Alfredo Mantovano, Cristianità n. 353 (2009)
A Roma, nell’Auditorium Parco della Musica, il 3 luglio 2009, si è tenuto un convegno sul tema La persona prima di tutto. I valori della persona nella regolazione sulla vita e nell’economia sociale di mercato, organizzato dalla Fondazione Nuova Italia e dalla Fondazione Craxi. Nell’occasione ha parlato anche l’on. Alfredo Mantovano, sottosegretario di Stato all’Interno, di cui riportiamo l’intervento.
La persona prima di tutto
Ci sono passaggi della vita di ciascuno di noi che, benché risalenti nel tempo, restano impressi nella memoria, come se fossero accaduti da pochi giorni. Sono trascorsi circa venticinque anni, ma ricordo come se fosse ieri il giorno in cui per la prima volta ho visto mia figlia; l’ho vista prima che nascesse, al terzo o al quarto mese di gravidanza, grazie all’ecografo. È stato un momento straordinario, perché a fianco all’emozione vi era anche molta razionalità: non avevo bisogno della fede per constatare che quella “cosa” che faceva le capriole, che si succhiava il dito, che tirava i calci, non era una “cosa”. Era vita, era un essere umano, era — è — una persona. Lo attestavano non la Sacra Scrittura, ma i miei occhi: la vedevo. Lo attestava l’udito: ascoltavo il battito del suo cuore. E non avevo bisogno della teologia morale per ricavare da quella toccante osservazione dei dati normativi elementari: dati che potrebbero definirsi di “diritto naturale”. Quella vita, in quanto con tutta evidenza vita di un essere umano, andava rispettata, andava aiutata a crescere, certamente non andava soppressa.
Quando si richiamano elementi di realtà per cogliere l’identità della persona, ci s’imbatte in una serie di luoghi comuni. Se scorriamo i capi di accusa che ci vengono rivolti in quanto sostenitori del diritto naturale, troviamo imputazioni di questo tipo: siete dei confessionali; avete la pretesa totalitaria di elaborare regole a tavolino e d’imporle agli altri; avete nostalgia dello “Stato etico”; ponete a rischio la libertà dell’individuo. Negli ultimi giorni si è aggiunta una variante, non originale, per la verità: chi respinge come illiberale ogni prospettiva di diritto naturale si mostra contestualmente animato da una singolare ansia moralistica. Da un lato bolla come oppressivo il lavoro teso ad agganciare l’azione politica a parametri etici oggettivi, dall’altro pretende di valutare l’azione politica sulla base dei comportamenti privati degli uomini politici — e anche delle donne politiche: e si erge a giudice inappellabile della loro moralità. Non è soltanto un paradosso: è un fatto intollerabile per chiunque abbia un minimo di buon senso.
Questi luoghi comuni partono da un presupposto altrettanto comune: quello d’intendere la libertà come scissa dalla verità, fino a renderla oggetto di una sorta di venerazione religiosa. Tutto ciò si fonda sulla mentalità — correttamente definibile come “gnostica” (1) —, secondo la quale il mondo così com’è nella sua oggettività, cioè com’è stato fatto, non va, perciò occorre cambiarlo. In questa prospettiva, però, non tutti sono in grado di fornire un contributo sostanziale in tal senso, bensì soltanto una ristretta cerchia di persone, le quali, valendosi di particolari tecniche, riescono a sanare la situazione, operando perché si giunga a un mondo redento dai limiti dai quali ora è afflitto. Si tratta di avanguardie illuminate: i giacobini negli anni successivi al 1789, i dirigenti del Partito Comunista in Russia nel 1917, i Collettivi nel 1968, e così via… E tuttavia, la considerazione degli esiti prodotti da queste esperienze storiche fa constatare come a ogni rivendicazione di libertà intesa come mito, svincolata dalla verità dell’essere, corrispondono danni e ferite per la nostra civiltà. I fatti danno ragione a una espressione tanto sintetica quanto saggia di Papa Giovanni Paolo II (1978-2005): “La libertà […] ha bisogno di essere liberata” (2).
L’opera di “liberazione” deve ricominciare dalla persona, come opportunamente suggerisce il titolo del nostro convegno. E ogni persona reca in sé un insieme di dati, dei quali mostra di avere una percezione sostanzialmente sicura: tutti sono convinti che le persone abbiano caratteristiche comuni; tutti sentono e avvertono, anche implicitamente, come vero, buono e giusto un determinato corpus di princìpi, anche se non tutti sono in grado di enuclearlo formalmente per intero. Si tratta di una condizione innata, che si pone come base per ogni crescita in termini di conoscenza e di cultura; è un sistema di giudizi che è avvertito da tutto il genere umano, come una sorta di senso comune.
Nella cultura occidentale una robusta corrente di pensiero considera non chiaramente conoscibile la legge morale naturale. Negando tale fondamento, ne cerca e ne individua uno alternativo nella “libertà”. La libertà individuale — secondo tale orientamento — dovrebbe essere limitata solo dalla libertà degli altri. Nella misura in cui rispetta tale condizione, la libertà sarebbe “giusta”. Questo mosaico di libertà, disancorato dalla legge naturale, dovrebbe essere il frutto del consenso espresso nella migliore delle ipotesi da una maggioranza, comunque da chi nella sostanza è il più forte: per esempio, dai giudici. Per uscire dalle secche, basta soffermarsi sul vincolo che lega la legge naturale alla libertà della persona. Cominciando con il dire che tale legge è chiamata “naturale” perché la “retta ragione” che la coglie è propria della natura della persona umana. Essa esprime e prescrive le finalità, i doveri e i diritti che si fondano sulla natura corporale e spirituale dell’uomo. Non è espressione di una normatività puramente biologica; costituisce l’ordine razionale in virtù del quale l’uomo è chiamato a regolare la propria vita. Essendo conforme alla ragione umana, essa accomuna ogni uomo, perciò ha carattere di universalità; è, come si usa dire oggi, “trasversale” alle diverse culture. Permane come un immutabile sostrato sotto il mutamento delle idee e dei costumi. La si può negare, ma riemerge nella vita di individui, gruppi e società.
La legge naturale pone il fondamento necessario per edificare rettamente la comunità umana; il legislatore è chiamato a trarre dai suoi princìpi le conseguenze in ordine all’elaborazione di normative rispettose della dignità della persona umana. È vero che i suoi precetti non sono percepiti da tutti con chiarezza: ma questa incertezza non è da attribuire — come spesso viene fatto indebitamente — ai contenuti oggettivi della legge naturale. È da attribuire alla difficoltà che l’uomo ha di comprenderla senza errori, unita alle difficoltà ancora maggiori che egli, dopo averla compresa, incontra nel rispettarla.
Affermare questo significa rendersi alfieri dello “Stato etico”? Non si deve confondere lo “Stato etico” con lo “Stato che riconosce l’esistenza dell’etica”. Le due nozioni non sono uguali. Lo Stato tradizionale, conforme a diritto naturale, non è assoluto, cioè solutus ab, sciolto da princìpi e da leggi morali superiori. Lo Stato ha un limite in alto costituito dalla legge naturale, che la ragione può riconoscere e che dunque s’impone a tutti, credenti e non credenti; non potrà mai, per esempio, con una propria legge ledere la vita della persona senza superare quel limite. Proprio perché lo Stato riconosce un limite in alto — un diritto che si chiama naturale perché esiste prima dello Stato, non è una creazione dello Stato e lo Stato non può cambiare — esiste anche un limite in basso: i diritti delle persone, delle comunità e dei corpi intermedi, la cui fonte è lo stesso diritto naturale.
Con la nascita della modernità gli Stati cercano di sbarazzarsi di questi limiti; cercano di diventare monarchi assoluti, “sciolti” dal limite in alto e quindi anche dal limite in basso. I consiglieri dei Principi inventano così lo “Stato etico” che non è “lo Stato che rispetta l’etica”, ma è “lo Stato che si proclama unica fonte dell’etica”. La seconda nozione è il contrario della prima, e lo Stato etico è il contrario dello Stato tradizionale. L’espressione “Stato etico” è di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) — la riprende a modo suo Giovanni Gentile (1875-1944) per il fascismo —, ma il concetto risale a Niccolò Machiavelli (1469-1527) e soprattutto a Thomas Hobbes (1588-1679). Mentre fra i successori di Hegel ci sono sia il marxismo, in una traspozione materialistica dell’hegelismo, sia il nazional-socialismo, in una trasposizione vitalistica.
Uno Stato che, fondandosi sul potere dei giudici, pretende di uccidere Eluana Englaro (1970-2009) è uno “Stato etico”: considera sé stesso e le sue leggi fonti di eticità e non riconosce l’esistenza di un diritto naturale che né il legislatore né il giudice possono violare. Se vale il principio secondo cui “lo dice la Corte di Cassazione, e quindi è morale”, ciò vuol dire che un potere dello Stato diventa la fonte dell’etica. Chi invece ha sostenuto che non si poteva uccidere Eluana non perché lo diceva la Conferenza Episcopale Italiana o il quotidiano d’ispirazione cattolica Avvenire, ma perché così facendo si violava un principio di una legge che viene prima dello Stato e che lo Stato non può né cambiare né violare, si è schierato contro lo Stato etico: in nome del principio secondo cui “anche se lo dice la Cassazione resta immorale”.
Sulle colonne di un quotidiano laicissimo, La Stampa, si è svolto un interessante dibattito fra due saggisti poco inclini a suggestioni confessionali, Barbara Spinelli e Sergio Romano (3). La Spinelli commentava l’inerzia dell’Occidente e in particolare dell’Europa, di fronte ai massacri in Bosnia, e sosteneva che la figura di riferimento dell’Unione Europea dovesse essere Ponzio Pilato: la bacinella nella quale il procuratore romano si lavò le mani poteva sostituire le dodici stelle nella bandiera dell’Unione. Sergio Romano le rispose dicendo che Pilato ben avrebbe potuto rappresentare il modello per i governanti contemporanei, a patto di non essere valutato in modo così negativo: il gesto di lavarsi le mani era in fondo una difesa della pace sociale, sia pure a scapito del riconoscimento del diritto alla vita di quella Persona che a Pilato era stato chiesto di giudicare.
Chi è Pilato? Non è il protagonista di un racconto mitologico, ma un uomo vissuto realmente, del quale conosciamo tutte le coordinate: la funzione che svolgeva, gli anni del suo governatorato, chi era la moglie e che cosa sognava la notte. Da magistrato romano è chiamato a giudicare; in particolare, è chiamato a rendere un giudizio laico, non religioso, fondato sul fatto, in ossequio al diritto del quale era interprete: da mihi factum, dabo tibi jus. E Pilato riconosce il dato obiettivo che ha di fronte; addirittura enuncia la motivazione di una possibile sentenza assolutoria, se è vero che per tre volte ripete “Io non trovo in lui nessuna colpa” (Gv. 18, 38). Riconosce, cioè, la verità, sostanziale e processuale, che balza ai suoi occhi con evidenza — come con evidenza balza agli occhi dell’ecografo la vita del concepito —; ma il dispositivo della sentenza non segue quella motivazione. Perché? Che cosa accade? Dov’è il corto circuito? Nell’interrogatorio Pilato rivolge a quell’imputato la domanda cruciale: “Tu chi sei?”. E riceve una risposta: “[…] sono venuto nel mondo […] per rendere testimonianza alla verità” (Gv. 18, 37); una risposta che certamente poteva essere l’avvio di un lungo dialogo, come quell’Uomo era abituato a fare con chi gli parlava seriamente. Ma Pilato interrompe bruscamente il discorso, con una frase che rappresenta la sintesi di ogni posizione scettica e relativistica di fronte al reale: quid est veritas? “Che cos’è la verità?” (Gv. 18, 38) Che cos’è la verità, la verità non esiste, è un’opinione, è ciò che resta dopo un talk show, è l’esito di un rapporto di forza, è un risvolto della convenienza…
Questa risposta ha delle conseguenze terribili. Dal rifiuto relativistico di cogliere la verità deriva la sentenza più ingiusta che sia mai stata pronunciata. Dal rifiuto relativistico di cogliere la verità sul concepito segue la negazione della sua permanenza in vita. Dal rifiuto relativistico di cogliere la verità su Eluana — una grave disabile, non una persona sottoposta ad accanimento terapeutico — segue la sua condanna a morte. Il relativismo non è mai innocente; spesso è omicida.
In questi giorni c’è di più: se oggi gli alfieri del relativismo dovessero interessarsi di Pilato, certamente guarderebbero a ciò che il governatore della Palestina fa nella sua camera da letto, piuttosto che alle sentenze che pronuncia. Sostituendo all’etica pubblica il moralismo ed ergendosene ad arbitri supremi. Sembra che al giacobinismo giudiziario come arma di lotta politica, che ha caratterizzato gli anni 1990, si sia sostituito il giacobinismo moralistico: spesso i protagonisti del nuovo giacobinismo riescono a essere le medesime persone di quello di dieci anni fa. Con risvolti divertenti: qualche giorno fa ho letto sulle colonne de L’Osservatore Romano un pezzo sulla morte di Michael Jackson (1958-2009); l’articolo non nasconde “il percorso umano non facile” (4) del cantante, “segnato da gravi cadute” (5), e ricorda le vicende giudiziarie connesse alle accuse di pedofilia. Ma poi aggiunge che “[…] nessuna imputazione, pur così grave e vergognosa, è stata sufficiente a scalfire il suo mito” (6).
Il criterio di valutazione è generoso: distingue i meriti artistici dalla vita personale, anche se quest’ultima ha oltrepassato le aule di giustizia. Peccato che altre testate giornalistiche, che pure si fregiano del nome di cristiane, sono molto meno generose quando si occupano di personaggi politici. Peccato che si mostrino più calviniste che cattoliche; peccato, per esempio, che facciano il tifo — un tifo acceso — per un “cattolico adulto” che va a Messa, frequenta i sacramenti, ed è probabilmente fedele alla consorte, ma — da presidente del Consiglio — ha provato a far passare i “dico”, l’eutanasia e le norme sull’omofobia; e al contrario dicano ogni sorta di male sul suo successore a Palazzo Chigi, che non si è mai vantato di rispettare tutti e dieci i comandamenti, ma era pronto a far cadere il governo pur di salvare la vita a Eluana.
Il ritorno a una sana prospettiva di diritto naturale serve a conseguire più obiettivi: grazie alla sua dimensione antropologica, crea una base di autentica collaborazione fra credenti e non credenti; grazie al suo sano aggancio alla realtà, evita derive che sono insieme relativistiche e moralistiche. La persona non viene al primo posto se non ha certezza di quei diritti che la fanno essere prima dello Stato e di ogni altra realtà.
Per i peccati — ma questo riguarda i credenti —, c’è il confessore. Ma è un’altra cosa, e la privacy è salva!
Note
(1) Cfr. Eric Voegelin (1901-1985), Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, trad. it., con una Introduzione di Francesco Alberoni, Rusconi, Milano 1990.
(2) Giovanni Paolo II, Enciclica “Veritatis splendor” circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, del 6-8-1993, n. 86.
(3) Cfr. Barbara Spinelli, Occidente. La sindrome di Pilato, in La Stampa, Torino 25-8-1995; e Sergio Romano, Elogio di Pilato, ibid., 29-8-1995.
(4) Marcello Filotei e Giuseppe Fiorentino, Ma sarà morto davvero?, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 27-6-2009.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem.