Vescovi di Taiwan, Cristianità n. 54 (1979)
Mentre fiorisce la distensione tra la Cina rossa e gli Stati Uniti, cresce il dramma di Taiwan, l’antica Formosa, questa piccola nazione, che è libera, e tale vuole rimanere. Traduciamo il testo del drammatico appello, lanciato dai vescovi di Taiwan, da La documentation catholique, n. 15, 5/19-8-1979, pp. 712-714.
Ai vescovi di tutto il mondo,
ai cristiani,
a tutti gli uomini amanti della giustizia.
Fratelli, vi auguriamo la pace che il Signore Gesù ci ha comprato con il suo sacrificio.
Sebbene i cristiani non rappresentino che una minoranza infima della popolazione che vive a Taiwan, il Signore e il collegio dei Vescovi, sotto la presidenza attiva del nostro santo Padre il Papa, ci hanno stabiliti pastori al servizio di tutto questo popolo che il Padre celeste ama e per cui Gesù nostro Signore ha sparso il suo sangue. È a questo titolo che vi indirizziamo questa lettera.
Le nostre isole ospitano una popolazione di 17 milioni di abitanti, più numerosa, cioè, di quella dell’Australia o dell’Olanda o della Svizzera, più numerosa di quella di 120 tra le 160 nazioni indipendenti del mondo. 17 milioni di uomini, di donne e di bambini che nascono e che muoiono, che vivono e che faticano, che conoscono la gioia e la sofferenza, che amano e che pregano e a cui il Signore Gesù “ha dato il potere di divenire figli di Dio“.
17 milioni di abitanti che, per la prima volta nella storia della Cina, sono riusciti, in trent’anni di lavoro tenace, a crearsi una agiatezza equamente ripartita fra tutti. Essi hanno costruito una società che non è perfetta, ma che assicura loro, il meglio possibile, una opportunità di vivere liberi e al riparo dal bisogno, di sviluppare i loro talenti, di progredire ognuno secondo la propria coscienza e di rispondere all’appello del Padre. “L’uomo nella sua compiutezza è la gloria di Dio“.
17 milioni di persone la cui sorte è in gioco. Il nostro popolo, infatti, da poco è stato gettato nell’incertezza; il destino che si era forgiato con un lavoro senza posa gli sfugge, egli diviene vittima di rivalità che lo superano, nella indifferenza di una opinione pubblica apatica e insensibile. I mezzi politici e diplomatici per esprimersi gli sono tolti a poco a poco; le assemblee culturali, scientifiche, sportive, ecc. della comunità delle nazioni gli sono chiuse; egli si vede avviato contro la propria volontà a un processo di distruzione.
Prima che sia troppo tardi, la voce dei pastori deve esprimere al mondo l’angoscia del loro popolo.
Ognuno sa che trent’anni fa, nel 1949, il regime di Pechino prese il potere sul continente cinese. Grazie alla propria insularità, la provincia di Taiwan ha potuto sfuggire alla sorte delle altre province della Cina. Circa due milioni di profughi dal continente vi hanno raggiunto una popolazione locale di otto milioni. Insieme, e con l’aiuto di paesi amici, abbiamo valorizzato questo territorio al punto di farne oggi un paese sviluppato la cui popolazione è quasi raddoppiata.
Mentre un grande numero di governi del mondo libero continuava a riconoscere la nostra legittimità, la situazione geografica delle nostre isole è bastata a preservare la nostra libertà fino al momento in cui, nel 1954, gli Stati Uniti sono venuti a garantirla con un trattato di reciproca difesa.
Nel corso degli anni, uno dopo l’altro, i governi del mondo libero hanno cessato di riconoscerci, per stabilire relazioni diplomatiche con Pechino, e, nel 1971, le Nazioni Unite hanno deciso di escluderci dalle loro assemblee. La nostra popolazione ha reagito con coraggio ed energia a tale progressivo isolamento politico, diplomatico e culturale, nella fiducia che la comunità delle nazioni non ci avrebbe rifiutato la possibilità di sopravvivere nella libertà. Fiducia tanto più naturale dal momento che noi abbiamo sempre contribuito per parte nostra a una fraterna solidarietà internazionale: ne testimonia l’aiuto tecnico che rechiamo da anni ad altri paesi in via di sviluppo, o ancora i soccorsi che, senza nessun sostegno da parte delle Nazioni Unite, offriamo largamente ai profughi dal Vietnam.
Infine e recentissimamente gli Stati Uniti, che garantivano la nostra libertà, hanno deciso di rompere le relazioni diplomatiche con il nostro governo e di porre termine al trattato di reciproca difesa. Come la maggior parte degli altri governi che hanno riconosciuto Pechino, essi hanno dichiarato che “Taiwan fa parte della Cina“. Con questa affermazione ambigua, la “questione di Taiwan” diviene un “affare interno” della Cina, il cui solo governo riconosciuto è quello di Pechino. Il titolo legale di Taiwan è rimesso a Pechino e la nostra popolazione è abbandonata, contro la propria volontà, in balia di un regime totalitario che essa aborre.
Tale regime controlla una popolazione cinquanta volte più numerosa della nostra, occupa un territorio trecento volte maggiore di Taiwan e dispone di enormi risorse. Ogni vantaggio economico e militare che ancora ci viene riconosciuto non può che venire meno di fronte a una tale potenza. Per paura di offendere Pechino, il mondo libero oggi esita a garantire la nostra libertà con qualche cosa di più solido che non delle dichiarazioni. Che cosa farà il giorno in cui questo “affare inferno” sarà liquidato a spese della nostra libertà?
È del tutto naturale che questa situazione getti l’inquietudine nei nostri cuori: la nostra sorte sembra segnata, tra l’indifferenza generale; il dubbio è tra noi e rischia di minare il nostro sforzo collettivo. E tuttavia noi rifiutiamo di perdere coraggio.
Uniti in un solo cuore con la nostra popolazione, non riconosciamo che una sola Cina, una sola cultura, una sola nazione, un solo territorio, ma ricusiamo con tutte le nostre forze il regime che asserve i nostri fratelli sul continente. Di fronte alla sorte che ci minaccia affermiamo la nostra volontà di fare tutto ciò che è in nostro potere per preservare la nostra libertà e quella delle nostre famiglie. Vi chiediamo di cercare di capire ciò che è in gioco per noi.
Noi non ricerchiamo nessun privilegio, non domandiamo nessun favore, non cerchiamo di sfuggire alle sofferenze comuni all’umanità. Ciò che vogliamo è, molto semplicemente, che non ci venga strappato il diritto inalienabile di ogni uomo di vivere libero e secondo la propria coscienza. Con la nostra fatica siamo riusciti a costruire una società ancora tanto imperfetta, ma che offre a ciascuno di noi la possibilità di essere sé stesso nel rispetto degli altri. Vogliamo difendere questa società per noi e per i nostri figli e, se un giorno ciò sarà possibile, offrirne il modello ai nostri compatrioti del continente.
Noi non indietreggiamo di fronte ai sacrifici che il servizio agli altri ci impone. Non abbiamo paura di mutare il nostro stile di vita, le nostre abitudini, il nostro agio, se l’interesse dei nostri fratelli, in particolare l’interesse dei più piccoli tra i nostri fratelli, lo esige. Ognuno sa che il popolo cinese è capace di sopportare grandi sacrifici, e la nostra storia secolare, dai due lati dello stretto di Taiwan, ne è una prova incessante. La povertà, che abbiamo tanto recentemente vinta, non ci spaventa, anche se essa ci viene reimposta ingiustamente. Possiamo sopportare l’oppressione materiale, le privazioni più dure, i soprusi e la stessa ingiustizia. Ciò che non vogliamo è che ci sia tolta la libertà di pensare ciò che la nostra intelligenza e la nostra coscienza ci mostrano essere vero, la libertà di ascoltare la voce di Dio in noi e di conformarvi la nostra vita.
Non sono dunque né il materialismo né la ricerca degli agi né l’egoismo a spingerci. È semplicemente il desiderio di vivere come esseri umani a cui la filiazione di Dio è aperta, e di assicurare la medesima vita ai nostri figli.
Noi rifiutiamo di divenire bestiame umano. Rifiutiamo di farci dettare i nostri pensieri, in spregio della dignità che il Creatore ha posto in noi. Rifiutiamo di essere trasformati, contro la nostra volontà e la nostra coscienza, in marionette di una ideologia falsa che respingiamo. Sappiamo, per l’esperienza personale di un grande numero di noi, che tale è la sorte che ci attende, se la nostra determinazione si piega o se il mondo ci abbandona.
La stampa occidentale si fa attualmente portavoce di un movimento di “democratizzazione” del regime di Pechino. La nostra esperienza, più vicina ai fatti, ci ricorda che movimenti simili appaiono regolarmente sul continente cinese e segnalano una repressione più stretta. Essi sono intrapresi nella linea della dialettica hegeliana e mirano sempre ad accrescere la presa del regime sulla popolazione. Una vera liberazione della persona umana sarebbe la negazione del regime, e molti anni sarebbero necessari per accertarsi della credibilità di un mutamento tanto radicale.
Non ci aspettiamo che la nostra situazione muti dall’oggi al domani. Il processo durerà tutto il tempo necessario perché l’opinione pubblica non sia troppo violentemente urtata e non reagisca. Ma, una volta avviato, si manifesterà irreversibile.
Ci viene chiesto anzitutto, innocentemente, di dialogare. La saggezza popolare cinese chiama questo: “tirare baffi alla tigre”, e una esperienza triste e ormai lunga ci mostra che questo “dialogo” conduce inevitabilmente all’asservimento totale e incondizionato.
Si possono, onestamente, chiudere gli occhi su ciò che è accaduto in ognuno dei paesi dell’Europa orientale dopo la seconda guerra mondiale? Si può, onestamente, dimenticare il Vietnam, in cui furono, ogni volta, aggirati gli accordi più solenni, garantiti da grandi potenze, fino alla caduta finale di un popolo che rifiutava di sottomettersi all’ideologia totalitaria di una minoranza? Si può ignorare che gli abitanti di tale regione, che hanno eroicamente sopportato trent’anni di una guerra orribile e inumana, sono incapaci di sopportare l’oppressione di questa ideologia e, con rischio realissimo della loro vita, fuggono dalla loro patria a centinaia di migliaia? I fatti sono troppo numerosi perche sia possibile nasconderseli.
Quando una porta o una finestra si apre al tifone, è tutta la casa che in breve è portata via. La nostra stessa esperienza nazionale, tante volte ripetuta, ci dimostra abbondantemente che socchiudere la porta al dialogo, che ci viene chiesto ancora una Volta, significa in definitiva consegnarsi, mani e piedi legati, all’interlocutore senza scrupoli. Il mondo è disposto a raccogliere domani diciassette milioni di profughi? Non sarebbe più semplice e più umano impedire tale catastrofe?
D’altronde, perché forzarci a mercanteggiare la nostra libertà, mentre la possediamo pienamente, e, con l’aiuto dei nostri amici, essa potrebbe agevolmente essere difesa?
Nei prossimi mesi ci aspettiamo “gesti fraterni” che arriveranno forse fino a “chiedere il nostro aiuto” per la modernizzazione della madrepatria. Il fine di tali gesti è quello di distruggerci, se noi li accettiamo; e di rivolgere l’opinione mondiale contro di noi, se li rifiutiamo.
Se accettiamo il contatto, se ne approfitterà per eroderci seminando la zizzania tra noi. Ogni società contiene semi di “contraddizione“, ed esacerbarli fino al punto di provocare conflitti e scontri è una tattica ben nota. Ogni contatto con noi mirerà a tale scopo, così da screditarci agli occhi del mondo e da farci cadere come un frutto maturo, privati di ogni sostegno esterno.
Se non accettiamo il contatto, sarà la “prova” che non siamo ragionevoli, che rifiutiamo la mano tesa, e che l’unica soluzione possibile è quella di sottometterci con la forza.
Come potrebbe l’opinione pubblica, dalla memoria tanto corta, capire tale gioco infinitamente sottile e perverso? In un caso, non verremo trovati degni di essere difesi, poiché siamo in disaccordo tra noi. Nell’altro, si dirà che non raccogliamo se non ciò che abbiamo seminato, poiché siamo tanto poco concilianti.
La nostra esperienza passata e l’ingranaggio di distruzione in cui ci troviamo presi, ci permettono di vedere chiaramente la situazione. Disgraziatamente, molti guardano soltanto al momento presente, ciechi per un processo che si svolge lungo mesi o anni.
Il pericolo può sembrare lontano, ma noi sappiamo che una volta messo in moto l’ingranaggio non si fermerà più e ci schiaccerà senza scampo. La tattica consiste precisamente nel tessere a poco a poco attorno a noi una tela che impedirà effettivamente ai nostri amici di aiutarci quando il pericolo sarà divenuto manifesto.
Già oggi, su un altro registro, la propaganda avversaria mira ad alienarci l’opinione così come a turbare la nostra popolazione, gettando il dubbio sul nostro governo, mettendo in discussione il valore del nostro sforzo collettivo, ingrandendo i punti ancora deboli delle nostre realizzazioni. Costruire una società è opera lunga, dal risultato sempre imperfetto; criticarla e distruggerla sono cose facili.
Attività distruttrici di infiltrazione rischiano di indurire il nostro indispensabile apparato di sicurezza, cosa che ci verrà subito ipocritamente rimproverata. E tante altre tattiche, sia riprese da un passato recente, sia inventate per circostanze nuove, saranno applicate per screditarci e distruggerci.
È di importanza cruciale per noi che l’opinione pubblica mondiale sia illuminata nella verità e possa rendersi conto di ciò che accade realmente. Solamente una attenzione costante permetterà di sventare tali tattiche pericolose che vogliono prenderci in una rete mortale.
Siamo stati stabiliti pastori per condurre il nostro popolo, tutto il nostro popolo, fino al Padre. E per questo, la nostra missione è di proteggere la dignità della persona umana creata a immagine e a somiglianza di Dio. Ma siamo membri di una minoranza insignificante che un regime totalitario, che non tollera nessun pensiero se non il suo, farà presto a ridurre all’impotenza totale, impedendoci definitivamente di compiere la nostra missione. È per questo che ora dobbiamo parlare, nella speranza di impedire che le tenebre scendano sul nostro popolo.
Ci rivolgiamo a tutti i nostri fratelli nell’episcopato. Successori degli apostoli, il Signore vi ha affidato una responsabilità universale. Non permettete che una parte dell’umanità, per quanto piccola possa sembrarvi, sia abbandonata a una condizione di schiavitù della mente e dello spirito indegna di uomini creati da Dio e salvati dal sangue di Gesù Cristo. Non permettete che sia loro strappata l’anima e che sia schiacciata la luce della coscienza che il Creatore ha acceso in essi.
Ci rivolgiamo anche a tutti coloro che si richiamano a Cristo, unico salvatore del genere umano. In nome del Signore, fate tutto ciò che è in vostro potere perché il nostro popolo non cada nell’asservimento distruttore a cui si vede abbandonato.
In nome della fraternità umana facciamo appello a tutti gli uomini che amano la giustizia e la verità. I nostri sapienti di un tempo ci hanno raccomandato di non fare agli altri ciò che non desideriamo sia fatto a noi. Nessuno tra voi desidera che lo si lasci cadere in un servaggio senza scampo; non lasciate dunque che diciassette milioni di vostri fratelli subiscano tale sorte.
A ciascuno di voi, chiediamo particolarmente di cercare di capire e di far capire, con tutti i mezzi a vostra disposizione, il vero significato delle situazioni e degli avvenimenti che ci colpiscono così duramente, e insieme di agire nella giustizia per risparmiarci la sorte che ci minaccia.
Siamo nelle mani di Dio e insieme nelle mani dei nostri fratelli. Che il Signore, che ci chiede di amarci gli uni gli altri, vi benedica per la vostra comprensione e la vostra carità fraterna.
Il nostro popolo è pronto a difendere la propria libertà e ad affrontare il proprio destino. Benché nessuno possa esporsi alla tentazione, come cristiani siamo pronti anche a salire sulla croce se tale è la volontà del Signore. Ciò a cui diciamo “no“, ciò che vi chiediamo di impedire con tutte le vostre forze, è la distruzione di ciò che fa di noi degli esseri umani, Il Creatore ci ha affidato una scintilla di libertà che ci fece uomini e, in conformità con la sua volontà, abbiamo il dovere di difenderla e di farla crescere, di non permettere mai che la si distrugga.
Ma il nostro sguardo di pastori si porta ancora più lontano. Oltre e attraverso i disegni limitati dell’uomo discerniamo la venuta del regno, il sacrificio universale del Signore che fonda la nostra speranza, l’amore proveniente dal Padre che trasfigura i nostri sforzi e le nostre angosce. Qualunque sia il risultato dei nostri tentativi, qualunque sia la sorte che gli uomini ci riservano, noi sappiamo che nulla può impedire la vittoria del Signore sul male. Con tutta la nostra anima speriamo di attraversare il deserto presente con il nostro popolo tutto, e di scoprire, oltre, il volto d’amore del nostro Padre.
Taiwan, 20 marzo 1979
Matthew Kia Yen-Wen, arcivescovo di Taipeh
Joseph Kuo, della Congregazione dei Discepoli del Signore, arcivescovo titolare di Salamina, pro-presidente della Regional Episcopal Conference of China.
Stanislaus Lokuang, arcivescovo già di Taipeh, rettore magnifico della Fu Jen Catholic University
Petrus P. Z. Tou, vescovo di Hsinchu
William Francis Kupfer, vescovo di Taichung
Josepk Ti-Kang, vescovo di Kiayi
Paul Cheng, vescovo di Tainan
Joseph Cheng Tien-Siang O.P., vescovo di Kaohsiung
Joseph Wang Yu-jung, vescovo ausiliare di Taipeh, vescovo titolare di Ard Sratha
Tkomas Pai Cheng-lung, amministratore apostolico delle Isole Penghu