Monsignor Walter Brandmüller, Cristianità n. 332 (2005)
Nel quarantesimo anniversario della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) viene proposto un testo dello storico dei Concili monsignor Walter Brandmüller, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, pubblicato con la gentile autorizzazione dell’autore, che lo ha allo scopo riveduto e tradotto consentendo l’eliminazione di quanto risentiva del parlato e l’annotazione delle citazioni dirette. Il testo, nato nel 1989 come conferenza, è poi stato pubblicato, ampliato e rielaborato, con lo stesso titolo: Das Konzil und die Konzile. Das 2. Vatikanum im Licht der Konziliengeschichte (in Joachim Piegsa M.S.F. [a cura di], Zweites Vatikanisches Konzil. Das bleibende Anliegen [Il Concilio Vaticano II. Una domanda aperta] [Eos Verlag, St. Ottilien 1991, pp. 21-44]).
“D’ora in avanti i concili sono superflui!”. Questa frase, attribuita al celebre storico tedesco del Diritto Canonico Paul Hinschius (1835-1898), corrispondeva all’opinione di non poche persone, dopo che il Concilio Vaticano I (1869-1870), il 18 luglio 1870, aveva proclamato i dogmi della suprema autorità pastorale e dell’infallibilità del Papa nel suo magistero.
Quanto però fosse infondata questa concezione è dimostrato, non da ultimo, dalla circostanza che il Codex Juris Canonicis, a cui si è messo mano dopo la conclusione del Concilio Vaticano II (1962-1965) e che rielaborava molto di quanto era stato preparato per il Concilio Vaticano I — che aveva dovuto essere interrotto a causa della guerra franco-prussiana (1870-1871) —, entrato in vigore nel 1918, contiene otto canoni che determinano la posizione giuridica del concilio ecumenico nella vita della Chiesa e ne regolano l’attuazione.
Questo non sorprende: infatti, da quando esiste la Chiesa di Gesù Cristo, in questa o in quella forma vi sono sempre stati concili. Che le cose sarebbero rimaste invariate anche dopo la definizione dei pieni poteri del Papa nel Concilio Vaticano I era apparso chiaro ai partecipanti così come oggi lo è per noi.
In questo modo si delinea molto naturalmente il nostro tema, in cui cercheremo d’illustrare, per quanto è possibile nello spazio di un breve testo, il Concilio Vaticano II mettendolo a confronto e in rapporto con i precedenti concili ecumenici.
I
Ma chiariamo anzitutto i concetti e chiediamoci che cosa sia un concilio generale o ecumenico.
Si può dirlo in poche parole concise, ma in questo modo non lo si rende comprensibile, quindi richiede una descrizione più ampia.
Il concilio è l’adunanza dei detentori dell’autorità pastorale e dottrinale della Chiesa allo scopo di esercitare collegialmente quest’autorità pastorale e dottrinale.
Se a questa assemblea sono invitati partecipanti della Chiesa universale nel suo complesso e se operano sotto la direzione del Papa o di suoi rappresentanti, allora quest’assemblea è chiamata concilio generale o ecumenico, laddove ecumenico, in questo caso, a differenza del nostro uso moderno di questo concetto, si riferisce alla provenienza dei partecipanti al concilio dall’ecumene, vale a dire dall’insieme del mondo abitato.
“Concilium episcoporum est” (1). Un concilio è cosa dei vescovi. Così afferma un principio che già il Concilio di Calcedonia, del 451, aveva formulato come indubitabilmente ovvio.
L’esercizio dell’autorità pastorale e dottrinale all’interno della Chiesa è indissolubilmente legato, anche se in modo differenziato, alla consacrazione. Ciò significa che a un processo decisionale collegiale di questa natura può partecipare iure proprio solo chi, sulla base di un diritto autonomo, avendo ricevuto la consacrazione episcopale e il conferimento canonico dell’autorità pastorale, è diventato membro del collegio dei vescovi. A partire dall’Alto Medioevo vengono invitati a questo scopo anche i superiori maggiori degli ordini religiosi, che non sono vescovi, ma sono detentori di una giurisdizione quasi episcopale sui loro Ordini. Questa consacrazione episcopale, mentre trasmette a chi la riceve la pienezza del sacramento, conferisce al tempo stesso all’anima del consacrato un’impronta indelebile, che lo rende nel suo essere persona conforme a Cristo come vero pastore, maestro e sacerdote. In questa configuratio cum Christo ontologico-soprannaturale ha il suo fondamento anche la partecipazione all’ufficio pastorale e dottrinale di Gesù Cristo.
Proprio in questa partecipazione fondata sul sacramento consiste, perciò, anche il vero fondamento della partecipazione e del concorso a pieno diritto al concilio.
Poiché un concilio è composto di partecipanti che intrattengono un legame sacramentale di questa natura con il Cristo, si addice anche a un concilio la promessa del Signore che ha detto ai suoi apostoli: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me” (Lc. 10, 16; cfr. Mt. 10, 40; Mc. 9, 37; Lc. 9, 48; e Gv. 13, 20).
Da qui deriva quindi l’autorità e il carattere vincolante e definitivo dei decreti conciliari, che rivendicano il diritto di definire la dottrina della Chiesa in materia di fede e di costumi. Già molto precocemente, al più tardi intorno al 400, si faceva quindi riferimento al capitolo degli Atti degli Apostoli, dove si parla dell’assemblea degli apostoli a Gerusalemme, il cosiddetto Concilio degli Apostoli. Le loro decisioni vengono però introdotte con la formula: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi” (At. 15, 28).
Corrisponde quindi alla più antica convinzione della Chiesa che un atto collegiale dei detentori dell’ufficio dottrinale e pastorale debba il suo carattere vincolante e la sua autorità al concorso dello Spirito Santo. Le dichiarazioni dottrinali definitive di un concilio sono perciò espressione dell’infallibilità dottrinale, cioè dell’impossibilità di errore da parte della Chiesa nelle questioni di dottrina, e per questo sono vincolanti per la coscienza dei credenti.
Vediamo dunque che un concilio, in base alla sua struttura, è lontano anni luce dall’essere un parlamento della Chiesa inteso in senso democratico, anche se certe affinità esteriori nel modo di procedere potrebbero suggerire qualcosa di diverso. Così, per esempio, in un concilio si vota, ma la dottrina non è assolutamente creata sulla base di una decisione della maggioranza. È contenuta, piuttosto, nel patrimonio di fede rivelato e tramandato dalla Chiesa e viene testimoniata dai vescovi come autentici testimoni della Tradizione sacra, ed eventualmente viene da loro definita rispetto all’errore in veste di giudici. In questo consiste il senso di un voto conciliare, che, come si è detto, è fondamentalmente diverso da una decisione democratica di maggioranza.
Va da sé che proprio in questo si fonda anche la differenza fondamentale fra un concilio o, il che è lo stesso, un sinodo della Chiesa Cattolica e quello che nell’ambito della Riforma è chiamato sinodo. Un sinodo luterano o riformato è di fatto un organo in cui si forma democraticaticamente un’opinione e s’individua una decisione. All’interno della Chiesa Cattolica e anche della Chiesa Ortodossa, invece, è completamente diverso.
Un concilio generale, detto anche sinodo generale, è piuttosto l’organo dell’esercizio collegiale dell’autorità pastorale e dottrinale della Chiesa tramite i membri del collegio episcopale riuniti sotto la direzione del Papa.
Di sinodo regionale o provinciale si parla se, allo stesso scopo, si riuniscono i vescovi di una regione o di una provincia ecclesiastica. Un sinodo di questo tipo o un simile concilio particolare o parziale esercita l’autorità pastorale e dottrinale ecclesiastica su quella determinata regione o provincia, i cui vescovi si sono riuniti. “Concilium episcoporum est”!
Questo significa anche che un sinodo diocesano solo in senso molto improprio può essere chiamato sinodo, in quanto in esso è presente e attivo un singolo vescovo dotato della sua personale e ordinaria autorità pastorale.
I vescovi ausiliari non hanno un’autorità pastorale autonoma, non possono quindi formare insieme con il vescovo locale un vero concilio, un sinodo. Anche se, come accade per esempio nella diocesi di Münster, in Germania, sono attivi cinque vescovi ausiliari.
Il solo che esercita l’autorità pastorale e dottrinale in un sinodo diocesano è il sommo pastore della diocesi. Lui solo si assume la responsabilità anche dei decreti, che emana dopo aver ascoltato i sinodali — ma in nessun caso su loro decisione. Questo per quanto concerne il chiarimento dei concetti.
Ora qualcuno potrebbe dire che è stata dipinta una sacra icona immersa in un mistico splendore dalla luce di molte piccole lampade a olio, ma che non è stato delineato un ritratto storico realistico dell’istituzione “concilio”. La Storia dei Concili — ci si potrebbe chiedere — non offre piuttosto una quantità d’informazioni su cose fin troppo umane, su lotte di potere, intrighi, vanità, addirittura manifestazioni di aggressività, e così via, nel corso dei concili? Non ha ragione chi una volta disse, riferendosi al Concilio Vaticano I, che questo concilio aveva attraversato tre fasi: primo, la fase degli uomini, secondo quella del diavolo e, infine, quella dello Spirito Santo? Indubbiamente vi è molto di vero in questo. E non è neppure sorprendente se non si trascura il fatto che la verità e la grazia divina nella Chiesa non sono mai “chimicamente pure”, ma si rendono visibili solo nelle vesti terrene dei pellegrini, che non di rado sono coperte di polvere e qui e là anche bucherellate.
Quest’esperienza però — percepibile solo nella fede — non pregiudica il fatto che un concilio generale, se merita questo nome e rivendica questo diritto, guida e ammaestra la Chiesa in nome di Cristo e del suo pieno potere.
II
Se ora ci chiediamo in quali e in quanti concili questo è accaduto, non solo dobbiamo fare un ulteriore passo nella trattazione del nostro tema, che cerca d’illustrare il Concilio Vaticano II nel contesto e sullo sfondo dei concili generali tenuti fino ad allora, ma solleviamo anche un problema centrale degli studi sui concili. Quando il Papa beato Giovanni XXIII (1958-1963) ha convocato il Concilio Vaticano II e l’ha numerato come 21° concilio generale, ha agito con la spensieratezza che gli era propria, senza aver interrogato prima a lungo lo storico della Chiesa, anche se lui stesso lo era.
Questi avrebbe dovuto dirgli che finora non esiste una numerazione storicamente accertata e neppure ufficiale a livello ecclesiastico dei concili generali, come aveva stabilito il teologo francese Yves Congar O.P. (1904-1995) già nel 1960.
La numerazione, a cui il Papa beato Giovanni XXIII ha semplicemente aggiunto il Concilio Vaticano II come 21° concilio generale, deriva soltanto da una commissione di esperti riuniti sotto la direzione del cardinale e futuro santo Roberto Bellarmino S.J. (1542-1621) nel 1595. Questo significa né più né meno che il numero dei concili generali è ancora oggetto di ricerca.
Con ciò vien detto contemporaneamente che anche il numero e i nomi dei concili, con cui ora ci siamo riproposti di confrontare il Concilio Vaticano II, non sono affatto certi.
Quindi, come si presenta il concilio degli anni 1962-1965 sullo sfondo dei suoi antecedenti?
Nel Concilio Vaticano II non troviamo, come per esempio a Trento, due vescovi che si strappano le barbe nel fervore della disputa. Non è neppure noto che un gruppo di francesi abbia gettato giù dalla tribuna i propri compagni di sinodo inglesi, com’è accaduto a Basilea.
E non si è ripetuto a Roma neppure ciò che è accaduto a Costantinopoli nel 786, quando i soldati dell’imperatore impedirono il primo tentativo di riunire il VII concilio generale, assalendo e separando con la violenza i Padri, tanto che alla fine il concilio dovette aver luogo a Nicea.
A parte gli scherzi: il Concilio Vaticano II si presenta sotto molteplici aspetti agli storici dei concili come il concilio dei superlativi. Cominciamo con l’affermazione che mai nella storia della Chiesa un concilio era stato preparato così intensamente come il Concilio Vaticano II. Certo, anche il concilio precedente è stato molto ben preparato, quando è iniziato l’8 dicembre 1869. Probabilmente la qualità teologica degli schemi preparati era addirittura ancora migliore di quella del concilio successivo. Tuttavia, non bisogna trascurare che il numero delle sollecitazioni e delle proposte inviate da tutto il mondo e il tipo di utilizzazione superarono tutto quanto vi era stato fino ad allora.
Il Concilio Vaticano II si è dimostrato in modo manifesto il concilio dei superlativi 1’11 ottobre 1962, quando l’enorme numero di 2440 vescovi fece il suo ingresso nella Basilica di San Pietro. Se ancora il Concilio Vaticano I, con i suoi 642 Padri circa, aveva trovato posto nel transetto destro di San Pietro, ora era stata presa come aula conciliare l’intera navata longitudinale. Nei cento anni intercorsi fra i due concili la Chiesa, come divenne evidente in modo impressionante in quest’occasione, non rivendicava più solo il ruolo di Chiesa universale ma la era diventata de facto.
Una circostanza che si rifletteva nel numero di 2440 Padri e dei loro paesi di provenienza. A ciò si aggiunge che, per la prima volta nella storia della Chiesa, un concilio ha espresso il suo voto con l’aiuto di tecniche elettroniche, e i problemi acustici, che avevano irritato i partecipanti al Concilio Vaticano I, ora non dovevano neppure essere menzionati.
Parliamo già di moderni mezzi di comunicazione: finora non si era mai verificato che, come accadde nel 1962, circa mille giornalisti di tutto il mondo fossero accreditati al concilio. Così il Concilio Vaticano II è stato anche il concilio più conosciuto di tutti i tempi, diventando un evento mediatico mondiale di altissimo livello.
Concilio dei superlativi, però, in modo molto particolare in rapporto ai suoi risultati. Delle 1135 pagine che comprendono l’edizione dei decreti di tutti i concili di solito considerati ecumenici, e sono circa venti, il Concilio Vaticano II da solo occupa 315 pagine, assai più di un quarto. Quindi il nostro concilio, nella serie degli altri concili generali, occupa senza dubbio una posizione speciale, già secondo criteri materiali, esteriori.
Ma vi sono anche altre particolarità di questo concilio che lo fanno spiccare sullo sfondo dei suoi antecedenti, per esempio in rapporto alle funzioni di un concilio generale. I concili sono supremi maestri, supremi legislatori, supremi giudici, sotto e con il Papa, a cui tutte queste funzioni naturalmente spettano anche senza concilio.
Non tutti i concili hanno esercitato ciascuna di queste funzioni.
Se, per esempio, il Concilio di Lione I, del 1245, con la scomunica e la deposizione dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen (1194-1250) si è comportato come un tribunale e inoltre ha emanato leggi, il Concilio Vaticano I non ha giudicato e non ha emanato leggi, ma ha deliberato esclusivamente su questioni di dottrina.
Il Concilio di Vienne, del 1311-1312, invece, ha sia giudicato che emanato leggi e deliberato su questioni di fede.
Lo stesso vale per i Concili di Costanza, del 1414-1418, e di Basilea-Ferrara-Firenze, del 1431-1439.
Il Concilio Vaticano II invece non ha giudicato e non ha emanato leggi e neppure ha deliberato in modo definitivo su questioni di fede.
Ha realizzato piuttosto un nuovo tipo di concilio, considerandosi un concilio pastorale, quindi spirituale, che voleva avvicinare la dottrina e le direttive del Vangelo in modo attraente perché facessero da guida al mondo di oggi. In particolare, non ha espresso alcuna condanna dottrinale. Il Papa beato Giovanni XXIII, nel discorso di apertura, ne aveva parlato espressamente: “Sempre la chiesa si è opposta […] [agli] errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità” (2). Oggigiorno, invece, “[…] la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia […]. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne” (3). Ora, come noi sappiamo quarant’anni dopo la sua conclusione, sarebbe stata una pagina gloriosa per il concilio se, seguendo le orme di Papa Pio XII (1939-1958), avesse trovato il coraggio di condannare espressamente e di nuovo il comunismo.
Invece il timore di pronunciare condanne dottrinali come pure definizioni dogmatiche ha fatto sì che, alla fine, le dichiarazioni conciliari erano molto diverse per grado di autorevolezza e, quindi, di carattere vincolante. Così, per esempio, le costituzioni Lumen gentium sulla Chiesa e Dei Verbum sulla Rivelazione divina possedevano il carattere e la natura vincolante di un autentico pronunciamento dottrinale — ma anche qui non è stato definito nulla in senso stretto e vincolante — mentre, d’altra parte, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, secondo il canonista tedesco monsignor Klaus Mörsdorf (1909-1989), prende posizione senza un contenuto normativo evidente.
I testi conciliari possiedono quindi un grado molto diverso di obbligatorietà. Anche questo era un elemento assolutamente nuovo nella storia dei concili.
Ma, per concludere, paragoniamo il Concilio Vaticano II con il Concilio Niceno I, del 325, e con i suoi due antecedenti, il Concilio di Trento (1545-1563) e il Concilio Vaticano I, in rapporto alle loro conseguenze.
Salta agli occhi che dopo i due Concili Vaticani si è arrivati a uno scisma. Nel 1871 i Vecchi Cattolici, per protesta contro le definizioni del primato e dell’infallibilità del Papa, si sono separati dalla Chiesa, e dopo il Concilio Vaticano II l’arcivescovo francese Marcel Lefèbvre (1905-1991), insieme a un seguito crescente di sostenitori diffusi fino al giorno d’oggi soprattutto in Francia e in America, ha imboccato una strada che dovrà portare a un definitivo scisma, a meno che non si verifichi una svolta.
Per quanto opposti appaiano i due movimenti, entrambi concordano nel loro “no” ai legittimi sviluppi nella dottrina e nella vita della Chiesa, che si fonda su un rapporto distorto con la storia. Se il movimento dei Vecchi Cattolici si è esaurito per mancanza di contenuto religioso e per il fatto che l’evoluzione della Chiesa dopo il 1871 ha fatto perdere terreno alla protesta, condannandosi così all’irrilevanza, il movimento di mons. Lefèbvre pone alla Chiesa di oggi il compito di dimostrare l’illegittimità della sua protesta. Dobbiamo sperare che vi si possa riuscire.
La speranza, anche in questo caso, deve scaturire dall’esperienza della storia. I concili hanno bisogno di un lungo respiro, il respiro della storia. Dopo il Concilio Niceno I, che ha difeso e definito la vera natura divina di Gesù Cristo contro l’eresiarca africano Ario (ca. 256-336), sono cominciate nuove lotte religiose che, negli anni successivi al concilio, crebbero in asprezza e in violenza, prima che alla fine s’imponesse il dogma niceno e calcedoniano, soprattutto grazie all’autorità dei Papi. Un processo che ha impegnato più di una generazione.
Si può fare un paragone anche con la fase postconciliare del Concilio di Trento che, dopo gli sfaceli della Riforma, ha avuto come conseguenza una straordinaria fioritura missionaria, religiosa e culturale di quella parte dell’Europa rimasta cattolica. Al teologo e storico della Chiesa tedesco monsignor Hubert Jedin (1900-1980) si attribuisce per questo fenomeno l’espressione “miracolo di Trento”. Ma sbaglieremmo, se ritenessimo che questa fioritura si sia prodotta all’improvviso!
Dopo che il concilio si era concluso nel 1564, passarono quasi cento anni prima che i suoi decreti dogmatici e di riforma si dimostrassero efficaci su larga scala!
Questo processo, però, si è avviato dappertutto dove e quando i vescovi hanno richiesto ai loro sacerdoti, insegnanti e funzionari il giuramento sulla professione di fede tridentina che Papa Pio IV (1559-1565) ha formulato e prescritto nel 1564, solo un anno dopo la conclusione del concilio.
In rapporto a quest’esperienza, anche dopo il Concilio Vaticano II era tempo che un’analoga professione di fede e di fedeltà fosse pronunciata e vissuta da tutti coloro che erano al servizio della Chiesa.
III
Ora vi sarebbero naturalmente ancora numerosi altri punti di vista, soprattutto di tipo contenutistico, teologico, alla luce dei quali si potrebbe operare un confronto fra il nostro concilio e altri concili. Ma in questo modo non si arriverebbe a una conclusione. In questo contesto, alla fine, emergerebbe solo il risultato che quasi ognuno dei concili conosciuti, e naturalmente anche il Concilio Vaticano II, per struttura, svolgimento e contenuto possiede la sua inconfondibile peculiarità, ma ha in comune con tutti gli altri il fatto che, sotto l’aspetto formale, in ogni concilio è stata esercitata collegialmente la suprema autorità dottrinale e pastorale. Dal punto di vista dei contenuti, tuttavia, si tratta della presentazione, dell’interpretazione e dell’applicazione, riferite alla situazione, della Tradizione sacra. A questa Tradizione ogni concilio dà il suo contributo specifico. Questo non può consistere, ovviamente, in un’aggiunta di nuovi contenuti al patrimonio di fede della Chiesa. E neppure in un’eliminazione delle dottrine di fede fino a quel momento tramandate. È piuttosto un processo di sviluppo, chiarimento e distinzione che si sta compiendo con l’assistenza dello Spirito Santo; un processo che fa sì che ogni concilio, con il suo definitivo pronunciamento dottrinale, s’inserisca come parte integrante nella Tradizione complessiva della Chiesa. Per questo i concili ogni volta guardano in avanti, in direzione del pronunciamento dottrinale più ampio, più chiaro, più attuale, mai però all’indietro. Un concilio non può mai contraddire i suoi antecedenti: può integrare, precisare, proseguire.
La situazione è diversa quando il concilio è organo legislativo. La legislazione può, anzi ogni volta deve, entro la cornice fornita dalla fede, inserirsi nelle concrete esigenze di una determinata situazione storica ed è quindi soggetta fondamentalmente al cambiamento.
Da queste osservazioni deve emergere con chiarezza quanto segue: tutto ciò vale anche per il Concilio Vaticano II. Anche questo concilio non è né più né meno che un concilio fra gli altri, accanto e dopo altri. Non è né al di sopra né al di fuori, ma è dentro la serie dei concili generali della Chiesa.
Che le cose stiano così, si ricava non da ultimo dalla concezione che sta alla base di quasi tutti i concili. È sufficiente citare le corrispondenti dichiarazioni e gli antichi Padri su tali questioni.
Essi scorgono nella Tradizione addirittura l’essenza dei concili.
Già san Vincenzo di Lerins, morto prima del 450, riflette espressamente su questo tema nel suo Commonitorio: “E difatti, quale scopo la Chiesa si sforzò sempre di ottenere con i decreti conciliari, se non che si credesse con maggiore consapevolezza quello che prima si credeva con semplicità; che si predicasse con maggiore insistenza quello che prima si predicava con minore impegno; che si venerasse con maggiore sollecitudine quello che prima si onorava in tranquilla quiete?
“Questo e niente altro ha sempre fatto la Chiesa con i decreti dei concili, provocata dalle innovazioni degli eretici: trasmettere ai posteri in documenti scritti quello che aveva ricevuto dai nostri padri mediante la sola tradizione; riassumere in brevi formule una gran quantità di nozioni e, più sovente, al fine di illuminare l’intelligenza, specificare in termini nuovi e appropriati una dottrina non nuova” (4).
Questa convinzione genuinamente cattolica si riflette nella definizione del Concilio Niceno II, del 787, che ha questa formulazione: “In tal modo, procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi padri e la tradizione della chiesa cattolica — riconosciamo, infatti, che lo Spirito santo abita in essa —, noi definiamo con ogni rigore e cura che…” (5), e poi seguono le proposizioni essenziali del decreto conciliare. Particolarmente importante è anche l’ultima delle quattro condanne: “Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, scritta o non scritta, sia anatema” (6).
Alla fine anche il Concilio Vaticano II mostra di riconoscere la sua collocazione nel solco della Tradizione. La quantità di richiami alla Tradizione nei testi del Concilio Vaticano II è davvero impressionante. Il concilio accoglie molto diffusamente la Tradizione citando i concili, in particolare il Fiorentino, il Tridentino e il Vaticano I, le encicliche di numerosi Papi, la profusione della letteratura patristica e i grandi teologi, primo fra tutti san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), come fonti alle quali attinge.
Quindi, tenendo un concilio, la Chiesa realizza la sua essenza più peculiare. La Chiesa — e perciò il concilio — tramanda perché vive e vive perché tramanda. La Tradizione è il pieno e autentico adempimento della sua essenza.
IV
In queste dichiarazioni sono già contenute affermazioni essenziali in rapporto all’interpretazione di ogni concilio, anche del Concilio Vaticano II.
Nel 1988 il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, di fronte ai vescovi cileni , ha pronunciato, a proposito di questo problema, le seguenti frasi intrinsecamente coerenti con quanto si è detto sopra: “Senza dubbio esiste un atteggiamento di strette vedute che isola il Vaticano II e che ha provocato l’opposizione. Molte esposizioni danno l’impressione che, dal Vaticano II, tutto sia cambiato e che non abbia valore quel che l’ha preceduto, o, nel migliore dei casi, lo possa avere solo nella luce del Vaticano II.
“Il Secondo Concilio Vaticano non viene trattato come parte della totalità della Tradizione viva della Chiesa, ma come il fine della Tradizione e come un ricominciare interamente da zero. La verità è che lo stesso Concilio non ha definito nessun dogma e ha voluto in modo cosciente esprimersi ad un livello più modesto, meramente come Concilio pastorale; certo, molti lo interpretano come se fosse quasi il superdogma che toglie importanza a tutto il resto.
“Questa impressione si rafforza specialmente a causa di fatti che capitano correntemente. Quello che prima era considerato il più santo — la forma trasmessa attraverso la liturgia — di colpo appare come il più proibito e l’unico che con sicurezza va respinto. Non si tollera la critica alle scelte del tempo post-conciliare; però, dove sono in gioco le antiche regole, o le grandi verità della fede — per esempio la verginità corporale di Maria, la resurrezione corporale di Gesù, l’immortalità dell’anima, eccetera — non si reagisce per nulla oppure lo si fa con estrema moderazione. Io stesso ho potuto vedere, quand’ero professore, come lo stesso vescovo, che prima del Concilio aveva cacciato un professore irreprensibile per il suo parlare un po’ rustico, non fu in grado di allontanare, dopo il Concilio, un docente che negava apertamente alcune verità fondamentali della fede.
“Tutto questo spinge molta gente a domandarsi se la Chiesa di oggi è realmente quella di ieri, o se l’hanno cambiata con un’altra senza avvisarli. L’unica maniera per rendere credibile il Vaticano II è presentarlo chiaramente com’è: una parte dell’intera e unica Tradizione della Chiesa e della sua fede” (7).
Queste le affermazioni del cardinale Ratzinger.
Non si può che concordare, se i decreti del Concilio Vaticano II non vengono interpretati in modo isolato ma alla luce della Tradizione complessiva. Questo, spesso, non è stato così scontato come avrebbe dovuto essere.
Infatti, negli anni postconciliari era di moda paragonare la Chiesa a un cantiere, in cui si facevano demolizioni e nuove costruzioni o ricostruzioni. Molto spesso, nelle prediche, l’ordine di Dio ad Abramo nella Genesi “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen. 12, 1) era interpretato come un’esortazione alla Chiesa ad abbandonare il suo passato e la sua Tradizione. Si parlava con entusiasmo di partenza della nave di Pietro e del suo viaggio verso nuove sponde. Si predicava la partenza in direzione dell’ignoto, del lontano, del nuovo — e la parola “tradizione” era diventata un insulto. Al contrario, bisogna ribadire con forza che un’interpretazione del Concilio Vaticano II in contraddizione con la Tradizione contrasterebbe con l’essenza della fede, della Chiesa e del concilio cattolici. La Tradizione, non lo spirito del tempo, è l’elemento costitutivo dell’orizzonte interpretativo.
Certo non può mancare lo sguardo sull’oggi. Sono i problemi di oggi che richiedono risposte. Ma gli elementi di cui si compone questa risposta non possono provenire da nessun’altra parte se non dalla Rivelazione divina, data una volta per tutte, che la Chiesa ci tramanda nella sua purezza attraverso i secoli. Questa Tradizione rappresenta anche il criterio a cui ogni nuova risposta deve attenersi, se dev’essere vera e valida.
Su questo sfondo anche la distinzione così apprezzata fra “preconciliare” e “postconciliare” si dimostra assai dubbia sia sul piano teologico che storico. Un concilio non è mai un punto d’arrivo, o un punto di partenza, su cui possa essere scandita la storia della Chiesa o addirittura la storia della salvezza. Un concilio è un anello di una catena la cui fine nessuno conosce al di fuori del Signore della Chiesa e della storia. Non può mai introdurre una frattura, ma deve restare nella continuità dell’azione dello Spirito.
V
Continuità ha anche qualcosa a che fare con prosecuzione. Ci sarà un Vaticano III? Non sorprende che alcuni abbiano avanzato addirittura una richiesta di questo tipo — ed è stata avanzata dalle forze più divergenti.
Se gli uni ritengono che ora dovrebbe riunirsi un nuovo concilio, che finalmente abbatta le barriere nel mondo di oggi, realizzi la democratizzazione della Chiesa, consenta l’accesso ai sacramenti a quanti, dopo un matrimonio fallito, hanno contratto una nuova unione, apra la strada al sacerdozio femminile e al matrimonio dei sacerdoti, e porti alla riunificazione dei cristiani divisi, gli altri pensano che la confusione e la crisi dell’irrequieto periodo postconciliare avrebbero bisogno urgentemente di un Concilio Vaticano III che metta ordine e faccia da guida.
Una cosa è certa: anche questo Concilio Vaticano III, Nairobense I o addirittura Moscovitano I, si collocherebbe nel solco della Tradizione, sarebbe solo un altro elemento di questa venerabile serie.
Il Concilio Vaticano II non è stato, in ogni caso, né l’inizio né la conclusione della storia conciliare e, tuttora, abbiamo davanti il compito di realizzarlo, prima di parlare di futuro.
Monsignor Walter Brandmüller
Note:
(1) Acta Conciliorum Oecumenicorum, a cura di Eduard Schwartz (1858-1940), tomo II, Concilium universale Chalcedonense, volumen primum, pars prima, Walter de Gruyter, Berlino-Lipsia 1933, p. 78, 6-7.
(2) Giovanni XXIII, Discorso all’apertura del concilio “Gaudet mater Ecclesiae”, dell’11-10-1962, in Enchiridion Vaticanum. Documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), testo ufficiale e versione italiana, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1993, pp. 32-55 (p. 47).
(3) Ibidem.
(4) San Vincenzo di Lerino, Il Commonitorio, cap. 23, a cura di don Cesare Colafemmina, Edizioni Paoline, Alba (Cuneo) 1968, pp. 140-141.
(5) Concilio Niceno II, del 787, Definizione, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, ed. bilingue, a cura di Giuseppe Alberigo, don Giuseppe L. Dossetti (1913-1996), Perikles-P. Joannou, Claudio Leonardi e Paolo Prodi, con la consulenza di don H. Jedin, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1991, pp. 133-137 (p. 135).
(6) Idem, Anatema IV, ibid., p. 138.
(7) Card. Joseph Ratzinger, Il caso non è chiuso, discorso a Santiago del Cile, del 13-7-1988, trad. it., in Il Sabato. Fatti e commenti della settimana, anno XI, n. 31, Milano 30-7-1988, pp. 14-15 (p. 15).