Stante che il convegno del 17 gennaio a Milano “Difendere la famiglia per difendere la comunità” non ha a tema l’omosessualità e tanto meno “curare i gay”, non si capisce perché Giuliano Ferrara dalle colonne del Foglio continui in questa improvvisa e improvvisata campagna che, prendendo spunto dal convegno, è diretta contro l’associazione Obiettivo Chaire e contro le cosiddette terapie riparative.
Peraltro contribuendo a rafforzare quella confusione che è la melma ideale in cui sguazzano felici Repubblica e Corriere. Forse Ferrara dovrebbe meditare sul fatto che nella cronaca dei due maggiori giornali italiani la difesa dell’unicità della famiglia naturale è automaticamente considerata omofobica, un intollerabile atto di discriminazione. Cioè, prima ancora che il ddl Scalfarotto diventi legge, in Italia è di fatto già proibito affermare un valore che è peraltro scritto nella nostra Costituzione. Dovrebbe allora rendersi conto che la battaglia per la libertà, che tanto gli è cara, passa proprio dal sostegno al convegno del 17 gennaio.
Non solo, la battaglia per la libertà passa anche – e qui anche fra i partecipanti al convegno in molti hanno paura di dirlo apertamente – dalla difesa di Obiettivo Chaire e di coloro che praticano e scelgono la terapia riparativa, che non sono affatto dei violentatori della coscienza, come li dipinge Ferrara. È una brutta caricatura quella che dipinge Nicolosi e compagni come dei psichiatri un po’ pazzi a caccia di omosessuali da curare. L’Equipe Chaire, poi, da parte sua ha provato a spiegare (clicca qui) che non è coinvolta in cure ma in un accompagnamento, nell’accoglienza di persone che vivono un disagio identitario, nell’ottica di quel che richiede anche il catechismo della Chiesa cattolica. Ma evidentemente il pregiudizio è più forte.
Eppure ripetiamo: difendere queste realtà è una battaglia di libertà e un modo per trattare uomini e donne come persone e non come categorie. Per capirci, forse è bene riaffermare una distinzione che, nell’abbreviazione che tempi e spazi dei giornali richiedono, è ormai scomparsa dal linguaggio: quella fra persone con tendenze omosessuali e gay. Questi ultimi sono solo una minoranza militante che fa del proprio orientamento sessuale una bandiera e un progetto politico. Il mondo omosessuale invece è ben più ampio e solo in minima parte si riconosce in questa agenda.
Ma soprattutto ci sono tante persone con tendenze omosessuali che vivono con disagio la propria condizione. E ricorrono allo psicoterapeuta. Il movimento Lgbt, che si preoccupa più della difesa dell’ideologia che non del bene delle persone, vuole imporre come unica strada la terapia affermativa, ovvero convincere la persona con tendenze omosessuali che il disagio è frutto dell’interiorizzazione dell’omofobia esistente nella società. Ma non tutti si calano dentro questo schema, c’è chi andando alla radice del proprio disagio desidera “recuperare” l’eterosessualità. La terapia riparativa è dunque questa possibilità offerta a chi liberamente sceglie questo percorso.
Ecco perché difendere Nicolosi e compagni è difendere la libertà e perché difendere Obiettivo Chaire è un modo per garantire che le persone siano veramente accolte per quel che sono.
E per capire meglio questo passaggio mi sembra opportuno riproporre quanto sulla Nuova Bussola Quotidiana ha scritto poco tempo fa Luca Di Tolve, ex omosessuale oggi felicemente sposato con figli, presidente dell’Associazione Gruppo Lot e autore del libro “Ero gay”:
“In questi ultimi anni, in Italia, le terapie riparative (che trovano il riferimento principale nella scuola dello psicoterapeuta emerito Joseph Nicolosi) vengono spesso strumentalizzate, attribuendo loro un significato improprio. Se non si conosce l’origine, lo sviluppo e la storia di questo termine, ci si potrebbe immaginare una forzatura, forse una violenza psicologica verso le persone omosessuali additandole come “malate”.
Non è così. La definizione riparativa nacque nel 1983 quando la psicologa ricercatrice Elizabeth Moberly coniò il termine “spinta riparativa” per riferirsi alle pulsioni omosessuali maschili, interpretando il desiderio sessuale di un uomo verso altri uomini come il tentativo inconscio di compensare un mancato rapporto tra padre e figlio durante l’infanzia.
Queste terapie cosiddette riparative, sono in contrapposizione alle terapie affermative, che mirano a confermare l’omosessualità dei pazienti che vi si sottopongono, partendo dal postulato che “l’omosessualità è una variante naturale della sessualità”.
La contrapposizione che si è venuta a creare a proposito dell’atteggiamento del terapeuta – se cioè costui debba promuovere la posizione omosessuale oppure se, invece, debba spingere il paziente a “ripristinare” la scelta eterosessuale – mi sembra esprima una confusione relativa allo statuto del terapeuta. Questi non può essere considerato un guaritore o un demiurgo dotato di poteri in grado di forzare qualcosa che è dell’ordine dell’inconscio. Tutto ciò getta un’ombra manipolatoria sulla clinica.
Ciò che non viene ammesso è che una persona in cui l’omosessualità risulti “egodistonica”, ossia problematica per la propria esistenza, possa affidarsi a un terapeuta e intraprendere un percorso analitico quanto meno per chiarire la natura e la portata del proprio disagio. Ciò non significa affatto che il soggetto necessariamente debba (o voglia) “ritornare etero”. Tuttavia se questa possibilità viene condannata in modo aprioristico, rimane colpita la libera scelta dell’individuo, scelta consapevole e informata, di intraprendere la cura che ritiene per lui più adeguata.
Al di là delle polemiche e delle contrapposizioni, riteniamo che l’eventualità di un approfondimento sull’origine dell’orientamento delle proprie pulsioni sessuali debba essere tutt’altro che un’imposizione, una violenza o una costrizione. L’analista non ha la funzione di convincere, suggestionare o guarire. Né tanto meno indirizzare o forzare il paziente verso una direzione prestabilita. Sono già la sua storia, la vicenda soggettiva radicata nella sua famiglia, gli accadimenti incontrati nell’infanzia e nell’adolescenza, a inclinare verso una direzione, ma sarà il soggetto a decidere quali scelte intraprendere in un eventuale percorso terapeutico.
Riassumendo: la cosiddetta terapia riparativa, su cui si può discutere ampiamente, non è vietata. Del resto l’Ordine degli Psicologi non ha la funzione di verificare la scientificità degli indirizzi terapeutici. Verrebbe da aggiungere che la terapia riparativa di Nicolosi non è vietabile anche perché i suoi principi teorici e clinici si rifanno all’impianto di qualsiasi psicoterapia a orientamento psicodinamico. Se un individuo sceglie di rivolgersi a dei professionisti per un disagio, riteniamo che debba anche potersi prendere cura di sé nel modo che ritiene più opportuno, qualora ritenga di volerlo fare”.