando che vi sia. E comunque, se un’altra volta vi sarà, tale personale ecclesiastico non se ne potrà certamente attribuire il merito, perché i valori divengono reali solo se si accompagnano ad adeguate condizioni di agibilità. Inoltre, per essere «antemarcia» bisogna aver marciato a tempo debito. E il «super ‘48» non tollera nicodemismi.
Note:
(1) Cfr. ACHILLE OCCHETTO, Il sentimento e la ragione. Un’intervista, a cura di Teresa Bartoli, Rizzoli, Milano 1994.
(2) Ibid., p. 6.
(3) Ibid., p. 9.
(4) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Centesimus annus nel centesimo della Rerum Novarum, del 1°-5-1991, n. 46; cfr. anche il mio La democrazia nell’enciclica «sociale» «Evangelium vitae», in Cristianità, anno XXIII, n. 241-242, maggio-giugno 1995, pp. 3-8.
(5) MONS. JOHANNES MESSNER, Etica social, política y económica, a la luz del Derecho natural, trad. spagnola, Rialp, Madrid-Mexico-Buenos Aires-Pamplona 1967, p. 338.
(6) DON GIANNI BAGET BOZZO, I cattolici fanno voto al Polo, in il Giornale, 16-4-1996.