Marco Invernizzi, Cristianità n. 420 (2023)
La vita
Joseph Ratzinger nasce a Marktl am Inn, nella bassa Baviera, vicino al confine austriaco, il 16 aprile 1927. Viene ordinato sacerdote nel 1951 e nel 1957 inizia a insegnare teologia fondamentale presso l’Università di Monaco di Baviera. Due anni dopo tiene una conferenza profetica su I nuovi pagani e la Chiesa (1), nella quale sostiene che i cattolici che frequentano le chiese della sua Baviera ogni domenica sono ancora tanti ma sono pagani, nel senso che non conoscono quello che professano.
Un nuovo paganesimo
È importante notare l’incipit del ragionamento di Ratzinger, che riconduce alla Riforma protestante l’inizio di quel processo di allontanamento degli europei dalla fede che nel suo tempo ha raggiunto ormai la maggioranza della popolazione; inoltre è bene osservare come il futuro Benedetto XVI scriva queste cose nel 1959, oltre sessant’anni fa.
«Secondo la statistica religiosa la vecchia Europa è sempre ancora una parte del mondo quasi completamente cristiana. Si può dire però che non c’è quasi un altro caso nel quale sia altrettanto evidente quanto la statistica inganni. Questa Europa che viene denominata cristiana è diventata da circa quattro secoli il luogo di nascita di un nuovo paganesimo, che cresce in modo inarrestabile nel cuore stesso della Chiesa minacciando di distruggerla dal di dentro. L’immagine della Chiesa moderna è caratterizzata essenzialmente dal fatto di essere diventata e di diventare sempre di più una Chiesa di pagani in modo completamente nuovo: non più, come una volta, Chiesa di pagani che sono diventati cristiani, ma piuttosto Chiesa di pagani, che chiamano ancora sé stessi cristiani ma che in realtà sono diventati da tempo dei pagani. Il paganesimo risiede oggi nella Chiesa stessa e proprio questa è la caratteristica della Chiesa dei nostri giorni come anche del nuovo paganesimo: si tratta di un paganesimo nella Chiesa e di una Chiesa nel cui cuore abita il paganesimo. Non si intende qui perciò parlare di quel paganesimo che si è ormai organizzato nell’ateismo dell’Est per diventare un consistente avversario della Chiesa e compare ora davanti alla comunità dei fedeli come una nuova forza anticristiana, anche se non si dovrebbe dimenticare che la sua particolarità consiste nell’essere un nuovo paganesimo, un paganesimo cioè che è nato nella Chiesa e ha preso in prestito da lei elementi essenziali che determinano in modo decisivo la sua immagine e la sua forza. È necessario piuttosto considerare il fenomeno più caratteristico del nostro tempo che costituisce la tentazione propria del cristiano, il paganesimo intraecclesiale stesso: “l’abominio della devastazione nel luogo santo” (Mc. 13,14)» (2).
Penso sia importante dare una spiegazione di questo aspetto del pensiero di Ratzinger, anche alla luce dei suoi interventi successivi. Ritengo che il futuro Benedetto XVI non intendesse sostenere che ogni cristianità debba essere composta solo da persone sante o comunque ferventi e che quindi la Chiesa debba tenersi lontana da ogni contaminazione con il potere politico secondo la logica «anti-costantiniana», che vede appunto nell’editto di Milano del 313 voluto dall’imperatore Flavio Valerio Aurelio Costantino I (274-337) l’inizio della rovina della Chiesa disincarnata, sostanzialmente disinteressata a vedere realizzati i princìpi della sua dottrina sociale. Questa tesi sarebbe in contraddizione con tutto quanto ha scritto Benedetto XVI sulle radici dell’Europa riprendendo e continuando il magistero di san Giovanni Paolo II (1978-2005) (3). Quanto da lui denunciato nel 1959 sembra, invece, la fotografia della realtà del tempo, cioè di come il messaggio cristiano non riuscisse più a raggiungere gli abitanti dei Paesi europei e, quindi, a fermare o rallentare il processo di secolarizzazione già in atto da quattro secoli e ormai molto diffuso alla fine degli anni 1950. Il secolarismo — cioè la secolarizzazione con intento scristianizzatore — era penetrato profondamente in Europa dopo la Rivoluzione francese, come scrive lo storico britannico Eric Hobsbawm (1917-2012): «La tendenza generale del periodo che va dal 1789 al 1848 fu dunque l’orientamento verso un’accentuata secolarizzazione» (4).
Quello che rappresentava allora una novità era la percezione di questa crisi del cattolicesimo, che molti — i cosiddetti «conservatori» — forse non avvertivano. Probabilmente, l’immagine del Ratzinger progressista nasce da questo equivoco, dal fatto cioè che egli, come altri, si ritenesse in dovere di cercare una strada per rendere più comprensibile la proposta di Cristo nei confronti di un uomo e di una donna profondamente cambiati dalla cultura ormai predominante. Qualcosa di simile era avvenuto con la «crisi modernista» di inizio Novecento, quando una risposta sbagliata, sostanzialmente eretica (5), come quella proposta dai cosiddetti «cattolici modernisti» di fronte alla difficoltà di penetrazione del messaggio cristiano nella classe intellettuale, aveva convinto una parte minoritaria della Chiesa che bastasse rinunciare alla lotta contro la Rivoluzione e contro l’eresia modernista perché la Chiesa tornasse a essere ascoltata e accolta. Per altri cattolici, quelli che si ritenevano anti-modernisti, il rifiuto della Chiesa da parte delle varie forze rivoluzionarie era la conferma che la Chiesa era sulla strada giusta e che avrebbe dovuto soltanto continuare a combattere e a farlo con sempre maggiore generosità e intelligenza. Ma era sufficiente la sola lotta? Oppure sarebbe stato meglio approfondire, comprendere sempre più ed esporre con un linguaggio più comprensibile la fede di sempre, andando a cercare con umiltà e pazienza chi aveva abbandonato la Chiesa e chi ancora non la conosceva? Possiamo dire che Ratzinger cercò sempre di rispondere a questa domanda nel secondo senso.
Il contributo al Concilio
Da questa constatazione nasce l’entusiasmo del giovane teologo per la convocazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), che gli appariva come occasione per la riproposizione della dottrina di sempre a un contemporaneo che l’aveva rifiutata o non la comprendeva più. In questo contesto si colloca un secondo episodio particolarmente significativo per comprendere il ruolo che Ratzinger ebbe nell’ambito del Concilio. Si tratta di una conferenza sui temi che l’assise avrebbe dovuto affrontare, che Ratzinger preparò su richiesta del card. Josef Frings (1887-1978), arcivescovo di Colonia, in Germania, e che quest’ultimo, diventato quasi cieco, fece leggere da un suo collaboratore a Genova in un incontro promosso dal card. Giuseppe Siri (1906-1989). Il testo della conferenza arrivò fino a Giovanni XXIII (1958-1963) e poco tempo dopo il card. Frings ricevette i complimenti del Santo Padre per il contenuto, che rispecchiava quanto pensava e avrebbe voluto proporre come tema del Concilio. Il cardinale di Colonia menzionò al Papa chi fosse l’autore della conferenza e così Ratzinger venne scelto dall’arcivescovo come suo consultore, potendo accedere ai lavori conciliari e diventarne un autorevole protagonista.
Nel leggere il testo dell’intervento si rimane sorpresi dalla sua attualità (6). Va sottolineato anche in questo caso che il testo viene redatto nel 1960, cioè oltre sessant’anni fa. In esso il futuro Benedetto XVI analizza il cambiamento avvenuto fra il Concilio Vaticano I (1869-1870) e i decenni successivi, nei quali la società europea si allontanerà ulteriormente dal cristianesimo, lasciandosi affascinare dalle ideologie moderne, in particolare dal liberalismo, dal marxismo e dal nazionalismo che prende il potere in Germania e in Italia. Le due guerre mondiali hanno ulteriormente devastato una umanità che sembrava già essere tornata al paganesimo, sebbene diverso da quello che precedette l’epoca cristiana: un paganesimo inebriato dalla fede nella tecnica e nella scienza, da cui nasceranno le ideologie dello scientismo e della tecnocrazia, oggetto costante delle analisi di Ratzinger.
Emerge così la principale preoccupazione del giovane teologo, che è primariamente pastorale, cioè rivolta ad affrontare il problema — che gli starà sempre a cuore — del distacco del popolo dalla fede e, di conseguenza, il dovere di cercare il modo per riportare Cristo al centro della vita degli uomini e della vita pubblica delle nazioni. Egli, infatti, capiva come il successo delle ideologie, in particolare della più radicale, il comunismo — peraltro entrato in profonda crisi nel 1989 —, consiste proprio nella promessa «[…] di adempiere all’ufficio della religione — cioè dare un senso alla vita — senza essere una religione» (7).Nella biografia scritta dal giornalista tedesco Peter Seewald vi è un capitolo su questo tema, nel quale viene sintetizzata una conferenza che Ratzinger tenne a Praga nel marzo del 1992, proprio per sostenere come il compito della Chiesa fosse quello di far comprendere agli uomini e alle donne che sono destinati alla vita eterna e, anzi, che questa comincia già sulla terra attraverso l’esperienza della vita cristiana vissuta all’interno della Sposa di Cristo: «Se appartenere alla Chiesa ha un senso, esso consiste semplicemente nel fatto che questa appartenenza ci dà la vita eterna e, quindi, la vita giusta e vera. Tutto il resto è secondario» (8).E questo è il modo migliore per denunciare la fallacia delle utopie politiche, perché esse promettono di dare un senso alla vita ma poi non possono mantenere la promessa perché si basano su un presupposto falso.
Il contributo di Ratzinger ai lavori conciliari diventerà ancora più intenso nell’imminenza dell’apertura dell’assise e anche nel corso della prima settimana di sessioni dell’assemblea, quella che vede il rifiuto da parte della maggioranza dei padri conciliari degli schemi di discussione predisposti dalla Curia romana, affinché il Concilio potesse approvare velocemente i documenti proposti da Roma e così chiudere i battenti in tempi rapidi, come auspicato dal Pontefice. Ratzinger è fra quanti si associano a questo rifiuto, perché negava ai presuli convenuti a Roma il diritto di intervenire concretamente nella stesura dei documenti. Ma non si trattò di un complotto: «Ratzinger ha sempre negato che si trattasse di un piano organizzato» (9), scrive Seewald, anche se indubbiamente l’intervento del card. Frings fu importante per cambiare completamente l’agenda dei lavori conciliari, favorendo l’avvio di un dibattito completamente libero. «No, il cardinale Frings non arrivò a Roma come un cospiratore che avesse una strategia ben precisa, dichiarò in un contributo del 1976 in onore del cardinale di Colonia» (10). Decenni dopo, nell’ultimo discorso al clero romano prima della rinuncia al pontificato, confermò questa tesi: «Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo», e aggiunse: «Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari» (11).
Il vero motivo del discusso intervento del cardinale tedesco all’inizio dei lavori conciliari fu in relazione al testo dello schema sulle «fonti della Rivelazione». Per una serie di motivi che Ratzinger spiega nella sua autobiografia, «si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest’ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede. E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico» (12).
Nominato nel novembre 1962 perito conciliare, Ratzinger parteciperà a tutte le sessioni del Vaticano II con un grande entusiasmo: «noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi» (13).
Durante i lavori conciliari, però, questo atteggiamento venne progressivamente meno: «Ogni volta che tornavo da Roma trovavo nella Chiesa e tra i teologi uno stato d’animo sempre più agitato. Sempre più cresceva l’impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio. Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso» (14). I teologi, secondo Ratzinger, si ritenevano le massime autorità nella Chiesa, rifiutando la sottomissione ai pastori e al Magistero (15).
Ratzinger si renderà conto che all’interno del Concilio operava una minoranza che non voleva tanto riportare la fede cristiana al centro della vita degli uomini, quanto più riteneva che la Chiesa dovesse cambiare radicalmente identità se voleva essere accolta dagli uomini del tempo e, così, in qualche modo, riproponevano lo stesso problema che aveva portato alla crisi modernista di inizio Novecento. Il punto è di grande importanza e meriterebbe un approfondimento. Ratzinger non è diventato conservatore un po’ alla volta, come superficialmente si crede, riprendendo più o meno consapevolmente l’opinione del teologo svizzero Hans Küng (1928-2021), suo collega e amico, che poi sceglierà la via della ribellione alla Chiesa. La descrizione esatta è quella, sintetica ma autentica, che lo stesso prefetto dell’ex sant’Uffizio darà al giornalista Vittorio Messori nel celebre libro-intervista Rapporto sulla fede: «il contrario di conservatore non è progressista, ma missionario» (16). Altrove dirà di non essere cambiato lui, ma gli altri, quelli con i quali era entrato in Concilio pieno di entusiasmo, ma che poi prenderanno un’altra strada. Ratzinger già alla fine degli anni 1950 capisce che la Chiesa non riesce più a convincere l’uomo contemporaneo, che bisogna riprendere il messaggio di Cristo nella sua originalità, liberandolo da tante incrostazioni inevitabilmente acquisite nel corso dei secoli. Ma questo non è un atteggiamento progressista, di chi vuole una Chiesa «nuova», espressione di un cristianesimo che si libera consapevolmente del passato, quasi che la Chiesa abbia sempre sbagliato dall’Editto di Milano (313) in poi, fino al Concilio di Trento (1545-1563). Non si ritiene dunque un conservatore perché conservatori gli appaiono quelli che a Roma non vogliono cambiare nulla e pensano di fare un Concilio semplicemente per ribadire le verità di sempre. Ma che bisogno ci sarebbe stato di promuovere un Concilio ecumenico, portando a Roma oltre duemila vescovi da ogni continente, semplicemente per ripetere delle verità già scontate?
In questo senso giova rileggere il discorso inaugurale del Concilio, pronunciato l’11 ottobre 1962 da san Giovanni XXIII, nel quale il Papa ricorda la santità della dottrina, che non va toccata, ma che necessita di essere aggiornata in modo tale da renderla comprensibile e adeguata alle mutate caratteristiche della recettività proprie dell’uomo contemporaneo (17). Rileggendo questo discorso con a fianco il testo di Ratzinger del 1960, si troveranno diversi passaggi uguali o simili, a conferma dell’influenza che il giovane sacerdote aveva esercitato sul Pontefice (18)
Una vicenda indicativa di questo mutamento in corso all’interno del Concilio e poi della vita ecclesiale sarà l’uscita di Ratzinger e di altri teologi, come il futuro cardinale francese Henri de Lubac S.J. (1896-1991) e lo svizzero don Hans Urs von Balthasar (1905-1988), dalla rivista Concilium, dove scriveva anche Küng, e la fondazione di una nuova rivista teologica, Communio, esplicitamente fedele alla Chiesa e al suo Magistero.
Il Sessantotto
Il 1968 è un anno di grande importanza per il mondo occidentale in generale, per i giovani in particolare, ma anche per il professor Joseph Ratzinger. Insegna all’università di Tubinga, dove si è trasferito in seguito al suggerimento di Küng, e patisce il clima segnato dalle rivolte studentesche, il meno adatto per chi deve studiare e insegnare. Si trasferisce così nella più tranquilla università di Bonn. Il Sessantotto, comunque, gli fa comprendere che qualcosa di importante e di epocale sta avvenendo nel mondo occidentale, cioè una rivoluzione radicale che colpisce gli uomini e non più soltanto le istituzioni, e cambia profondamente il modo di vivere e di pensare di una generazione. Ratzinger, nello stesso anno, pubblica il suo libro più letto e ristampato in assoluto, Introduzione al cristianesimo, nel quale commenta il Credo apostolico (19), la professione di fede che nello stesso anno san Paolo VI (1963-1978) rinnova solennemente in San Pietro.
Il suo iter accademico, tuttavia, sarà presto interrotto. Nel 1976 muore improvvisamente, a sessantadue anni, l’arcivescovo di Monaco di Baviera, il card. Julius Augustus Dopfner, e san Paolo VI chiama Ratzinger a prenderne il posto. Il professore non è contento ma accetta: verrà eletto arcivescovo e riceverà il cardinalato nel giro di un solo mese, fra il 28 maggio e il 27 giugno 1977. La sua vita non è destinata alla tranquillità.
L’anno successivo parteciperà ai due conclavi che gli cambieranno la vita, il primo, dal quale uscirà Papa il futuro beato Giovanni Paolo I (1978), e il secondo, dopo trentatré giorni soltanto, che elegge Papa il cardinale di Cracovia Karol Wojtyła (1920-2005). Siamo a dieci anni dal Sessantotto e i cattolici sono ormai lontani dall’entusiasmo successivo alla convocazione del Concilio. La Chiesa si trova alle prese con una crisi rispetto alla quale, dirà il filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973), la crisi modernista di inizio-secolo era paragonabile a un «raffreddore» (20). Ratzinger ha capito che vi è chi vuol ridurre la Chiesa — e la fede — a come il mondo la vorrebbe, ma anche che bisogna ritrovare un modo adatto per rimettere Cristo al centro della storia. In ciò è in straordinaria sintonia con il nuovo Pontefice venuto dall’est, del quale ha una grande stima, come peraltro del cardinale Albino Luciani (1912-1978), eletto Papa come beato Giovanni Paolo I, che conosceva, e di san Paolo VI, che lo aveva voluto alla guida della diocesi di Monaco di Baviera. Ratzinger e Wojtyła si conoscevano abbastanza bene e il nuovo Papa lo avrebbe voluto subito a Roma, come collaboratore in Curia. San Giovanni Paolo II ci prova una prima volta quando si libera la prefettura della Congregazione per gli Studi, ma Ratzinger risponde negativamente. Poi, nel 1981, ci riprova, chiedendogli di assumere la titolarità della Congregazione per la Dottrina della Fede. Allora Ratzinger pone come condizione di poter continuare a pubblicare libri scientifici e, dopo due mesi, il Papa concede di farlo; allora il suo trasferimento a Roma diventa una realtà.
Prefetto
Il 25 novembre 1981 san Giovanni Paolo II lo nomina prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nonché presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale. Il 15 febbraio 1982, quindi, rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Monaco di Baviera.
Negli Anni Sessanta la dottrina cattolica era entrata nell’occhio del ciclone perché considerata qualcosa di intellettualistico, di distaccato dalla vita. Nella critica a un cristianesimo allora molto formale, «moralistico», dove abitualmente si «andava a dottrina», che presentava il rischio concreto di concepire la fede come una ideologia da contrapporre alle altre, appunto nell’epoca delle ideologie, c’era probabilmente del vero. Ma, come spesso accade, la reazione allora fu devastante e, invece di correggere gli errori, si preferì, come si dice, «buttare via il bambino con l’acqua sporca del bagnetto». In questo clima culturale, che subiva particolarmente il fascino dell’esistenzialismo, Ratzinger viene sempre più identificato come il «pastore tedesco» della fede, il guardiano pronto alla repressione. Così lo dipinge Hans Küng, che, da amico e collega, si trasforma nel suo principale avversario e accusatore. Ratzinger non aveva proprio questo stile e dirà che non avrebbe mai accettato di diventare prefetto se la Congregazione avesse avuto soli compiti di condanna degli errori. La sua vita testimonierà che il suo obiettivo sarà sempre la promozione e la diffusione della fede in Gesù Cristo: certamente una fede ortodossa, purificata da errori e ambiguità.
La «teologia della liberazione»
Uno dei primi problemi che il Pontefice gli sottopone riguarda la diffusione della cosiddetta «teologia della liberazione» in America Latina. In questo senso le due Istruzioni prodotte in materia dalla Congregazione vanno lette insieme, la prima perché condanna l’uso del marxismo come strumento di analisi e di lotta per fare la rivoluzione nella società (21), la seconda perché analizza il concetto di libertà e di liberazione da un punto di vista della dottrina cristiana, mettendone in luce gli aspetti deviati nel pensiero delle ideologie moderne, ma evidenziando anche come la libertà sia un elemento costitutivo del modo in cui Dio ha creato la persona umana (22). In questo senso possiamo constatare come la Congregazione abbia sempre l’intenzione di salvare ciò che non è condannabile, in questo caso gli aspetti positivi delle diverse teologie nate in Europa e trapiantate in America Latina intese a «liberare» le classi umili di quei Paesi dalle ingiustizie, dal materialismo introdottovi dal marxismo e dalla violenza perché incompatibili con il messaggio cristiano.
È significativo notare come la prima Istruzione descriva l’esistenza di diverse teologie della liberazione — «[…] poiché l’espressione si applica a posizioni teologiche, e talvolta perfino ideologiche, non solo diverse, ma spesso anche incompatibili tra di loro» — e contemporaneamente condanni la teologia della liberazione che usa il marxismo. Questo atteggiamento, peraltro, non deve assolutamente portare a dimenticare il dovere per ogni cristiano di impegnarsi a favore dei poveri: «Questo richiamo non deve in alcun modo essere interpretato come una condanna di tutti coloro che vogliono rispondere con generosità e con autentico spirito evangelico alla “opzione preferenziale per i poveri”».
Dunque, esistono diverse teologie della liberazione, ma il primo documento si occupa soltanto di denunciare l’incompatibilità con il cristianesimo di quella o di quelle che adottano i princìpi e i metodi dell’analisi marxista, cui dedica il cap. VII dell’Istruzione. L’Istruzione non dimentica le condizioni di ingiustizia che favoriscono l’approccio ideologico e rivoluzionario della teologia della liberazione: «In certe regioni dell’America Latina l’accaparramento della maggior parte delle ricchezze ad opera di una oligarchia di proprietari priva di coscienza sociale, la quasi assenza o le carenze dello Stato di diritto, le dittature militari sprezzanti dei diritti elementari dell’uomo, la corruzione di certi dirigenti al potere, le pratiche selvagge di un certo capitale di origine straniera, costituiscono altrettanti fattori che alimentano un violento sentimento di rivolta in coloro che si considerano così le vittime impotenti di un nuovo colonialismo di ordine tecnologico, finanziario, monetario o economico». La Chiesa continua a privilegiare l’amore ai poveri sulla scia dell‘insegnamento di Cristo, ma non lo fa con il metodo della lotta di classe, cioè disprezzando i ricchi e vedendoli come «nemici di classe», cioè considerando l’odio di classe come motore della storia. L’Istruzione condanna tutte queste perversioni dell’«opzione preferenziale dei poveri» e ricorda che «la Chiesa dei poveri significa la preferenza, senza esclusivismi, data ai poveri intesi in tutte le forme della miseria umana, perché essi sono preferiti da Dio. L’espressione significa inoltre la presa di coscienza del nostro tempo delle esigenze della povertà evangelica, sia da parte della Chiesa come comunione e come istituzione, sia da parte dei suoi membri».
Due anni dopo, nel 1986, viene pubblicato il secondo documento, che afferma: «Tra i due documenti esiste un rapporto organico: essi devono essere letti l’uno alla luce dell’altro». Il tema al centro di questo secondo documento è la libertà, e quindi la liberazione che ne deriva. Tuttavia, il testo ricorda fin dall’inizio che non si può affrontare un discorso sulla libertà senza premettere, come presupposto fondamentale, la verità: «La verità, a cominciare dalla verità sulla redenzione, che sta al cuore del mistero della fede, è così la radice e la regola della libertà, il fondamento e la misura di ogni azione liberatrice».
L’Istruzione colloca il problema che vuole affrontare nel contesto storico della modernità, quel processo culturale che parte dal Rinascimento e dalla Riforma. Poi analizza gli errori delle ideologie, sia quella ispirata dall’individualismo sia quella che crede nel collettivismo, a proposito del tema della libertà. Un aspetto importante con il quale si scontra oggi qualsiasi riflessione sul tema della libertà consiste nella pretesa della cultura moderna secondo cui l’uomo dev’essere libero di fare qualsiasi cosa, limitato soltanto dalla libertà altrui. Ma, sostiene il documento della Congregazione, «la libertà non è libertà di fare qualsiasi cosa: è libertà per il bene, nel quale solo risiede la felicità. Il bene è, quindi, il suo scopo. Di conseguenza, l’uomo diventa libero nella misura in cui accede alla conoscenza del vero, e questa conoscenza — e non altre forze quali che siano — guida la sua volontà. La liberazione in vista della conoscenza della verità, che sola diriga la volontà, è condizione necessaria per una libertà degna di questo nome».
Il testo è veramente molto importante perché consente di superare tanti equivoci. Il primo è certamente l’idea di libertà oggi dominante, una libertà completamente slegata da ogni legame con la verità e con il bene. L’uomo ha una natura, creata da Dio, e soltanto il rispetto di questa natura, esercitato nella libertà, gli permette di perseguire la felicità, cioè di raggiungere il suo bene. Questo vale anche per la società, perché l’uomo è un essere sociale e soltanto attraverso le relazioni con gli altri uomini può perseguire i propri obiettivi. Quindi esiste una verità anche sulle relazioni sociali, fra cui quelle indicate dalla dottrina sociale della Chiesa. Queste ultime, ossia le istituzioni nelle quali si realizzano le persone — cioè la famiglia, i corpi intermedi e lo Stato —, devono dunque essere rispettose di quella condizione di libertà con cui Dio ha creato ogni uomo (23).
Ma la Chiesa insegna anche il dovere di guardare con gli occhi di Gesù a coloro che hanno un particolare bisogno di attenzione. È questa la logica delle Beatitudini, sulle quali si sofferma il documento, dopo avere analizzato il processo di liberazione del popolo di Israele svoltosi nell’Antico Testamento. In particolare, il testo invita all’amore di preferenza per i poveri, la prima delle Beatitudini, e al rispetto di tutto il piano di Dio racchiuso nell’insegnamento di Cristo nel discorso della Montagna: «A cominciare dalla prima, riguardante i poveri, le beatitudini formano un tutt’uno, che a sua volta non deve essere separato dall’insieme del discorso della montagna. In esso Gesù, che è il nuovo Mosè, commenta il Decalogo, la legge dell’alleanza, dandogli il suo senso definitivo e completo. Lette e interpretate nell’integrità del loro contesto, le beatitudini esprimono lo spirito del regno di Dio che viene. Ma, alla luce del destino definitivo della storia umana, in tal modo manifestato, appaiono nello stesso tempo, con più chiara evidenza, i fondamenti della giustizia nell’ordine temporale».
«Dominus Jesus»
Il magistero contenuto nelle due Istruzioni è veramente ricco: in particolare quello della seconda, dove una parte importante viene dedicata a illustrare i contenuti della dottrina sociale della Chiesa. I testi faranno scalpore e contribuiranno a scatenare contro Ratzinger e contro il Pontefice le ire di un mondo, ecclesiale e non, che subiva ancora l’illusione del marxismo come ideologia che avrebbe fatto la Rivoluzione per sanare i problemi dei poveri, in particolare quelli dell’America Latina.
Tuttavia, quel pericolo in quegli anni stava per esaurirsi e nel 1989, con la rimozione del Muro di Berlino, e poi nel 1991 con la fine dell’Unione Sovietica, il mondo cominciò a cambiare radicalmente aspetto.
La Chiesa si avvicinava al terzo millennio sotto la guida di Giovanni Paolo II, che investì tante energie e coltivò la speranza di una grande conversione di un mondo che stava per entrare in un nuovo millennio. Secondo Seewald, Ratzinger non si faceva illusioni su questa conversione, anche se sempre seguì con obbedienza totale le indicazioni del Papa.
Dall’evento del 1989, che segnerà la fine dell’epoca delle ideologie, non nascerà tuttavia un mondo convertito, come auspicava il Papa polacco, ma alle ideologie subentrerà quello che sarà detto «pensiero unico», un’unica ideologia — potremmo dire — segnata dall’assenza e dal rifiuto integrale della verità, in particolare dell’esistenza di Qualcuno o almeno di «qualcosa» che desse senso e ordine alla vita, sia nella prospettiva dell’eternità, sia nella dimensione temporale. A quella delle ideologie succederà infatti l’epoca della «dittatura del relativismo», come dirà il cardinale Ratzinger nell’omelia nella Messa pro eligendo pontifice, il 18 aprile 2005, prima di entrare nel conclave dal quale uscirà Papa. In questa prospettiva, il futuro Benedetto XVI conosceva le debolezze interne alla Chiesa, la confusione e le incertezze sulla fede presenti in molti vescovi, preti e fedeli.
Nascerà così l’idea di una dichiarazione di princìpi sulla fede, la Dominus Jesus (24). A Seewald il prefetto dirà che non sarà lui a scrivere il testo, proprio perché non voleva imporre la propria teologia privata in testi ufficiali, ma naturalmente contribuirà ampiamente alla stesura di un testo che avrà l’approvazione convinta di san Giovanni Paolo II. La Dichiarazione farà scalpore e subirà aspre critiche sia dal mondo protestante, sia all’interno della stessa Chiesa. In effetti, essa toccava un nervo ancora scoperto, anche se forse oggi molti non si rendono conto dell’importanza del tema sollevato, cioè quale sia la via ordinaria per la salvezza.
Scopo della Dichiarazione è ricordare quanto il Magistero ha affermato a proposito della unicità e universalità della salvezza attraverso Gesù Cristo senza voler approfondire i problemi teologici sul tema.
Essa parte dalla constatazione dell’esistenza de facto di un pluralismo religioso, che va rispettato e dal quale bisogna partire per annunciare la salvezza portata da Cristo, ma questo dato di fatto non deve portare al relativismo e alla confusione nel rapporto con le altre religioni: «Il linguaggio espositivo della Dichiarazione risponde alla sua finalità, che non è quella di trattare in modo organico la problematica relativa all’unicità e universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo e della Chiesa, né quella di proporre soluzioni alle questioni teologiche liberamente disputate, ma di riesporre la dottrina della fede cattolica al riguardo, indicando nello stesso tempo alcuni problemi fondamentali che rimangono aperti a ulteriori approfondimenti, e di confutare determinate posizioni erronee o ambigue. Per questo la Dichiarazione riprende la dottrina insegnata in precedenti documenti del Magistero, con l’intento di ribadire le verità, che fanno parte del patrimonio di fede della Chiesa» (25).
Ma quali sono gli ostatoli che hanno favorito e continuano a ostacolare l’accoglienza del mistero cristiano? Dominus Jesus li elenca con precisione: «Le radici di queste affermazioni sono da ricercarsi in alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l’intelligenza e l’accoglienza della verità rivelata. Se ne possono segnalare alcuni: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità della verità divina, nemmeno da parte della rivelazione cristiana; l’atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale che si pone tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza, diventa “incapace di sollevare lo sguardo verso l’alto per osare di raggiungere la verità dell’essere”; la difficoltà a comprendere e ad accogliere la presenza di eventi definitivi ed escatologici nella storia; lo svuotamento metafisico dell’evento dell’incarnazione storica del Logos eterno, ridotto a mero apparire di Dio nella storia; l’eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee derivate da differenti contesti filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica, né alla loro compatibilità con la verità cristiana; la tendenza, infine, a leggere e interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa» (26).
La Dichiarazione vorrà superare queste forme di sincretismo che, penetrate nel mondo cattolico, hanno compromesso la fede di molti. Fondamentale è dunque l’esatta comprensione di che cosa sia la fede: «La fede è innanzi tutto una adesione personale dell’uomo a Dio; al tempo stesso ed inseparabilmente, è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato». A questa definizione del Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 150), la Dominus Jesus aggiunge l’impegnativa affermazione della Dei Verbum, la Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Scrittura, a proposito della differenza fra i testi ispirati da Dio secondo la Chiesa e i testi di altre religioni, che certamente ancora aiutano molti uomini ad avere un rapporto con Dio: «Infatti la santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, essendo scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo (cf. Gv 20,31; 2 Tm 3,16; 2 Pt 1,19-21; 3,15-16), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» (27).
Un altro punto importante toccato dalla Dominus Jesus riguarda l’errore diffuso in molta teologia contemporanea secondo cui esiste un progetto salvifico di Dio che va oltre l’Incarnazione di Cristo: «l’azione dello Spirito non si pone al di fuori o accanto a quella di Cristo. Si tratta di una sola economia salvifica di Dio Uno e Trino, realizzata nel mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio, attuata con la cooperazione dello Spirito Santo ed estesa nella sua portata salvifica all’intera umanità e all’universo: “Gli uomini non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito” (Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, 5)» (28).
Se esiste un solo Salvatore, Gesù Cristo, una sola è la sua Sposa, la Chiesa. Anche su questo punto la Dichiarazione è molto precisa, spiegando l’espressione del Vaticano II «subsistit in», che ha sollevato dubbi, ricordando che essa «[…] volle armonizzare due affermazioni dottrinali: da un lato che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa Cattolica, e dall’altro lato “l’esistenza di numerosi elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine”, ovvero nelle Chiese e Comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa Cattolica» (29).
Tirando le conclusioni, la Dominus Jesus sostiene che la Chiesa è necessaria alla salvezza di ogni persona. Ma si pone immediatamente la domanda che ha angosciato tanti uomini nel corso della storia: chi non è formalmente nella Chiesa cattolica può salvarsi? «Per coloro i quali non sono formalmente e visibilmente membri della Chiesa — risponde la Dichiarazione — “la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo” (Redemptoris missio, 10)» (30).
Pertanto, «è chiaro che sarebbe contrario alla fede cattolica considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto a quelle costituite dalle altre religioni» (31), anche se questo non significa né disprezzare né sottovalutare il ruolo positivo che possono avere avuto e continua ad avere, anche come preparazione evangelica, nel portare gli uomini a Dio. La teologia sta studiando da tempo questo aspetto e ogni riflessione merita di essere aiutata.
Il testo conclude ricordando la natura missionaria della Chiesa e la necessità del dialogo proprio in questa prospettiva. Per evitare equivoci, ricorda come il dialogo missionario presuppone la parità riguardo alla dignità di chi lo compie, non per quanto concerne i contenuti.
Credo che la Dominus Jesus sia importante oggi ancora più di quando venne pubblicata. Nel 2000, infatti, il relativismo non era ancora diventato una dittatura, nel senso che si era ancora all’inizio del passaggio dall’epoca delle ideologie — la prima modernità —, con le loro caratteristiche di «pensiero forte», a quella del relativismo — la seconda o «tarda» modernità —, oggi diventato pensiero unico e imperante, penetrato quasi inconsciamente nel senso comune, tanto che parlare di verità forse non rappresenta neppure più uno scandalo, ma semplicemente una cosa considerata «fuori dal mondo» e, purtroppo, questa mentalità è presente anche in tanti cristiani. Difficilmente la maggioranza dei credenti praticanti percepisce il problema, cioè sente come la fede in Cristo sia la via di salvezza ordinaria prevista dal disegno di Dio e, conseguentemente, comprende che ogni battezzato ha il dovere di essere missionario. I pochi, invece, che percepiscono il problema, quei cattolici sensibili alla Tradizione come a uno dei fondamenti della fede, spesso faticano a comprendere che non basta che una verità sia oggettiva per essere percepita e accolta dal soggetto: proprio su questo punto si gioca il secondo aspetto della missionarietà, dopo quello della convinzione che Cristo sia l’unico Salvatore.
Infatti, Cristo non salva, se non viene accolto. Bisogna aiutare la verità rendendola attraente, come insegna la Chiesa, non imponendola con la forza e neppure con forme indebite di apostolato, quelle che il magistero di Papa Francesco considera proselitismo. Questo è il compito del battezzato e dei battezzati nelle loro diverse forme di appartenenza ecclesiale: portare il loro contributo all’azione missionaria della Chiesa, che a sua volta porta alla Salvezza esclusivamente per i meriti del sacrificio di Cristo, ma desidera avvalersi anche dell’infimo contributo di ciascun credente.
Il magistero del Papa
Peraltro, ciò che maggiormente dovrebbe rimanere nel comune sentire dei fedeli è l’importanza del magistero pontificio. Purtroppo, non è così: al magistero pontificio in generale, anche dall’interno stesso della Chiesa, si riserva scarsa attenzione. L’insegnamento dei Papi va anche oltre gli anni del loro pontificato ed è qualcosa di diverso e di ben più impegnativo per un cristiano anche delle più elevate riflessioni del più importante degli studiosi. Infatti, il magistero — secondo lo statuto e la materia delle pronunzie — ha l’assistenza dello Spirito Santo, promesso da Gesù a san Pietro. Secondo il Papa beato Pio IX (1846-1878), «[…] Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa» (32).
Il felice inizio del Pontificato di Benedetto XVI
Quando venne eletto a succedere a Giovanni Paolo II, il mondo dell’informazione e della politica internazionale avevano sostanzialmente un atteggiamento di attenzione benevola verso la Chiesa cattolica, complice anche la lunga malattia del Papa, vissuta così eroicamente in pubblico. Al suo funerale parteciperanno tutti i principali capi di Stato e di governo del mondo, con le eccezioni della Cina — ma non della Repubblica Cinese di Taiwan — e, in parte della Russia, dato che vi partecipò il primo ministro Mikhail Fradkov, ma non il presidente Vladimir Putin: entrambi i Paesi non trasmisero i funerali in diretta televisiva, come invece avvenne in quasi tutto il resto del mondo. Benedetto XVI beneficerà di questo momento favorevole nei primi anni del suo pontificato. La Chiesa cattolica era ormai sempre più evidentemente una Chiesa universale, non solo, ma mentre cresceva in Asia e Africa, diminuiva, nei numeri e nella rilevanza, in Europa.
Papa Ratzinger però non sarà accolto ovunque con entusiasmo. Peter Seewald racconta nella sua biografia del dileggio con cui la stampa tedesca, con poche eccezioni, accoglierà l’elezione del «Panzercardinale» e la stessa Chiesa tedesca manifesterà una evidente lontananza dal primo Papa tedesco dopo cinquecento anni: «Al ricevimento dei suoi compatrioti si erano radunati migliaia di credenti, ma solo due vescovi tedeschi, i cardinali Meisner e Wetter. Il segretario della Conferenza episcopale tedesca, Hans Langendörfer, non aveva ritenuto necessario saltare un incontro di routine dell’episcopato tedesco in occasione della prima elezione di un papa tedesco dopo cinquecento anni» (33).
Il pontificato comincerà comunque bene: i numeri erano molto confortanti, anche se probabilmente Benedetto XVI non era il tipo che guardasse tanto i numeri. La sua prima enciclica, Deus caritas est, sull’amore cristiano, raggiungerà il milione di copie vendute e nel primo anno di pontificato circa quattro milioni di persone parteciperanno a incontri con il nuovo Pontefice, più che con qualsiasi altro predecessore in periodi analoghi (34). La XX Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia, nell’agosto 2005, sarà un trionfo per Papa Benedetto, che non farà rimpiangere il suo predecessore, che con i giovani aveva un feeling particolare.
I primi incidenti: Ratisbona
Vi saranno presto alcuni incidenti di percorso, ma verranno riassorbiti. Il primo è certamente il discorso tenuto all’università di Ratisbona, durante il suo pellegrinaggio apostolico in alcune regioni della Germania. Si tratta certamente di un equivoco — anche se quando qualcosa è volutamente frainteso, è difficile da dimostrare —, che però scatenerà le proteste dei fedeli islamici perché il Papa aveva citato le parole di un imperatore bizantino, Manuele II Paleologo (1350-1425), secondo cui il profeta Maometto aveva sottomesso interi popoli con l’uso della forza (35). Benedetto XVI spiegherà poi ampiamente che si trattava di una citazione e non del pensiero del Papa e, pur tenuto conto che si sarebbe potuto verificare la veridicità o meno di quanto affermato dal Manuele II, il discorso del Papa riguardava soprattutto altro ed era rivolto particolarmente al mondo occidentale: il tema era il rapporto tra fede e ragione e la necessità che entrambe si purificassero a vicenda, evitando da una parte il fondamentalismo e dall’altra il razionalismo. In esso si criticava la «de-ellenizzazione», cioè quel processo che aveva distaccato la fede cristiana dalle radici filosofiche greche e che era penetrato nelle università del mondo cattolico, provocando gravi danni. Certo, anche l’islam avrebbe guadagnato dall’utilizzazione della ragione, ma questa verità, sottintesa al discorso del Pontefice, non giustificherà le reazioni violente che vi saranno. Non subito, ma soltanto alcuni giorni dopo il discorso, scoppieranno infatti violente proteste in molti Paesi islamici, milioni di fedeli scenderanno nelle piazze delle popolose città musulmane, verranno bruciate chiese e bandiere di Paesi occidentali: a Mogadiscio, in Somalia, una suora missionaria italiana, suor Leonella Sgorbati (1940-2006), perderà la vita durante una rivolta (36). Gli attacchi a Ratzinger si conclusero, tuttavia, in poco tempo: «un mese dopo Ratisbona, trentotto personalità musulmane di diverse nazioni e appartenenti a correnti di pensiero differenti segnalavano al papa in una lettera aperta le posizioni su cui concordavano con lui. […] Un anno dopo, c’erano già 138 firmatari da quarantatré paesi» (37).
«Summorum pontificum»
Con il motu proprio «Summorum pontificum» del 7 luglio 2007 il Papa liberalizzerà l’uso del rito romano antico secondo il Messale aggiornato nel 1962 da Papa san Giovanni XXIII. La Messa detta di san Pio V (1566-1572) tornerà a poter essere celebrata da qualsiasi sacerdote senza alcun permesso, né del vescovo locale, né della Santa Sede.
Il provvedimento susciterà diverse critiche, molte inespresse, da parte di chi temeva che la Chiesa volesse ritornare alla liturgia precedente alla riforma di san Paolo VI, così come alcune associazioni ebraiche esprimeranno il timore che tornasse la preghiera della liturgia del Venerdì Santo «per i giudei infedeli» presente nell’antica liturgia e già soppressa da san Giovanni XXIII nel 1959. Si trattava di critiche senza fondamento perché la Messa detta «antica» era classificata come forma straordinaria del rito della Messa, che affiancava, ma non sostituiva, quella celebrata con il Messale ordinario, dove la preghiera per gli ebrei venne personalmente modificata dal Papa (38). A ogni modo, il clima del pontificato continuava a essere positivo e i tre libri dedicati da Ratzinger a Gesù di Nazaret avranno grande successo. Il primo, uscito nell’aprile del 2007, venderà un milione e mezzo di copie in sei settimane, arrivando a tre milioni in totale e alla traduzione in trenta lingue, cosa incredibile per un testo certamente impegnativo come la vita del Signore proposta da un teologo. Dei tre volumi, dal 2007 a oggi, sono state diffuse oltre sette milioni di copie in 163 Paesi. Le traduzioni già realizzate, oppure ancora in corso di completamento, interessano 54 lingue (39).
Anche il 2008 fu un anno positivo, con il celebre discorso al Collège des Bernardins — un antico monastero cistercense ora proprietà della Sorbona — nel Quartiere Latino di Parigi, nel quale il Papa celebrerà la costruzione dell’Europa a opera del monachesimo, che, cercando Dio, aveva offerto agli uomini tanti motivi di progresso anche materiale (40). Nel 2008 vi sarà l’incidente dell’Università La Sapienza di Roma, il cui rettore ritirò l’invito al Papa a tenere una lectio magistralis, su pressione di alcuni docenti che lo consideravano un reazionario inascoltabile (41).
Per quattro anni il Papa godrà dunque di una sostanziale benevolenza — che non significa condivisione della dottrina che insegnava —, ma nel gennaio 2009 scoppierà il caso che «accanto a Vatileaks, viene generalmente considerato lo “scandalo” del pontificato di Benedetto» (42). Si trattava del «caso Williamson», dal nome del vescovo britannico Richard Nelson Williamson, che aveva parzialmente negato l’Olocausto ebraico durante una intervista alla rete televisiva svedese SVT. Il vescovo era uno dei quattro presuli membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata dall’arcivescovo francese mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), ai quali Papa Benedetto aveva ritirato la scomunica inflitta loro nel 1988 da san Giovanni Paolo II per avere ricevuto illegittimamente, senza autorizzazione pontificia, l’ordinazione episcopale, gesto con cui la Fraternità era divenuta di fatto scismatica. Come scrive Seewald, l’effetto della campagna contro il Pontefice sarà enorme e perdura ancora oggi, anche se «l’esatta ricostruzione degli eventi rende chiara l’attuazione di una campagna di disinformazione, che ricorda le caratteristiche dell’affare Dreyfus [la persecuzione di un ufficiale di origini ebraiche, incriminato di alto tradimento ma scagionato dopo anni] nella Francia del XIX secolo, ma fa anche luce sulla catastrofica gestione della crisi del Vaticano e sulla mancanza di sostegno da parte di vescovi e cardinali, che avevano lasciato il successore di Pietro in mezzo alla bufera» (43).
È difficile dire se sia stato questo lo scandalo principale che scatenò la rabbia del mondo contro Benedetto XVI, oppure quello relativo a presunti abusi sessuali da parte di sacerdoti e religiosi da lui coperti quando era vescovo, che Seewald narra con numeri e molti particolari in un capitolo della sua biografia (44).
Non vi è dubbio che Ratzinger, sia come prefetto della Congregazione, sia come Pontefice, sia stato il vero artefice del cambiamento di atteggiamento da parte della Chiesa nei confronti degli abusi di suoi membri, tracciando una linea pastorale che metteva al primo posto le vittime degli abusi, soprattutto se bambini, e imponeva di smettere di coprire gli scandali con la scusa della tutela del buon nome della Chiesa. Da questo punto di vista saranno emblematiche l’indagine e le ripetute condanne del fondatore della congregazione dei Legionari di Cristo, il messicano padre Marcial Maciel (1920-2008), fortemente voluta proprio da Ratzinger. Peter Seewald dedica un capitolo del suo libro a precisare quanto fatto dal Pontefice e, ancora prima, dal prefetto Ratzinger, a cominciare dalla celebre frase pronunciata al Colosseo durante l’ultima Via Crucis del pontificato di Giovanni Paolo II, nel Venerdì Santo del 2005: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!» (45).
Lo scandalo degli abusi
Dopo avere sottolineato l’importanza dello scandalo successivo al caso Williamson, anche Seewald nota come nel corso del 2009 «si scatenò uno tsumani che avrebbe scosso le fondamenta della Chiesa cattolica fino al pontificato di Papa Francesco. Alcuni parlavano della più grande crisi mai avvenuta nella storia della Chiesa. L’arcivescovo Ganswein parlò di un “11 settembre della nostra fede”, che traumatizzò la Chiesa cattolica in misura analoga agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Ma fondamentalmente nessun termine era sufficiente per definire l’entità dell’abuso, né l’enorme perdita di fiducia nella Chiesa che ne derivò» (46). Nello stesso capitolo, il biografo di Ratzinger racconta nei particolari la crisi della Chiesa irlandese, culminata nella Lettera del 19 marzo 2010 con la quale Benedetto XVI si rivolgerà direttamente ai cattolici d’Irlanda, traumatizzati dalla vastità dello scandalo, chiedendo perdono alle vittime e abbozzando una spiegazione che tenesse conto del deficit di formazione rilevabile nella preparazione dei candidati al sacerdozio nei seminari e nei noviziati. Dopo l’Irlanda sarà la volta della Germania, con il tentativo, non riuscito, di coinvolgere fra i colpevoli lo stesso Ratzinger quando era arcivescovo di Monaco di Baviera. Ormai l’attacco contro la Chiesa avrà come teatro tante diocesi in diverse parti del mondo. Le accuse partiranno da casi realmente accaduti, ma decenni prima, e nonostante venisse fatto notare — come dal professor Philip Jenkins, per esempio, ma anche da Christian Pfeiffer, dell’Istituto di Ricerca Criminologica della Bassa Sassonia — quanto fossero percentualmente assai limitati i casi di pedofilia attribuibili a membri del clero rispetto ad altri settori della società. Comunque, il «[…] bombardamento mediatico and[rà] avanti per molte settimane» (47) e si estenderà ad altre nazioni. Nonostante fosse chiaro per chi volesse informarsi che proprio Ratzinger era stato protagonista dell’assunzione di una posizione forte e senza tolleranze nei confronti del clero e dei religiosi macchiatisi di questo delitto, l’attacco contro il Papa sarà evidente e susciterà anche forme di solidarietà, certamente inusuali nella vita della Chiesa (48). Anche soltanto un caso di pedofilia sarebbe stato terribile in sé stesso e letale per la credibilità della Chiesa, ma era evidente che vi erano forze che stavano orchestrando una campagna volta a denigrare l’istituzione, mettendo in discussione il modello e il lavoro educativo di tutta la Chiesa.
Tuttavia, il Papa stava ancora bene e aveva le energie necessarie per svolgere il proprio ministero, come scrive il suo biografo, tanto che trovò misteriosamente le forze per concludere la trilogia sulla vita di Gesù, alla quale tanto teneva.
Ma vi saranno altri episodi che attireranno l’ira del mondo contro Papa Ratzinger, come il «caso del preservativo» scoppiato il 17 marzo 2009 durante il viaggio apostolico in Camerun e in Angola, durante la visita in Germania, a Berlino, dal 22 al 25 settembre 2011 e i relativi attacchi della stampa tedesca, scagliati nell’indifferenza della Chiesa locale. Il Papa tuttavia aveva retto, nonostante l’età avanzata. Vi saranno poi il «tradimento» del suo maggiordomo, Paolo Gabriele, la condanna e il perdono a quest’ultimo, che si rivelerà uomo non equilibrato, malato di megalomania e desideroso di protagonismo, al punto da riprodurre migliaia di documenti riservati della Santa Sede perché aveva accesso all’appartamento del Pontefice. Ma anche questo grave episodio, per quanto avesse messo in luce la debolezza dell’entourage papale, non riuscirà a scalfire più di tanto le forze di Ratzinger e la sua serenità di fondo.
L’ultimo passaggio
Come sosterrà ripetutamente, il motivo delle sue dimissioni del febbraio 2013 sarà soltanto l’impossibilità di sostenere lo sforzo necessario per rispondere alle esigenze di un ministero forte. Con ciò il Papa compì il gesto più straordinario del pontificato, lasciando il ministero dopo averlo comunicato ai cardinali presenti a Roma, lunedì 11 febbraio 2013. Egli «[…] aveva iniziato a maturare la sua decisione nella primavera del 2012, dopo il faticoso viaggio in Messico e a Cuba. Il dottore l’aveva avvertito che non sarebbe sopravvissuto a un altro volo oltreoceano. Finché avesse dovuto esercitare il suo mandato a Roma ciò non sarebbe stato un problema, ma come avrebbe potuto partecipare alla Giornata mondiale della gioventù a Rio nell’autunno del 2013?» (49).
«Ci sono momenti nella storia del mondo in cui il tempo si ferma. La Terra arresta il proprio corso. Ogni movimento si blocca. La notizia delle dimissioni del 265° successore di Pietro arrivò come un ladro nella notte, nel trambusto di una festa di Carnevale rumorosa, scatenando il panico, quasi si stesse compiendo un altro 11 settembre. Il papa era vivo. Ma non sedeva più sul trono di Pietro» (50). Benedetto XVI concludeva così il suo ministero petrino, esattamente alle ore 20 del 28 febbraio 2013. Cominciava una nuova epoca nella storia della Chiesa, con la figura di un Papa emerito che non c’era mai stata e che sarebbe durata ancora dieci anni, fino alla morte del più grande teologo che avesse mai occupato la sede di Pietro, il 31 dicembre 2022.
Con la sua morte comincia, o meglio continua, l’opera di analisi del suo pontificato e, per quanto mi riguarda, comincia soprattutto il tentativo, che spero non finisca mai, di studiare il suo insegnamento, di cercare di comprendere il suo sforzo eroico fino all’estremo delle forze, di portare Cristo nel cuore del mondo a lui contemporaneo perché gli uomini non perdano o ritrovino la fede e l’umanità possa così beneficiare dell’opera evangelizzatrice della Chiesa. Mi piace ricordare, infine, le parole conclusive di chi ha già da anni cominciato questo lavoro per mantenere viva la testimonianza del maggiore intellettuale del nostro tempo: «Il pontificato di Benedetto XVI potrà essere compreso solo nel lungo periodo. Ha avviato molti processi.
«[…] Il successo e il fallimento di un pontificato non si misurano nei tempi brevi, ma in quelli lunghi. Quello che conta è se le acquisizioni di quel pontificato e i processi da esso avviati trovano conferma nel tempo.
«[…] Successo o fallimento, dunque? Ora è il tempo dell’attesa paziente, oltre il “recinto” del Vaticano, oltre la crisi della Chiesa» (51).
Marco Invernizzi
Note:
1) Joseph Ratzinger, I nuovi pagani e la Chiesa, conferenza del 1959, tradotta e ripubblicata in Cristianità, anno XLV, n. 384, marzo-aprile 2017, pp. 29-40.
2) Ibid., pp. 29-30.
3) Cfr. Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, La vera Europa. Identità e missione, trad. it., introduzione di Papa Francesco, a cura di Pierluca Azzaro e Carlos Granados, Cantagalli, Siena 2021.
4) Eric J. Hobsbawm, L’età della Rivoluzione. 1789-1848, trad. it., Rizzoli, Milano 1999, p. 357.
5) Cfr. «[…] la sintesi di tutte le eresie», secondo Papa san Pio X (1903-1914), Lettera enciclica «Pascendi dominici gregis» sugli errori del modernismo», dell’8-9-1907.
6) J. Ratzinger, Il Concilio e il pensiero moderno, trad. it., in Idem, Opera omnia. L’insegnamento del Concilio Vaticano II, 16 voll. in 23 tomi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, vol. VII, t. 1, pp. 57-78.
7) Ibid., p. 71.
8) J. Ratzinger, La storia della vita eterna, in Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita, trad. it., Garzanti, Milano 2020, p. 648.
9) Ibid., p. 463.
10)Ibidem.
11) Benedetto XVI, Discorso ai parroci e al clero di Roma, del 14-2-2013.
12) J. Ratzinger, La mia vita. Ricordi (1927-1977), trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 89-90.
13) Benedetto XVI, Discorso ai parroci e al clero di Roma, cit.
14) J. Ratzinger, La mia vita. Ricordi (1927-1977), cit., p. 97.
15)Cfr. ibid., pp. 98-99.
16) «Il Concilio voleva segnare il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario. Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”» (Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1985, p. 9).
17) «Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale» (San Giovanni XXIII, Discorso nella solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, dell’11-10-1962).
18) «Ma perché tale dottrina raggiunga i molteplici campi dell’attività umana, che toccano le persone singole, le famiglie e la vita sociale, è necessario prima di tutto che la Chiesa non distolga mai gli occhi dal sacro patrimonio della verità ricevuto dagli antichi; ed insieme ha bisogno di guardare anche al presente, che ha comportato nuove situazioni e nuovi modi di vivere, ed ha aperto nuove vie all’apostolato cattolico» (ibidem).
19) Cfr. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, trad. it., Queriniana, Brescia 1969.
20) Cfr. Jacques Maritain, Il contadino della Garonna. Un vecchio laico s’interroga sul mondo presente, trad. it., a cura di Antonio Costa, Il Cerchio, Rimini 2009.
21) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su alcuni aspetti della «teologia della liberazione» «Libertatis nuntius», del 6-8-1984 (tutte le prossime citazioni senza altra indicazione sono tratte dal testo).
22) Idem, Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione «Libertatis conscientia», del 22-3-1986 (tutte le prossime citazioni senza altra indicazione sono tratte da questo testo).
23) Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013.
24) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione «Dominus Jesus» circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, del 6-8-2000.
25) Ibid., n. 3.
26) Ibid., n. 4.
27) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica «Dei Verbum», n. 11.
28) Dominus Jesus, n. 12.
29) Ibid., n. 16.
30) Ibid., n. 20.
31) Ibid., n. 21.
32) Beato Pio IX, Costituzione dogmatica «Pastor aeternus», del 18-7-1870.
33)P. Seewald, op. cit., p. 905.
34) Cfr. ibid., p. 930.
35) Cfr. Benedetto XVI, Discorso «Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni» in occasione dell’incontro con i Rappresentanti della Scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg [Ratisbona], del 12-9-2006,
36) Nata a Rezzonello di Gazzola (PC) nel 1940, missionaria della Consolata, è stata assassinata a Mogadiscio il 17 settembre 2006 con dei colpi di arma da fuoco sparati da terroristi mentre usciva dall’ospedale pediatrico dove insegnava alle future infermiere, nell’ambito delle proteste scoppiate dopo il discorso di Ratisbona. È stato riconosciuto il martirio e quindi beatificata a Piacenza il 26 maggio 2018.
37) P. Seewald, op. cit., p. 958.
38) Cfr. ibid., p. 983, nota 6.
39) Cfr. J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. La figura e il messaggio, in Opera omnia, cit., vol. VI, t.1, a cura di S.E. mons. Gerhard Ludwig Muller.
40) Cfr. Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura, Parigi, 12 settembre 2008.
41) Il testo della relazione, che si sarebbe dovuta tenere il 17 gennaio 2008, si trova sul sito <www.vatican.va> e contiene una riflessione sul tema della verità, che forse avrebbe aiutato a diventare migliori quei docenti che hanno rifiutato la presenza del Papa nel loro ateneo: «L’uomo vuole conoscere — vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto — chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa».
42) P. Seewald, op. cit., p. 1002.
43) Ibid., p. 1002.
44) Cfr. ibid., «Lo scandalo deli abusi», pp. 1042-1063.
45)Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, Via Crucis al Colosseo. Venerdì Santo 2005, Meditazioni e preghiere del cardinale Joseph Ratzinger, Nona stazione.
46) P. Seewald, op. cit., pp. 1046-1047.
47) Ibid., p. 1056. Sulle conseguenze provocate dallo scandalo degli abusi sessuali sui minori da parte di preti e religiosi esiste ormai una bibliografia immensa e anche molti interventi del Magistero: per un inquadramento cfr. M. Invernizzi, Il disagio nella Chiesa, in Cristianità, anno XLVII, n. 399, settembre-ottobre 2019, pp. 3-40.
48) Cfr. ibid., pp. 1054-1055.
49) Ibid., p. 1150.
50) Ibid., p. 1163.
51) Roberto Regoli, Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI, Lindau, Torino 2016, pp. 420-422.