Giovanni Cantoni, Cristianità n. 360 (2011)
Intervento presentato al Seminario Internacional de Investigación de Filosofia del Derecho y Etica dal titolo Dios como fundamento de la moral y del derecho, organizzato nella propria sede dall’Universidade Federal do Rio Grande. Faculdade de Direito, in Brasile, dall’8 al 10-9-2010.
Le mie considerazioni riguardano un manifesto “revisionista” della storia di una stagione dell’Iberoamerica, il tempo della cosiddetta Indipendenza. Si tratta di Génesis de la independencia hispanoamericana, del 1946, opera del sociologo, storico e letterato nicaraguense Julio César Ycaza Tiberino (1919-2001) (1). Sono aperte da un consistente prologo sul Magistero della Chiesa Cattolica per relazione alla storia e alla storiografia, inteso a descrivere e a offrire un giudizio significativo emesso da questa fonte appunto, in genere, sullo stato della storia e della storiografia della e nella modernità. Quindi, grazie alle categorie fornite da tale giudizio, segue un’illustrazione sommaria della storiografia dell’Iberoamerica e della sua “revisione” a partire dagli anni 1920. Finalmente espongo, nelle sue grandi linee, il manifesto stesso come espressione ante litteram del modello culturale proposto negli anni 1990 dal filosofo argentino Alberto Caturelli con il nome di “quinto viaggio di Colombo” (2); faccio poi stato del carattere congiunturale e non ideologico dell’Indipendenza dell’Iberoamerica; quindi tratto brevemente del problema dinastico e di quello costituito dal regime monarchico; infine accenno alla permanente, necessaria lotta contro la “pigrizia congenita” (p. 21) culturale, per cui l’attualità sostanziale del manifesto stesso non mi pare esser venuta per nulla meno.
1. Prologo sul Magistero della Chiesa Cattolica per relazione alla storia e alla storiografia
Il quadro di fondo delle mie considerazioni è di carattere piuttosto storiografico che storico — a meno di non evocare specificamente la piccola, anche se tutt’altro che marginale, “storia di servizio” costituita dalla storia della storiografia — ed è definito cronologicamente da una tesi di Papa Leone XIII (1878-1903), di cui si celebra nel 2010 il duecentesimo anniversario della nascita, tesi esposta in un documento tanto importante quanto trascurato, la Lettera “Saepenumero considerantes” (3), del 18 agosto 1883.
In essa il Pontefice, mentre indica sant’Agostino d’Ippona (354-430) “come maestro e guida” (4) della filosofia della storia, traccia i caratteri dell’apologetica appunto storica, nata originariamente — secondo la sua autorevole ricostruzione — come opera di contrasto a quella svolta da un gruppo di studiosi protestanti, autori di un testo i cui primi tre volumi in folio vengono pubblicati nel 1559 a Basilea, nella Confederazione Elvetica, con il titolo Ecclesiastica Historia integram Ecclesiae Christi ideam secundum singulas centurias perspicuo ordine complectens (usque ad sec. XII) per aliquot studiosos et pios viros in Urbe Magdeburgica. Il gruppo di studiosi cui il Papa fa riferimento, noto come “i Centuriatori di Magdeburgo” (5) per il modo in cui dividono la loro opera, cioè per centurie, per cento anni, dunque per secoli, e per il luogo — la principale città della regione tedesca della Sassonia — dove, per la maggior parte, essa venne composta, è guidato da Mattia Flacio ed è considerata la prima storia universale della Chiesa dai tempi di Eusebio di Cesarea di Palestina (265 ca.-339 ca.).
Mattia Flacio Illirico — in latino Matthias Flacius Illyricus, in croato Matija Vlačić, nato ad Albona, in Istria, nel 1520, e morto a Francoforte, in Germania, nel 1575 —, teologo luterano dissidente, fu professore di lingua ebraica e greca a Wittenberg, pure in Sassonia, poi professore di Nuovo Testamento all’università di Jena, in Turingia, dai moderni storici apprezzato per la sua attenzione alle caratteristiche del testo e per il suo rispetto per esso ai fini della sua comprensione, cioè — insomma — per la sua acribia filologica. Nel 1556, sempre a Basilea, aveva dato alle stampe un Catalogus testium veritatis qui ante nostram ætatem Pontifici Romano eiusque erroribus reclamarunt, poi edita in versione ampliata a Strasburgo nel 1562, raccogliendo testi di tutti coloro che, nel corso della storia, avevano “protestato” contro “l’Anticristo papale”. A lui si oppone — fra gli “studiosi che nessuno ha superato” (6) — lo storico, religioso e cardinale italiano Cesare Baronio (1538-1607), degli oratoriani di san Filippo Neri (1515-1595), il cui nome è legato alla redazione dei primi volumi degli Annales ecclesiastici, una storia della Chiesa dalle origini al 1198, e alla revisione del Martirologio Romano (1586-1589) (7).
“Questo genere di persecuzione — così il Pontefice chiama questa sorta di Kulturkampf ante litteram e di settore, del quale mi astengo, perché troppo evidente, di segnalare l’attualità e, con essa, la sua diffusione globale — fu praticato prima degli altri, tre secoli fa, dai Centuriatori di Magdeburgo; costoro, non essendo riusciti, come autori e promotori di nuove tesi, ad espugnare le difese della dottrina cattolica, costrinsero la Chiesa alle dispute storiche, come in un nuovo combattimento. Quasi tutte le scuole che si erano ribellate all’antica dottrina seguirono l’esempio dei Centuriatori, e a tale indirizzo si conformarono — il che è di gran lunga più miserevole — alcuni di religione cattolica e di nazionalità italiana.
“Con lo scopo che abbiamo precedentemente indicato, furono analizzati anche i più piccoli elementi del passato: i recessi degli archivi quasi controllati uno per uno; tirate fuori storie senza fondamento; invenzioni cento volte confutate e cento volte ripetute. I lineamenti principali della storia furono rimossi od interpretati astutamente in modo riduttivo; con la reticenza furono facilmente accantonati eventi gloriosi e giustamente memorabili, mentre gli animi si volgevano aspramente a sottolineare e ad esagerare un eventuale gesto imprudente o meno che corretto; per guardarsi da tutte le azioni di questo genere chiunque avrebbe più difficoltà di quanto la natura degli uomini sia in grado di reggere. È risultato addirittura lecito scrutare, con sfacciata acutezza, i riposti segreti della vita familiare, per carpire e diffondere quelli che sembravano più facilmente motivo di spettacolo e ludibrio per la moltitudine, sempre pronta alla denigrazione” (8).
“A queste macchinazioni anche oggi si è dato fiato, tanto che, se non nel passato, di sicuro adesso si può asserire fondatamente che la scienza storica sembra essere una congiura degli uomini contro la verità. Infatti, rinnovate di fronte a tutti quelle precedenti false accuse, vediamo che la menzogna si snoda audacemente fra i ponderosi volumi e negli agili libri, fra i fogli volanti dei giornali e nei seducenti apparati dei teatri. Troppi vogliono che il ricordo stesso degli avvenimenti passati sia complice delle loro offese” (9).
“Ancora più grave è che questa abitudine di trattare la storia ha invaso persino le scuole. Troppo spesso infatti ai bambini vengono presentati libri di testo intrisi di falsità; una volta assuefatti ad esse, soprattutto con l’aiuto della malvagità o della superficialità dei docenti, gli scolari facilmente s’imbevono di fastidio per il venerando passato e d’indecoroso disprezzo per quanto c’è di più sacro: cose e persone. Superate le prime classi scolastiche, facilmente corrono rischi anche maggiori. Infatti, nell’insegnamento superiore si procede dalla narrazione degli eventi alle cause dei fatti; dopo le cause, la costruzione di leggi si basa su valutazioni arbitrariamente elaborate, molto spesso apertamente in disaccordo con la dottrina rivelata da Dio, con l’unica motivazione di dissimulare e nascondere come e quanto le istituzioni cristiane abbiano potuto beneficamente agire nel corso delle vicende umane e nel susseguirsi degli avvenimenti. Questo trova spazio tra i tanti che non si preoccupano di essere incoerenti, di avanzare affermazioni contraddittorie, di avvolgere in tenebre sempre più fitte quella che viene chiamata “filosofia della storia”. Insomma, per non soffermarci sui singoli episodi, essi rigirano ogni motivazione delle vicende storiche in modo da rendere oggetto di sospetto la Chiesa, invisi i Pontefici, e, soprattutto, da persuadere la gente che il potere temporale dei Pontefici romani danneggia l’integrità e la grandezza della nazione italiana” (10).
Per dire il meno, il seme gettato dai Centuriatori non ha assolutamente cessato di produrre frutti avvelenati, negli anni non “geneticamente modificati”, dannosi non soltanto per la religione cristiana, ma per la stessa identità dell’uomo, e non solo in campo genericamente propagandistico ma anche in quello specificamente pedagogico.
Di tali frutti ha parlato Papa Benedetto XVI in un importante discorso tenuto il 7 marzo 2008, nella Sala dei Papi, ai membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche (11). “Come voi ben sapete — ha detto il regnante Pontefice —, fu Leone XIII che, di fronte a una storiografia orientata dallo spirito del suo tempo e ostile alla Chiesa, pronunciò la nota frase: “Non abbiamo paura della pubblicità dei documenti” e rese accessibile alla ricerca l’archivio della Santa Sede. Al contempo, creò quella commissione di Cardinali per la promozione degli studi storici, che voi, professoresse e professori, potete considerare come antenata del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, di cui siete membri. Leone XIII era convinto del fatto che lo studio e la descrizione della storia autentica della Chiesa non potessero che rivelarsi favorevoli ad essa” (12).
Confermato da una parte il quadro descritto da Papa Leone XIII, per altro verso Papa Benedetto XVI ne segnala una rilevante modificazione, sulla cui base integra il quadro stesso: “Da allora il contesto culturale ha vissuto un profondo cambiamento. Non si tratta più solo di affrontare una storiografia ostile al cristianesimo e alla Chiesa. Oggi è la storiografia stessa ad attraversare una crisi più seria, dovendo lottare per la propria esistenza in una società plasmata dal positivismo e dal materialismo. Entrambe queste ideologie hanno condotto a uno sfrenato entusiasmo per il progresso che, animato da spettacolari scoperte e successi tecnici, malgrado le disastrose esperienze del secolo scorso, determina la concezione della vita di ampi settori della società. Il passato appare, così, solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse. A ciò è legata ancora l’utopia di un paradiso sulla terra, a dispetto del fatto che tale utopia si sia dimostrata fallace.
“Tipico di questa mentalità — prosegue Papa Benedetto XVI — è il disinteresse per la storia, che si traduce nell’emarginazione delle scienze storiche. Dove sono attive queste forze ideologiche, la ricerca storica e l’insegnamento della storia all’università e nelle scuole di ogni livello e grado vengono trascurati. Ciò produce una società che, dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza, non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica.
“Il pericolo cresce — insiste il Sommo Pontefice — in misura sempre maggiore a causa dell’eccessiva enfasi data alla storia contemporanea, soprattutto quando le ricerche in questo settore sono condizionate da una metodologia ispirata al positivismo e alla sociologia. Vengono ignorati, altresì, importanti ambiti della realtà storica, perfino intere epoche. Ad esempio, in molti piani di studio l’insegnamento della storia inizia solamente a partire dagli eventi della Rivoluzione Francese. Prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del proprio passato e quindi priva di memoria storica. Non è chi non veda la gravità di una simile conseguenza: come la perdita della memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo fenomeno si verifica per la società nel suo complesso” (13).
Papa Benedetto XVI passa quindi a ribadire le conseguenze non solo sociologiche, ma soprattutto antropologiche di questo deficit storiografico: “È evidente come tale oblío storico comporti un pericolo per l’integrità della natura umana in tutte le sue dimensioni. La Chiesa, chiamata da Dio Creatore ad adempiere al dovere di difendere l’uomo e la sua umanità, ha a cuore una cultura storica autentica, un effettivo progresso delle scienze storiche. La ricerca storica ad alto livello rientra infatti anche in senso più stretto nello specifico interesse della Chiesa. Pur quando non riguarda la storia propriamente ecclesiastica, l’analisi storica concorre comunque alla descrizione di quello spazio vitale in cui la Chiesa ha svolto e svolge la sua missione attraverso i secoli. Indubbiamente la vita e l’azione ecclesiali sono sempre state determinate, facilitate o rese più difficili dai diversi contesti storici. La Chiesa non è di questo mondo ma vive in esso e per esso” (14).
Quindi il Pontefice regnante osserva la storia nell’ottica non solo della filosofia di tale storia, ma anche della sua teologia e delle scelte pastorali che ne possono derivare e, di fatto, ne derivano: “Se ora prendiamo in considerazione la storia ecclesiastica dal punto di vista teologico, rileviamo un altro aspetto importante. Suo compito essenziale si rivela infatti la complessa missione di indagare e chiarire quel processo di ricezione e di trasmissione, di paralépsis e di parádosis, attraverso il quale si è sostanziata, nel corso dei secoli, la ragione d’essere della Chiesa. È indubbio infatti che la Chiesa possa trarre ispirazione nelle sue scelte attingendo al suo plurisecolare tesoro di esperienze e di memorie” (15).
Prima di proseguire, e di passaggio, mi piace segnalare una “coincidenza” di pensiero e di giudizio — non sono assolutamente in grado di considerare il fatto una “dipendenza” culturale — fra le tesi di Papa Benedetto XVI, secondo cui “[…] una società […] dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza […] non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica” e “Prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del proprio passato e quindi priva di memoria storica. Non è chi non veda la gravità di una simile conseguenza: come la perdita della memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo fenomeno si verifica per la società nel suo complesso”, e quella esposta dal grande scrittore e storico svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970), che, a sua volta, si ricollega a una filière, che ricostruisce: “Il nostro grande storico svizzero Jean de Müller [Johannes von Müller zu Sylvelden (1752-1809), naturalizzato tedesco e nobilitato da Leopoldo II d’Asburgo-Lorena (1747-1792), imperatore del Sacro Romano Impero e re d’Italia dal 1790 al 1792] diceva: “Considero la storia come un deposito di esperienze ad uso della politica”” (16). E commenta: “L’oblio, il disprezzo della storia, bisognerebbe considerarlo come uno dei più gravi fenomeni di degenerescenza e di barbarie. Infatti, il fenomeno sarebbe equivalente per la società a ciò che rappresenta la perdita della memoria per l’individuo. Ma, se l’uomo perde la memoria, prenderà come guida soltanto i suoi istinti” (17). Quindi espungere o declassare la storia significa espungere o declassare l’esperienza, e l’espunzione dell’esperienza attraverso l’oblio della storia, che, pure secondo il pensatore e uomo politico savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821) “[…] è la politica sperimentale” (18), danneggia la società — perciò anche la società cristiana, cioè la Cristianità — in campo politico; e un danno corrispondente patisce la Chiesa in campo pastorale — la pastorale è, per rapporto alla Chiesa, la “politica”, la gouvernance, la “pratica gestionale” dell’istituzione ecclesiastica, dunque, in analogia, quello che la politica è per la società —, in quanto viene meno o viene lasciata inaridire una fonte da cui la stessa Chiesa “[…] possa trarre ispirazione nelle sue scelte attingendo al suo plurisecolare tesoro di esperienze e di memorie”.
2. La storia dell’Iberoamerica e la sua “revisione”
Dopo aver indicato i parametri cronologici di un fenomeno per qualche verso in continuo mutamento, ma per qualche verso anche costante, almeno nel senso di “tutt’altro che esaurito”, cioè — ancora — del tentativo di attaccare la Chiesa nella sua storia, tentativo che ha richiesto lo sviluppo di una corrispondente strumentazione filologica, non mi accingo per certo a fare l’apologia non dico della falsificazione storica, ma neppure dell’imprecisione: non posso però non segnalare l’intronizzazione, in “un mondo frantumato” (19), della diffidenza ideologica al posto dell’umana fiducia, una fiducia, una “disponibilità a credere”, “a prestar fede”, ben descritta dalla formula “Philosophus ait” senza ulteriori precisazioni.
Passo quindi ai parametri geografici del mio argomento, la storia dell’Iberoamerica, della ricaduta sociologica del cristianesimo, cioè della Cristianità, in Iberoamerica. E richiamo anche, a questo proposito, quanto dice Papa Benedetto XVI, secondo cui oggi “il passato appare […] solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse”; e “[…] in molti piani di studio l’insegnamento della storia inizia solamente a partire dagli eventi della Rivoluzione Francese”: infatti, i casi sono tali e tanti che riesce difficile sostenere a qualche proposito che a esso s’intende “soprattutto” fare riferimento.
I termini indicati sono ampiamente verificati nella storia della storiografia iberoamericana così come viene periodizzata in modo illuminante da Bernardino Bravo Lira, docente di Storia del Diritto nell’Universidad de Chile: “In termini generali — scrive a riguardo della storiografia appunto iberoamericana —, si devono distinguere cinque tappe. La serie si apre con la storiografia barocca nei secoli XVII e XVIII. Le fanno seguito quella erudita nell’età dell’illuminismo e quella europeizzante a partire dalla seconda metà del secolo XIX. Poi, dagli anni 1920, si fa strada il revisionismo […]. In seguito, sembra discernersi un’altra tappa recente, che potremmo chiamare nazionale” (20).
Dunque, a partire dalla seconda metà del secolo XIX, “in contrasto con le precedenti, sorge in Ispanoamerica, dopo l’Indipendenza, una storiografia europeizzante. Il suo carattere distintivo non è tanto il rigore documentale quanto il modo di trattare le testimonianze. Comincia attribuendo un significato fondativo all’emancipazione e, di conseguenza, scarta in blocco tutto quanto precede, i tre secoli che vanno dalla scoperta all’Indipendenza. Perciò presenta la storia patria divisa in due epoche di segno contrario. Prima dell’Indipendenza l’Ispanoamerica fu mantenuta nell’ignoranza, nell’oppressione e nell’arretratezza. Con l’Indipendenza hanno trionfato la ragione, la libertà e il progresso.
“Forse niente riflette meglio questa visione in bianco e nero — “il passato […] come uno sfondo buio” di cui parla Papa Benedetto XVI — dell’applicazione dei termini colonia e coloniale ai paesi iberoamericani prima dell’Indipendenza e, in generale, a tutta la cultura di quest’epoca. La leggenda nera antispagnola, allora molto diffusa, venne a dare un’apparenza scientifica all’aggettivazione del periodo indiano come coloniale e, per ciò stesso, oscurantista, repressivo e retrogrado. Sulla Spagna si fa cadere una duplice condanna, per tirannia in campo politico — trecento anni di oppressione dei popoli americani — e per fanatismo in quello culturale, a causa della difesa e della diffusione della fede cattolica. La nota frase, progredire significa despagnolizzarsi, sintetizza bene l’atteggiamento squalificatore del proprio passato da parte della storiografia europeizzante” (21), il cui criterio storico si esprime in questi termini: “Il cristianesimo e la Spagna non valevano nulla. Perciò, neppure l’opera civilizzatrice del Nuovo Mondo” (22). Quanto all’“applicazione dei termini colonia e coloniale ai paesi iberoamericani prima dell’Indipendenza e, in generale, a tutta la cultura di quest’epoca”, si tratta di un suggerimento d’attenzione di grande utilità, da non assumere però in modo nominalistico, acriticamente, dal momento che, talora se non sempre, la ricerca caratterizzata da pigrizia semantica, denominatoria, precede, non può non precedere necessariamente l’eventuale, auspicabile revisione categoriale. Un’autorevole e puntuale testimonianza? A proposito del Brasile — ma non solo — il giurista e storico del diritto José Pedro Galvão de Sousa (1912-1992), nel suo ultimo scritto, distingue accuratamente fra “colonizzazione e […] colonialismo” (23) affermando: “Questa colonizzazione non deve essere in nessun modo confusa con il colonialismo mercantilista e sfruttatore, che ha prodotto la segregazione razziale, l’odio degli autoctoni e l’arricchimento dei dominatori dediti esclusivamente ai guadagni e ai vantaggi materiali da ricavare, senza attenzione per lo stato dei selvaggi, abbandonati a una emarginazione servile” (24).
Venendo specificamente a “spagnoli e portoghesi[, essi] concepirono e realizzarono la colonizzazione nel senso di opera di elevazione culturale, secondo il suo significato etimologico, da colere, “coltivare”” (25), si chiede: “Quindi, come parlare [appunto a proposito del Brasile] di una semplice colonia? Inoltre, non bisogna dimenticare che il linguaggio fino ad allora consueto fu modificato dall’inglese Robert Southey [scrittore (1744-1843)], che fra il 1810 e il 1819 scrisse una storia del Brasile, traducendo i termini dei documenti portoghesi — fatti copiare nell’archivio della Torre do Tombo, a Lisbona — povoador [popolatore, colono], povoação [atto o effetto del popolare], povoamento [popolamento] e povoar [popolare], con colonist, colonization e to colonize. Gli storici che lo hanno seguito non hanno trascuratamente corretto l’imprecisione e hanno lasciato che si generalizzasse una terminologia produttrice di equivoci” (26).
In questo clima, le opere che criticano la storiografia europeizzante cominciano a prendere sempre più corpo e nasce una storiografia rigorosa, rispettosa del dato e del documento, indicata come “revisionismo” soprattutto nella bibliografia argentina (27) e della quale Bravo Lira erige un ampio catasto solo incipientemente articolato (28). Infatti fra i suoi rappresentanti vengono rubricati insieme autori diversi, di diverse appartenenze generazionali e di altrettanto diverse competenze — anche se spiccano gli storici del diritto e, avanzando nel tempo e per relazione agl’interessi, hanno una parte di sempre maggior rilievo i cultori dell’Emancipazione piuttosto che della Conquista —, come i messicani Toribio Esquivel Obregón (1864-1945), Carlos Pereyra Gómez (1871-1942), José Vasconcelos Calderón (1882-1959) e l’ultracentenario Silvio Arturo Zavala Vallado, nato nel 1909; i brasiliani Alberto Torres (1865-1917) e Manuel José Bomfim (1868-1932); il francese Marius Andé (1868-1927); i venezuelani Laureano Vallenilla Lanz (1870-1936) e Rufino Blanco Fombona (1874-1944); lo spagnolo Julián Juderías y Loyot (1877-1918), Manuel Giménez Fernández (1896-1968), Juan Manzano y Manzano (1911-2004) e Alfonso García-Gallo de Diego (1911-1992); gli uruguaiani Luis Alberto de Herrera (1873-1959) e Pablo Ernesto Pivel Devoto (1910-1997); i cileni Alberto Edwards Vives (1874-1932), Jaime Eyzaguirre Gutíerrez (1908-1968), Fernando José Campos Harriet (1911-2003), Manuel Salvat Monguillot (1913-2004), Mario Góngora del Campo (1915-1985) e Alamiro de Ávila Martel (1918-1990); l’inglese Leonel Cecil Jane (1879-1932); lo statunitense Lewis Hanke (1905-1993); il dominicano Pedro Henríquez Ureña (1884-1946); gli argentini Rómulo Domingo Carbia (1885-1944), Ricardo Levene (1885-1959), Roberto Levillier (1886-1963), José Miguel Torre Revello (1893-1964), Vicente Dionisio Sierra (1893-1982), Julio Irazusta (1899-1982) ed Ernesto Palacio (1900-1979); i peruviani Víctor Andrés Belaúnde Diez Canseco (1883-1966), José de la Riva Agüero y Osma (1885-1944), Rubén Vargas Ugarte S.J. (1886-1975), Jorge Basadre (1903-1980) e Guillermo Lohmann Villena (1915-2005); il portoghese António Sardinha (1887-1925); il tedesco Ernst Schaefer (1872-1946); i nicaraguensi Pablo Antonio Quadra Cardenal (1912-2002) e Ycaza Tigerino; e, infine, l’austriaco Victor Emil Frankl (1899-1979).
Mi pare di qualche significato far presente che, degli autori rubricati nel catasto da me accuratamente trascritto, a. io non sia in grado di determinare l’impatto sociale quantitativo, primo fra tutti la sua ricaduta sui libri di testo scolastici, che forniscono la materia dell’istruzione pubblica; e come, per quanto dice relazione all’impatto culturale in Italia, cioè quanto alla loro fortuna italiana, b. possa però segnalare che alcuni non sono addirittura presenti in biblioteche italiane, quindi che pochissime loro opere sono tradotte in italiano (29).
Infine, mi piace chiudere temporaneamente il catasto eretto da Bravo Lira — un catasto che, per altro, non mancherò più avanti d’integrare sulla base delle informazioni fornite dallo stesso manifesto che esamino — ricordando lo storico francese Jean Dumont (1923-2001) e i suoi L’heure de Dieu sur le Nouveau Monde (30), La regina diffamata. La verità su Isabella la Cattolica (31) e Il Vangelo nelle Americhe. Dalla barbarie alla civiltà (32); i brasiliani Galvão de Sousa (33), già citato, e Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) (34), pensatore e filosofo della storia; e, last but not least, un maestro argentino, Caturelli, in modo particolare due suoi scritti strettamente collegati alla tematica di cui mi sto interessando: Il Nuovo Mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale (35) e la Historia de la Filosofia en la Argentina. 1600-2000 (36).
Perché venga adeguatamente colto lo spessore culturale e dottrinale dell’aggettivo “europeizzante” e della corrispondente scuola storiografica, richiamo una tesi esposta in modo efficace dallo spagnolo Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978), filosofo e storico del diritto: “Si è ripetuto fino alla sazietà che l’Europa finiva ai Pirenei, e ciò è sicuro sempre che non si supponga, con puerile semplicismo, che dopo l’Europa comincia l’Africa; poiché quel che comincia nei Pirenei è l’Occidente pre-europeo, una zona in cui ancora vivono vestigia profonde e tenaci della Cristianità, che lì si rifugiarono, dopo essere state soppiantate in Francia, Inghilterra o Germania, dalla visione europea, secolarizzata e moderna della realtà. […] Da ciò risultano […] due civiltà e due culture contrastanti: l’Europa, la civiltà della Rivoluzione, e la Cristianità, la civiltà della Tradizione” (37). E — precisa il brasiliano, quindi l’iberoamericano Galvão de Sousa — “la Cristianità — la respublica christiana, l’ordine temporale delle società ispirato dal cristianesimo — era fiorita nel Medioevo ed era stata colpita nell’Europa oltre i Pirenei dal Rinascimento e dal protestantesimo, mentre continuava però a sussistere integra e unita nella penisola iberica. Da qui si è irradiata nel continente scoperto da Cristoforo Colombo e in tutte le parti del globo nelle quali si faceva sentire l’opera civilizzatrice di Portogallo e di Spagna” (38). “Qualcuno ha detto — integra lo stesso studioso — che il nostro Medioevo è stato il cosiddetto periodo coloniale e che per noi l’Età Moderna è cominciata con la separazione politica. Infatti gl’imperi di Portogallo e di Spagna avevano perpetuato le tradizioni della Cristianità medioevale e la sua visione del mondo, mentre [queste] [le] idee europee, a partire dall’illuminismo del secolo XVIII, erano venute a introdurre il fermento rivoluzionario, preparando le mentalità all’accettazione dei postulati di un nuovo ordine giuridico” (39).
Brevemente tornando all’ambiguità del termine “colonia” e dell’aggettivo “coloniale”, segnalo un suo uso rigoroso e univoco, che fonda una feconda periodizzazione della storia dell’Iberoamerica e illumina il testo che vado a esaminare. Propone tale uso e tale periodizzazione lo storico statunitense Richard McGee Morse (1922-2001), autore della sezione relativa all’Iberoamerica, The Heritage of Latin America (40), dell’opera curata nel 1964 dallo storico, pure statunitense, Louis Hartz (1919-1986), The Founding of New Societies. Studies in the History of the United States, Latin America, South Africa, Canada, and Australia (41). McGee Morse segnala come la storia iberoamericana venga consuetamente segmentata in un “periodo indigeno”, che dalla preistoria giunge al 1492, in un “periodo coloniale” che dal 1492 si stende fino al 1824, e in un “periodo nazionale”, che parte appunto dal 1824. Dal canto suo egli propone una diversa periodizzazione, che fa proseguire il periodo indigeno fino al 1520, introduce un “periodo spagnolo” dal 1520 al 1760, quindi uno specifico periodo coloniale fino al 1920, e solo da questa data fa esordire il periodo nazionale, che considera ancora in corso nella seconda metà del secolo XX. “Facciamo andare il periodo d’occupazione indigena fino al 1520 perché — spiega —, una generazione dopo la scoperta di Cristoforo Colombo [1451-1506], la colonizzazione spagnola era ancora limitata alle isole e alle spiagge del Mare dei Caraibi e condotta sulla base di tentativi attraverso un’attività commerciale piuttosto che un’effettiva colonizzazione, la quale di solito mira a dominare” (42). Venendo poi a dar ragione del periodo coloniale, spiega che “il termine “coloniale” […] serve in questo nuovo schema a caratterizzare il periodo in cui la cultura e le istituzioni creole e cattoliche dell’America spagnola furono soggette alle influenze e alle pressioni del mondo occidentale” (43), quindi — nel caso specifico — fa del termine un uso molto simile, se non coincidente, con quello corrente.
Infine, relativamente all’inizio del periodo “coloniale” verso il 1760, epoca delle più importanti riforme borboniche, indossa la sintesi sulla questione proposta dal poeta, saggista e diplomatico messicano Octavio Paz (1914-1998), secondo cui “le riforme avviate dalla dinastia borbonica, specialmente da Carlo III [1716-1788], sanano l’economia e rendono più efficace il disbrigo degli affari, ma accentuano il centralismo amministrativo e trasformano la Nuova Spagna in una vera e propria colonia, cioè in un territorio sottoposto a sistematico sfruttamento e strettamente soggetto al potere centrale” (44).
3. Génesis de la independencia hispanoamericana: un manifesto “revisionista”
Quanto — secondo la periodizzazione proposta da Bravo Lira, che, come ogni periodizzazione, è un’interpretazione “strategica” di una storia, caratterizzata da una maggiore o da una minore fecondità esegetica — esordisce negli anni 1920 e sbocca nella fase nazionale, cioè la storiografia revisionista, più semplicemente “il revisionismo”, trova nel 1946 un’espressione a mio avviso particolarmente felice come formulazione nello stesso tempo sintetica e appassionata di un’esigenza di verità storica, della verità di fatto, parte della verità tout court considerata: “Personalmente — anch’io, come Marco Tangheroni — resto convinto che la storia è ricerca della verità, di una descrizione vera del passato” (45). È una formulazione che comporta un possibile utilizzo anche esistenziale, culturale e politico, di tale verità storica, quindi un suo uso “esperienziale”. Si tratta di un’espressione che realizza il modello costituito dal “quinto viaggio di Colombo” e dalla corrispondente categoria storico-culturale: poiché il grande navigatore in vita sua attraversò l’Oceano Atlantico verso il Nuovo Mondo quattro volte, con tale espressione si vuole intendere — il felice suggerimento è di Caturelli — il ritorno dal Nuovo Mondo all’Europa Continentale, quindi il tipo del ritorno dalla periferia al centro, cioè la figura di una riconciliazione del mondo occidentale e cristiano con le proprie radici culturali (46).
L’occasione per tale formulazione è costituita da una conferenza organizzata dal Sindicato Español Universitario dell’Universidad Central di Madrid e tenuta nella Facoltà di Diritto di questo ateneo nel dicembre del 1946 dal citato Ycaza Tigerino, scrittore e sociologo nicaraguense: Génesis de la independencia hispanoamericana (47). A suo proposito faccio stato solo in modo tangenziale dei suggerimenti politico-culturali ed esistenziali che comporta, ma tematicamente soltanto delle proposte di revisione storica, da cui questi suggerimenti vengono supportati, tesi a liberare la storia dell’Iberoamerica dal “buio” antecedente la secessione e dall’ipotetica natura di replica fondativa della Rivoluzione Francese. Il che non m’impedisce però di fare riferimento a tesi relative alla storia in genere e alla sua versione sociologica, coltivata in specie dall’autore: anzi, piuttosto mi costringe a questo richiamo, a partire da una notazione non finale, ma per certo conclusiva: “Il tema della nostra separazione [cioè della secessione dell’Iberoamerica dagl’imperi spagnolo e portoghese] è, dunque, il tema della nostra unione. Dobbiamo congiungerci lì dove ci siamo separati, senza che questo voglia dire che possiamo prescindere da un secolo di separazione e di evoluzione politica e sociale diversa; ma dobbiamo riannodare il filo storico del nostro destino e perciò è necessario cercare i capi sparsi dove la fatalità e il tradimento ci hanno fatto tagliare il filo, ed è necessario comprendere questa fatalità e questo tradimento, perché essi continuano a operare attraverso tutto il processo della nostra storia; continuano a operare laggiù in Ispanoamerica e qui in Spagna. Qui in Spagna non solo nella sua mancata integrazione del mondo ispanico, ma nella sua disintegrazione interna politica e spirituale.
“Anche se non si può parlare della storia come di una scienza in senso stretto, in quanto, posta la libertà umana, i fenomeni umani non possono essere collegati e determinati universalmente e necessariamente da una legge come i fenomeni naturali; tuttavia, in senso lato, si può dire che la storia è una scienza, o un conato di scienza, come vogliono alcuni scolastici, nella misura in cui la libertà umana è solamente un potere psicologico, ed è limitata e ridotta dai fattori antropologici e mesologici, soprattutto quando si tratta di atti collettivi.
“Esistono, dunque, certi princìpi o leggi storiche che conosciamo con certezza morale, per cui la storia è stata chiamata scienza morale, insieme alla politica, alla sociologia, all’economia politica e a tutto il gruppo delle scienze umane” (pp. 11-12).
a. Il “quinto viaggio di Colombo” passa attraverso la Spagna
Lo studioso nicaraguense, allora ventisettenne, esordisce dunque qualificandosi e descrivendo apertamente i suoi interlocutori di genere, cioè gli universitari spagnoli, come affetti da “piccolo nazionalismo”, che contrasta con la nozione imperiale di Hispanidad e che — aggiungo io — può trasformarsi da imperialismo, quando frustrato dalla mancanza di forza per imporsi, in estraneità ostentata, alimentata però dal rapporto espresso nel proverbio secondo cui “Quando la volpe non arriva all’uva dice che è acerba” (48).
Esordisce Ycaza Tigerino: “Questo è il primo contatto diretto che ho in Spagna con gli universitari spagnoli all’università. Devo, dunque, cominciare spiegando la mia presenza in questa sede, la presenza di noi intellettuali e universitari ispanoamericani. E lo devo fare perché mi sono reso conto che la gran massa del mondo universitario spagnolo è estraneo, inspiegabilmente estraneo, alla fraternità e alla comunità d’ideali e d’interessi fra Spagna e America ispanica. Ed è necessario cercare anche una spiegazione di questa estraneità.
“In quest’aula universitaria della facoltà di Diritto le mie parole acquistano — me ne rendo perfettamente conto — una serietà e una responsabilità evidenti. Non si tratta di una tribuna per la demagogia politica. Qui i problemi della Patria e del mondo devono avere elevatezza, serenità e rilevanza.
“La funzione nazionale dell’università è di orientamento e d’integrazione. Le grandi direttrici culturali e politiche della Patria non devono venire cercate nell’orgia demagogica delle diverse categorie sociali, devono essere ispirate a una filosofia e a una scienza forgiate e cementate nell’università nazionale, scienza e filosofia che a loro volta devono informare l’anima popolare e orientare i suoi movimenti nella storia.
“Una rivoluzione autentica può nascere fuori dall’università e contro l’università, quando questa ha tradito gli elementi essenziali della nazione, ma non può vivere e svilupparsi se non conquista l’università.
“Ho l’impressione che i cinquantamila universitari spagnoli, nella loro grande maggioranza — a eccezione di qualche piccolo gruppo —, non vivono il momento rivoluzionario della Spagna e del mondo e — mi si perdoni la franchezza — non hanno una concezione chiara e valida dei valori rappresentati dalla Spagna e dal suo destino universale, che la lega ai popoli della sua stirpe in una straordinaria comunità d’interessi spirituali e politici. La gioventù universitaria di Spagna vive uno spagnolismo introverso che non costituisce per essa nessun ideale eroico e che fa sì che si rinchiuda in un egoismo nazionalistico, non per mancanza di religiosità e di nobiltà, ma per la carenza d’ideali a misura della grandezza dell’anima spagnola; perché il popolo spagnolo può vivere con passione la propria storia in funzione del proprio ideale universale e del proprio destino storico, che sono stati e sono universali.
“Alla gioventù spagnola l’università non ha saputo fornire un’interpretazione, in funzione della storia attuale, del grande ideale ispanico che è anche l’ideale delle gioventù ispanoamericane. La gioventù spagnola ha solamente sentito parlare del grande ideale dell’Hispanidad attraverso una retorica politica inconsistente.
“Ebbene, noi universitari ispanoamericani, che abbiamo vissuto e sentito questo vostro ideale nella carne della storia patria, in discipline intellettuali e culturali, possiamo dire qualcosa di esso a voi spagnoli; qualcosa che non è demagogia partitica, né sentimentalismo interessato, né formula sonora da politica internazionale. Noi universitari ispanoamericani siamo qui in Spagna, dopo aver sofferto in noi stessi per i vostri ideali che sono nostri; siamo qui con il cuore grande, ma privi di lirismi senza contenuti e, soprattutto, al di sopra dei risentimenti di partito e regionali del vostro spagnolismo, perché noi, spagnoli d’America, concepiamo soltanto un’unica e grande Spagna di tutti i tempi grandi e un solo grande ispanismo, che congiunge in un fascio serrato di patrie i nostri popoli uniti dal sangue e dalla storia in un solo destino universale” (pp. 5-8).
b. Il carattere congiunturale e non ideologico dell’Indipendenza dell’Ispanoamerica
Quindi Ycaza Tigerino passa a descrivere il modo della separazione o secessione, come forse andrebbero qualificati tali episodi d’indipendenza, con maggiore precisione terminologica e con linguaggio tecnico ampiamente accreditato nel Diritto Internazionale: “L’Indipendenza dell’Ispanoamerica deve considerarsi un aborto politico provocato dalla violenza di circostanze storiche speciali, che staccò prematuramente dal suo organismo materno popoli in formazione, senza la maturità e l’autonomia biologica necessarie. Tuttavia, i nostri popoli avrebbero potuto acquisire rapidamente questa maturità e autonomia, e con esse uno sviluppo storico normale, se alla loro rischiosa e precoce emancipazione dalla tutela della Spagna non si fosse aggiunto il brusco e audace abbandono delle tradizionali norme della vita politica e dei vecchi e provati princìpi di governo, l’assurdo e rivoluzionario mutamento totale delle istituzioni politiche, al quale si opposero, saggiamente ma inutilmente, i grandi Libertadores, fino a venire trascinati, incompresi e perfino perseguitati e assassinati, dall’ondata di tradimento e di anarchia sanguinarie scatenata dagl’ideologi e dai demagoghi riformatori.
“L’indipendenza iberoamericana non è solo la separazione dalla Spagna, è un franare totale, come lo sgranarsi di una pannocchia di popoli. Non è un moto delle province americane contro la metropoli, ma molti moti. Non una sola grande indipendenza, ma molte piccole indipendenze. E però, dopo il 1821, il processo di franamento proseguirà all’interno delle stesse patrie indipendenti. Tutte vogliono essere indipendenti le une dalle altre, e in Centroamerica si giunge al ridicolo di dividere la già piccola patria, da poco separata dal Messico, in cinque minuscole repubbliche.
“E il fatto è che l’indipendenza non fu altro che l’esplodere dell’individualismo spagnolo, perduta la forza centripeta dell’ideale ispanico che unificava l’immenso impero. Perciò il processo d’indipendenza non terminò con la separazione dalla Spagna. Continuò laggiù in America con la separazione delle diverse province che formavano l’Impero messicano, la Gran Colombia e l’antico Viceregno della Plata, ed è lo stesso che in Spagna soffia sotto il separatismo basco e catalano” (pp. 9-11).
Ma “la storia di tutta l’Ispanoamerica è stata falsificata” (p. 18) con una “falsificazione grottesca e che lascia stupefatti!” (p. 23).
Perciò “è importante dare testimonianza, a grandi linee, di questa enorme falsificazione della nostra storia e delle grandi rettificazioni alle quali è stata poi necessariamente sottoposta.
“Fra questi grandi rettificatori contemporanei va citato in primo luogo Carlos Pereyra, che ha fatto una revisione completa della storia dell’America. Sulle orme di Pereyra, storici e scrittori come Vasconcelos, Alfonso Junco [messicano (1896-1974)], Mariano Cuevas [gesuita messicano (1879-1949)], Francisco Encina [Francisco Antonio Encina Armanet, cileno (1874-1965)], Romulo D. Carbia, José de la Riva Argüero, padre Bayle [Constantino, gesuita spagnolo (1882-1953)] e molti altri ancora hanno scritto documentatamente, distruggendo pregiudizi e falsità, sgonfiando personaggi, tirando fuori dalla polvere del disprezzo e della calunnia l’oro della nostra autentica cultura e illuminando così con una nuova luce il panorama storico dei loro rispettivi paesi e di tutta l’Ispanoamerica.
“Fra gli stranieri, il francese Marius André, il nordamericano Charles [Fletcher] Lummis [1859-1928] e l’inglese Cecil Jane, hanno pubblicato opere decisive che, grazie alla provenienza dei loro autori, hanno tutto il valore della serenità del giudizio storico e dell’imparzialità più assoluta.
“La lettura di questi illustri storici ci fa scoprire la fantasiosa leggenda ordita alle spalle del passato storico dell’Ispanoamerica e basata su menzogne ed errori tanto sfacciati e grotteschi che, se non sono spiegabili in nessuno scrittore di media preparazione, lo sono ancora meno in noti storiografi che li hanno dati alle stampe e dai quali li hanno copiati e riprodotti quanti, più tardi, invece che abbeverarsi alle fonti originali, si attennero alla testimonianza di così saggi maestri e autorità in materia.
“Marius André segnala un cumulo di falsità e di errori di fatto nelle opere di Jallifier [Régis, francese (1846-1912)] e Vast [Henri, francese (1847-1921)], Gustave Hubbard [francese (1828-1888)], Gervinus [Georg Gottfried, tedesco (1805-1871)], Cesare Cantù [1804-1895], Seignobos [Charles, francese (1854-1942)]. In mezza dozzina di pagine di quest’ultimo ha contato cinquantacinque errori” (pp. 18-20).
“È così accaduto che i nostri storici ispanoamericani, ispirandosi a questi illustri mentitori — per pigrizia congenita e per incomprensione delle realtà sociali dei loro stessi popoli, che si rappresentavano sfigurati attraverso la lente del proprio romanticismo liberale — continuarono a ripetere i loro stessi errori fino a trasformarli in dogmi incontrovertibili e accumulando in proposito nuove ed erronee interpretazioni storico-politiche, prodotto dei primi e del loro liberalismo ingenuo e che rende ciechi.
“In primo luogo si levò sull’opera della Spagna in America una oscura e iniqua leggenda frutto della fobia anticattolica di scrittori protestanti come Draper [Daniel James, pastore metodista inglese (1810-1866)] e dell’errata interpretazione dell’opera polemica di padre Las Casas [Bartolomé de, vescovo domenicano spagnolo (1484-1566)], il cui zelo violento ed esacerbato per la causa degl’indios lo portò a esagerazioni fantasiose e pericolose.
“E mentre, da un lato, si dipingevano i conquistadores spagnoli come autentici mostri di crudeltà, avidi e sanguinari, d’altro lato, sotto l’influenza del naturalismo roussoiano, si trasformavano indios barbari e cannibali in dolci esseri inoffensivi, che conducevano un’esistenza idilliaca in comunione con la Natura, come il quadro idilliaco di Chateaubriand [François-René de (1768-1848)] nella sua romantica Athala.
“Con queste premesse storiche l’indipendenza dell’America non poteva essere altro che la sollevazione dei popoli secolarmente sottomessi al giogo spagnolo o — per dirla con le consuete frasi auliche e da parlamentari — “l’aurora sanguinosa della libertà che illumina il risveglio delle razze oppresse”. E i grandi Libertadores come Bolívar [Simón José Antonio de la Santísima Trinidad Bolívar Palacios Ponte y Blanco, venezuelano (1783-1830)], Sucre [Antonio José de, venezuelano (1795-1830)], San Martín [José de, argentino (1758-1850)], chi potevano essere se non emuli insigni di Robespierre [Maximilien de (1758-1794)] e di Danton [Georges-Jacques (1759-1794)], nemici acerrimi della Spagna e dell’abominevole passato coloniale e fondatori della Democrazia americana?” (pp. 21-23).
Dunque, una rivolta nata dall’invasione napoleonica della madrepatria iberica, accompagnata dal rifiuto di essere dominati dalle Cortes di Cadice, viene presentata, cioè “diventa”, una rivoluzione contro la Spagna e contro l’Hispanidad, cioè contro i valori da essa veicolati in una determinata stagione storica.
c. Il problema dinastico e il regime monarchico
Prova evidente della falsità della presentazione evocata è costituita, in specie, dal problema dinastico e, in genere, da quello del regime politico, in apparenza — secondo la sensibilità e l’esperienza del secolo XXI — un orpello, ma un “orpello”, nei secoli XVIII e XIX, dalle rilevanti conseguenze politico-sociali, conseguenze dimostrate dal diverso svolgimento storico dell’America spagnola e di quella portoghese. Infatti, “qualcuno che, per fare un esempio, ha avuto la pazienza di contare le rivoluzioni verificatesi in Ecuador nel corso di cento anni, indica fino a trentacinque rivoluzioni, senza tener conto delle sollevazioni e delle sedizioni. In Bolivia, dal 1825 al 1898, vi sono state più di sessanta rivolte e più di trenta presidenti, dei quali sei sono morti assassinati. In Nicaragua, in un periodo di soli quattordici anni, si sono succeduti ventitré capi di Stato, detti allora Directores Supremos. Il Messico ha avuto trentadue presidenti in trentanove anni, frutto di rivolte militari, rivoluzioni e sedizioni” (p. 17). Per contro — precisa Galvão de Sousa —, “[…] mentre i popoli vicini e fratelli erano ondeggianti fra il caudillismo […] e la demagogia, il Brasile […] [riusciva] a sfuggire a questa instabilità e alle continue rivoluzioni e mutamenti di Costituzione, deposizioni del presidente e cambiamenti nel sistema di governo. La demagogia era una conseguenza dell’astrattezza democratica importata. Si dimenticava la lezione della storia, con istituzioni di autentica partecipazione popolare che erano esistite e che potevano essere rinnovate e attualizzate. E, di fronte al disordine irrompente, il caudillo era un Ersatz, un “sostituto”, del re.
“Ma anche per il Brasile giunse il momento di subire le conseguenze di una fatale deriva storica. Dopo la proclamazione della Repubblica nel 1889, sostituite con un tratto di penna la forma di governo — la monarchia con la repubblica —, la forma di Stato — lo Stato unitario con lo Stato federale — e il sistema di governo — il parlamentarismo con il presidenzialismo —, che cosa accadde?
“Rispondono le statistiche:
“7 Costituzioni
“17 atti istituzionali
“19 rivolte militari
“6 scioglimenti del Congresso
“2 rinunce presidenziali
“3 presidenti dei quali è stato impedito l’insediamento
“1 presidente suicida.
“Senza parlare delle dittature, dichiarate o di fatto, degli stati d’assedio e dei vent’anni di un regime militare cominciato con la migliore delle intenzioni, quella di salvare il paese dalla sovversione e dalla minaccia comunista, ma poi deviato dalle sue mete per mancanza di un pensiero politico ordinatore e di comprensione della necessità di una riforma istituzionale.
“La problematica dei popoli della vecchia America spagnola dall’Indipendenza è diventata anche la problematica del Brasile con la Repubblica. Il che non vuol dire che l’Impero sia stato esente dalle influenze ideologiche che hanno deviato i popoli iberoamericani dalla loro linea di formazione storica” (49).
Infatti, “la forma repubblicana fu istituita nell’Ispanoamerica perché non restava altra via di fronte all’impossibilità di trovare principi europei per i troni americani” (p. 41). “Fino al punto che alcuni Libertadores — integra sempre Galvão de Sousa — immaginarono la restaurazione dell’impero degl’Incas, sulla base dei princìpi spagnoli” (50).
“Al contrario dell’erede del Portogallo, che preferì i suoi domini d’America al suo trono europeo, Ferdinando VII [di Borbone (1784-1833)] respinse ogni negoziato perché lui, i suoi figli o parenti venissero a occupare i troni che offrivano loro le Giunte di Città del Messico e di Buenos Aires. D’altra parte l’Inghilterra non prestò attenzione alla proposta fatta da Bolivar, ripetuta nel 1826 e nel 1827, di fornire un re alla Colombia” (pp. 41-42). Così, la scelta dei Bragança di “arroccare” in Brasile ha risparmiato al paese le tragedie riservate direttamente dai Borboni — ma indirettamente non solo da loro — all’America spagnola, anche se — come si è visto — si è trattato di un semplice rimando a dopo l’instaurazione del regime repubblicano. Infatti — insegna lo stesso Galvão de Sousa — “il nuovo ordine instaurato nelle repubbliche dell’America spagnola sarebbe stato ispirato ai modelli anglosassoni e alle idee francesi. Si sarebbe così perso il centro di equilibrio mantenuto dalle istituzioni tradizionali. Per esempio, il sistema rappresentativo, sostituendo i vecchi cabildos con i nuovi parlamenti, degenerava subito in sanguinose questioni di partito senza nessun contenuto di effettiva rappresentanza popolare. La storia politica di questi popoli continua ai nostri giorni a essere segnata da fasi d’intensa agitazione partitica, alternate con irruzioni dittatoriali” (51). E il passaggio dai cabildos — cioè dai consigli municipali nati nel Medioevo spagnolo e trapiantati in America dai conquistadores, istituzioni fra le più importanti a partire dai primi anni della Conquista, poi efficaci meccanismi di rappresentanza locale di fronte alla burocrazia reale — e, soprattutto, dai cabildos abiertos (52) ai parlamenti ripete sostanzialmente, mutatis mutandis, quello dagli Stati Generali francesi del 1789 all’Assemblea Nazionale (53).
“I popoli hanno tradito i loro Libertadores, i demagoghi e gl’ideologi hanno cospirato contro di loro, li hanno derisi, li hanno perseguitati e li hanno assassinati.
“Iturbide [Agustín Cosme Damián de Iturbide y Arámburu, messicano (1783-1824)] fu vergognosamente fucilato al suo ritorno a Città del Messico. San Martín e O’Higgins [Bernardo O’Higgins Riquelme, cileno (1778-1842)] morirono in esilio. Sucre cadde vittima di un codardo attentato sulle montagne di Berruecos. Bolívar, dopo essere sfuggito miracolosamente al pugnale dei suoi nemici, andò a morire oscuramente e tristemente, dimenticato da tutti, nella solitudine del suo rifugio di campagna di San Pedro Alejandrino. Un anno prima di morire aveva detto: “Poiché i nostri popoli non possono sopportare né la libertà né la schiavitù, mille rivoluzioni renderanno necessarie mille usurpazioni”” (p. 44). E il tradimento maggiore — agli occhi dei posteri — è costituito dalla loro presentazione diversa, quando non contraria alla realtà.
Dunque — conclude nella medesima linea Galvão de Sousa — i Libertadores “[…] non li hanno ascoltati i politici che facevano esiliare o anche assassinare gli eroi dell’indipendenza, mentre gli autori delle nuove costituzioni avevano gli sguardi rivolti agli Stati Uniti, senza saper seguire l’esempio dato dai propri pari nordamericani quanto a prudenza e a fedeltà alla storia” (54).
d. La lotta contro la “pigrizia congenita” culturale
L’itinerario, in qualche modo ricostruito, della falsificazione della storia dell’Iberoamerica, dalla polemica protestantica a quella illuministica e positivistica, è — per certo e sempre in qualche modo — giunto al suo termine concettuale, ma non manca un terribile residuo d’inerzia nei fatti. “Con la caduta del socialismo — nota Bravo Lira —, si completa il venir meno della modernità razionalista, iniziato nel 1920 con la caduta del liberalismo. Siamo di fronte al tramonto degli “ismi” e in particolare delle ideologie, succedanee della religione. Tutto questo comporta niente meno che la fine del razionalismo moderno e, con esso, della stessa Età Moderna. La modernità razionalista agonizza davanti ai nostri occhi e cede il passo a una postmodernità, il cui albeggiare è tanto chiaro quanto sono ancora incerti i suoi contorni” (55).
Superata concettualmente l’ideologia, rimane forse, come ultimo ostacolo, solo la “pigrizia congenita”, che Ycaza Tigerino ha profeticamente denunciato. Forse — o senza forse — vincerla potrebbe almeno avere buone ricadute anche esistenziali, sia dal punto di vista soggettivo che da quello comunitario.
Note:
(1) Cfr. Julio César Ycaza Tigerino, Génesis de la independencia hispanoamericana, ed. dalla rivista Alférez, Madrid 1947: un fascicolo di 52 pagine più la copertina, cucito con punti metallici, la cui paginazione riporto fra parentesi nel testo; sull’autore, presentato nel testo stesso come “del “Taller de San Lucas”, cofradía de escritores y artistas católicos nicaragüenses”, cfr. il mio Ricordo di Julio César Ycaza Tigerino (1919-2001). Coscienza dell’Iberoamerica e dell’Occidente cristiano, in Cristianità, anno XXX, n. 311, maggio-giugno 2002, pp. 20-22 e 30, poi raccolto nel mio Per un civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, Milano 2008, pp. 213-219.
(2) Cfr. Alberto Caturelli, Il Nuovo Mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, trad. it., con una Prefazione di Pier Paolo Ottonello, Ares, Milano 1992, pp. 368-370; cfr. pure il mio Un contro-rivoluzionario cattolico iberoamericano nell’età della Rivoluzione Culturale: il “vero reazionario” postmoderno Nicolás Gómez Dávila, in Cristianità, anno XXVIII, n. 298, marzo-aprile 2000, pp. 7-16, poi raccolto nel mio Per un civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, cit., pp. 179-205, soprattutto pp. 179-185.
(3) Cfr. Leone XIII, Lettera “Saepenumero considerantes”, del 18-8-1883, trad. it., in Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740. 250 anni di storia visti dalla Santa Sede, a cura di Ugo Bellocchi, vol. V, Leone XIII (1878-1903), parte prima, 1878-1891, pp. 158-165.
(4) Ibid., p. 163.
(5) Ibid., p. 159.
(6) Ibid., p. 163.
(7) Cfr. monsignor Hubert Jedin (1900-1980), Il cardinale Cesare Baronio. L’inizio della storiografia ecclesiastica cattolica nel sedicesimo secolo, trad. it., Morcelliana, Brescia 1982.
(8) Leone XIII, doc. cit., p. 159.
(9) Ibidem.
(10) Ibid., p. 160.
(11) Cfr. Benedetto XVI, Discorso ai membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, del 7-3-2008, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. IV, 1, 2008 (Gennaio-Giugno), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, pp. 374-376.
(12) Ibid., p. 374.
(13) Ibid., pp. 374-375.
(14) Ibid., pp. 375-376.
(15) Ibid., p. 376.
(16) Gonzague de Reynold, Cercles concentriques. Études et morceaux sur la Suisse, Quatrième cercle: Europa et christianitas, I, Histoire et culture, Les Éditions du Chandelier, Bienne 1943, pp. 181-183 (p. 183); la formula è sintesi di Johannes von Müller, Brief an Carl Victor von Bonstetten [1745-1832], Genf, den 16. Dec. 1774 [Lettera a Carl Victor von Bonstetten, Ginevra, 16-12-1774], in Idem, Sämmtliche Werke [Opere complete], a cura di Johann Georg Müller [fratello dell’autore (1759-1819)], vol. 34, Johann Georg Cotta, Stuttgart und Tübingen 1835, p. 46: “La politica che ragiona in generale mi ha fatto spesso lo stesso cattivo effetto, e fatti senza dettagli erano all’inizio l’origine di tutte le mie incredibili imprudenze. All’inizio la storia era solo la dispensa di tutte le esperienze per l’insegnamento della conduzione degli affari; da quando essa è degenerata in storia universale e ci siamo innamorati d’idee generali, ha perso la sua vera utilità”.
(17) G. de Reynold, op. cit., ibidem.
(18) Joseph de Maistre, De la souveraineté du peuple. Un anti-contrat social, texte établi, présenté et annoté par Jean-Louis Darcel, Presses Universitaires de France, Parigi 1992, livre second, De la nature de la souveraineté, chapitre II, De la monarchie, pp. 185-206 (p. 187), trad. it., Studio sulla Sovranità, in Idem, Scritti politici. Saggio su il Principio Generatore della Costituzioni Politiche. Studio sulla Sovranità, con Presentazione di don Luigi Negri e Introduzione di Franco Cardini, libro secondo, Della natura della sovranità, capitolo II, Della monarchia, Cantagalli, Siena 2000, pp. 109-334 (p. 218).
(19) Cfr. venerabile Giovanni Paolo II (1978-2005), Esortazione apostolica post-sinodale “Reconciliatio et paenitentia” circa la riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa oggi, del 2-12-1984, n. 2, nota 3, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VII, 2, nel testo ufficiale latino alle pp. 1352-1430, e in trad. it. alle pp. 1431-1499; il paragrafo citato è alle pp. 1432-1433; fra gli autori contemporanei che hanno usato l’espressione, cfr. Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008), Un mondo in frantumi. Discorso di Harvard, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1978.
(20) Bernardino Bravo Lira, Jayme Eyzaguirre, historiografia chilena y conciencia nacional en el siglo XX, in Walter Hanisch Espindola S.J., Oscar Davila Campusano, Ricardo Krebs Wilkens et alii, Jaime Eyzaguirre. Historia y pensamiento, Editorial Universitaria-Universidad Alonso de Ovalle, Santiago del Chile 1995, pp. 87-141 (p. 94).
(21) Ibid., pp. 95-96; la formula è ricavata da un’espressione ricorrente di Francisco Bilbao Barquín (1823-1865), scrittore e uomo politico cileno, detto “Apóstol de la libertad”: cfr. ibid., p. 132, nota 27.
(22) B. Bravo Lira, op. cit., p. 98.
(23) José Pedro Galvão de Sousa, Brasilianità lusitana e ispanica, trad. it., in Cristianità, anno XXI, n. 222, ottobre 1993, pp. 19-22 (p. 19); ed Errata corrige, ibid., anno XXI, n. 223, novembre 1993, p. 6.
(24) Idem, Brasilianità lusitana e ispanica, cit., p. 19.
(25) Ibidem.
(26) Ibid., p. 20.
(27) Cfr. B. Bravo Lira, op. cit., pp. 99-103; cfr. particolarmente p. 133, nota 31.
(28) Cfr. ibid., pp. 99-108.
(29) Cfr. Laureano Vallenilla Lanz, Cesarismo democratico, con Presentazione di Paolo Nicolai, Cremonese, Roma 1934; Rufino Blanco Fombona, Il conquistatore spagnolo del secolo XVI, con Prefazione di Mario Puccini (1887-1957), F.lli Bocca, Torino 1926; e Idem, L’uomo di ferro: romanzo americano, La Nuova Italia, Perugia-Venezia 1930; Ricardo Levene, La rivoluzione dell’America spagnuola nel 1810, curiosamente tradotta dal francese da Mario Ruffini (1896-1980), con Prefazione all’ed. appunto francese di Raymond Ronze (1887-1966) e Prefazione e appendice all’ed. it. di Emilio De Matteis, Vallecchi, Firenze 1929; Roberto Levillier (1881-1969), Ancora sul problema delle lettere e dei viaggi del Vespucci, in Nuova Rivista Storica, vol. XXXIX, fasc. 2, Roma-Napoli-Città di Castello 1955, pp. 201-256; e Idem, Il Maiollo di Fano alla mostra vespucciana, estr. dal suppl. de L’universo. Rivista dell’Istituto Geografico Militare, anno XXXIV, n. 6, Firenze novembre-dicembre 1954; José de la Riva Agüero y Osma, Elogio dell’inca Garcilaso, Edizioni di Capitolium, Roma 1967; Pedro Henríquez Ureña, Storia della cultura nell’America spagnola, con Prefazione di Giuseppe Bellini, Einaudi, Torino 1974; e Juan Manzano y Manzano, Cristoforo Colombo: sette anni decisivi della sua vita, 1485-1492, con Prefazione di Paolo Emilio Taviani (1912-2001), Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1990.
(30) Cfr. Jean Dumont, L’heure de Dieu sur le Nouveau Monde, Èditions Fleurus, Parigi 1991.
(31) Cfr. Idem, La regina diffamata. La verità su Isabella la Cattolica, trad. it., con Un invito alla lettura di Vittorio Messori, Società Editrice Internazionale, Torino 2003, soprattutto pp. 117-129.
(32) Cfr. Idem, Il Vangelo nelle Americhe. Dalla barbarie alla civiltà, trad. it., con un’appendice sul processo di beatificazione della regina Isabella la Cattolica (1451-1504) e con Prefazione di Marco Tangheroni (1946-2004), Effedieffe, Milano 1992; trad. it., di Idem, L’Église, oppresseur des Indiens d’Amerique?, cap. III di Idem, L’Église au risque de l’histoire, con Préface di Jean Duchesne, Criterion, Limoges 1982, pp. 111-167.
(33) Cfr. J. P. Galvão de Sousa, Brasilianità lusitana e ispanica, cit.; più ampiamente, cfr. Idem, Introdução à História do Direito Político Brasileiro, 2a ed., Edição Saraiva, San Paolo 1962, passim ma soprattutto pp. 111-128.
(34) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, No Brasil Colónia, no Brasil Império e no Brasil República: génese, desenvolvimento e ocaso da “Nobreza da terra”, in appendice a Idem, Nobreza e elites tradicionais análogas nas alocuções de Pio XII ao Patriciado e à Nobreza romana, Livraria Civilização-Editora, Oporto 1993, pp. 159-201 (trad. it., La formazione delle “élite” in Brasile nell’epoca coloniale, in Cristianità, anno XXII, n. 227-228, marzo-aprile 1994, pp. 13-20; Le “élite” brasiliane nei cicli socio-economici del legno brasile, della canna da zucchero e dell’oro e delle pietre preziose, ibid., n. 229, maggio 1994, pp. 15-21; e Le “élite” brasiliane nel ciclo socio-economico del caffè, ibid., n. 230-231, giugno-luglio 1994, pp. 15-21, soprattutto p. 15).
(35) Cfr. A. Caturelli, Il Nuovo Mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, cit. Alla scuola storica corrispondente, nella misura in cui si può parlare di scuola e non semplicemente di tendenza, oso iscrivere pure me stesso e due miei scritti di sintesi — cfr. La Conquista dell’Iberoamerica (1493-1573): i protagonisti, le modalità e i problemi, in G. Cantoni e Francesco Pappalardo (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, 1a ristampa corretta, D’Ettoris, Crotone 2007, pp. 139-185, e L’Indipendenza iberoamericana (1806-1826): dalla “reazione istituzionale” alla guerra civile, ibid., pp. 383-430, nei quali sono rinvenibili altri e nuovi contributi al “revisionismo” —, in ciò confortato da una lusinghiera recensione di Caturelli: cfr. Idem, “Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa”: lettura e bilancio di “un’opera che fa pensare”, in Cristianità, anno XXXV, n. 340-341, maggio-agosto 2007, pp. 39-43, trad. it. dell’ampia nota bibliografica del volume, comparsa in Gladius. Biblioteca del Pensamiento Católico, anno 25, n. 68, Buenos Aires Pasqua del 2007, pp. 235-239.
(36) Cfr. A. Caturelli, Historia de la Filosofia en la Argentina. 1600-2000, Capitulo I, Iberoamerica en la tradición cultural y filosófica de Occidente, e Capitulo XII, La doctrina implícita en el Movimento de Mayo y la filosofia tradicional, Ciudad argentina. Editorial de Ciencia y Cultura-Universidad del Salvador, Buenos Aires 2001, rispettivamente pp. 41-48 e 231-218.
(37) Francisco Elías de Tejada y Spínola, La monarchia tradizionale, trad. it., con Prefazione di Pino Tosca (1946-2001), Controcorrente, Napoli 2001, pp. 42 e 48; per le nozioni di “Rivoluzione” e di “Tradizione”, cfr. P. Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della “fabbrica” del testo e documenti integrativi, trad. it., con presentazione e cura mie, Sugarco, Milano 2009, pp. 9-28.
(38) J. P. Galvão de Sousa, Brasilianità lusitana e ispanica, cit., p. 20.
(39) Idem, Introdução à História do Direito Político brasileiro, 2a ed., Edição Saraiva, San Paolo 1962, p. 113.
(40) Cfr. Richard McGee Morse, The Heritage of Latin America, in Louis Hartz, The Founding of New Societies. Studies in the History of the United States, Latin America, South Africa, Canada, and Australia, con contributi di Kenneth Douglas McRae, R. McGee Morse, Richard N. Rosecrance e Leonard Monteath Thompson, Harcourt, Brace & World, New York 1964, pp. 123-177.
(41) Cfr. L. Hartz, The Founding of New Societies. Studies in the History of the United States, Latin America, South Africa, Canada, and Australia, cit.
(42) R. McGee Morse, op. cit., p. 165.
(43) Ibidem.
(44) Octavio Paz, Il labirinto della solitudine, 1959, trad. it., in Idem, Le opere, con Introduzione di Dario Puccini (1921-1997), UTET, Torino 1961, pp. 73-285 (p. 186).
(45) M. Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, Sugarco, Milano 2008, p. 105.
(46) Cfr. A. Caturelli, Il Nuovo Mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, cit., pp. 368-370; cfr. pure il mio Un contro-rivoluzionario cattolico iberoamericano nell’età della Rivoluzione Culturale: il “vero reazionario” postmoderno Nicolás Gómez Dávila, in Cristianità, anno XXVIII, n. 298, marzo-aprile 2000, pp. 7-16, poi raccolto nel mio Per un civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, cit., pp. 179-205, soprattutto pp. 179-185.
(47) Cfr. J. C. Ycaza Tigerino, Génesis de la independencia hispanoamericana, cit.
(48) Carlo Lapucci, Dizionario dei proverbi italiani, con Prefazione di Alberto Nocentini e con Introduzione e Bibliografia, Le Monnier, Firenze 2006, p. 1279; sintesi di una favola di Esopo, Favole, n. 32, trad. it. con testo greco a fronte, con Introduzione di Giorgio Manganelli (1922-1990) e una Premessa al testo di Emanuele Banfi, Rizzoli, Milano 2004, pp. 68-69.
(49) J. P. Galvão de Sousa, Brasilianità lusitana e ispanica, cit., p. 22.
(50) Idem, Introdução à História do Direito Político brasileiro, cit., p. 122; cfr., dello storico e diplomatico venezuelano Carlos A. Villanueva (1865-1925), La monarquía en América. Bolívar y el General San Martín, Librería Paul Ollendorf, Parigi s.d. ma 1911, p. 48.
(51) J. P. Galvão de Sousa, Introdução à História do Direito Político brasileiro, cit., pp. 121-122.
(52) Cfr. il mio L’Indipendenza iberoamericana (1806-1826): dalla “reazione istituzionale” alla guerra civile, cit., pp. 397-398 e 420-422.
(53) Cfr. il mio L’Insorgenza come categoria storico-politica, in Cristianità, anno XXXIV, n. 337-338, settembre-dicembre 2006, pp. 15-28 (pp. 20-22).
(54) J. P. Galvão de Sousa, Introdução à História do Direito Político brasileiro, cit., pp. 122-123.
(55) B. Bravo Lira, op. cit., p. 126.