Don Pietro Cantoni, Cristianità n. 380 (2016)
La fretta è nemica della preghiera affermano con unanimità tutti i maestri di preghiera della tradizione cristiana. Ma è nemica anche della teologia, posto il legame profondo, direi strutturale, che intercorre fra l’una e l’altra. Non solo della teologia praticata dai «professionisti», cioè dai teologi, ma anche di quella propria di qualunque fedele nella misura in cui riflette sulla propria fede e sul rapporto che questa ha con le vicende di questo mondo. Ho sempre ammirato mio fratello Giovanni per la dedizione e l’acribia con cui leggeva i documenti del magistero della Chiesa: mi ha sempre detto che andavano letti con attenzione almeno due volte. E sono testimone che così ha sempre fatto.
A questa assenza di fretta fa riferimento Papa Francesco all’inizio del documento che voglio qui presentare (1): «A causa della ricchezza dei due anni di riflessioni che ha apportato il cammino sinodale, la presente Esortazione affronta, con stili diversi, molti e svariati temi. Questo spiega la sua inevitabile estensione. Perciò non consiglio una lettura generale affrettata» (n. 7).
Con questa inevitabile premessa affronto l’argomento saltando anche solo un tentativo di presentazione generale e dettagliata per andare subito ai punti «critici». Metto però in guardia dal considerarli come tali da esaurire l’argomento che i vescovi e il Papa intendono trattare. Scopo del documento è celebrare la bellezza del matrimonio cristiano con il suo ineliminabile carattere d’indissolubilità e di apertura alla vita (2). All’interno di questo argomento e in stretta dipendenza da questa intenzione vanno letti il capitolo ottavo, «Accompagnare, discernere ed integrare la fragilità», e in particolare i paragrafi dal n. 300 al n. 312.
Qualcosa è cambiato
La prima osservazione da fare è proprio questa: qualcosa di «critico» sembra esistere. Una lettura che qualcuno potrebbe chiamare «normalistica» del documento, che cioè pretendesse che «non è cambiato nulla», anche se proposta da persone autorevoli e certamente intenzionate a fare il bene della Chiesa e del Magistero, preservandolo da ipotetiche critiche, non rende completamente ragione del testo. Questo anche a lume del solo buon senso: non si convocano due sinodi dei vescovi, conducendo discussioni animate e accese per due anni al solo scopo di lasciare tutto esattamente come prima. È il senso profondo dell’espressione «riforma nella continuità» proposta da Papa Benedetto XVI (2005-2013) il 22 dicembre del 2005 come chiave di lettura del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Non semplicemente «continuità», ma «riforma nella continuità». Riformare vuol dire cambiare. Non cambiare tutto, passando da un tutt’altro a un tutt’altro, perché questa sarebbe una rottura, ma certamente sviluppando. «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma» (3). Quando vi è una riforma vi è un «insieme di continuità e discontinuità», in cui la continuità e le discontinuità si situano «a livelli diversi»: la continuità a livello «sostanziale», le discontinuità a livello «accidentale». Il tema dello «sviluppo» è sempre stato presente nella consapevolezza della Chiesa: oggi però è diventato un tema centrale, su cui abbiamo un «dottore», che è il beato cardinale John Henry Newman (1801-1890) (4).
Se quindi risulta insufficiente a comprendere il testo una interpretazione «normalistica», affrontiamo allora la «novità». Cerchiamo d’individuarla e d’interpretarla alla luce della «riforma nella continuità». La novità consiste innanzitutto nell’individuare come ultima istanza insuperabile e ineliminabile il giudizio che si svolge nel contesto del sacramento della riconciliazione, la confessione. Il contesto che rende comprensibile questo sviluppo è il fatto, l’«evento», costituito dall’avere, per la prima volta nella storia, un Papa gesuita. Ci è certamente nota l’importanza del ministero che i gesuiti hanno svolto nella storia proprio in quanto confessori: per convincercene basta una lettura anche superficiale delle Lettere provinciali di Blaise Pascal (1623-1662) (5). La confessione frequente, che tendeva di suo a evolvere in direzione spirituale, è diventata un pezzo forte di quella spiritualità moderna che ha visto accomunate personalità così diverse, ma comunque profondamente simili e amiche, come sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) e san Filippo Neri (1515-1595). Il sacramento della confessione diventa un sacramento centrale nella vita concreta della Chiesa e di tanti suoi figli.
Papa Francesco afferma che non vi è da aspettarsi che la soluzione alla complessità e alla varietà delle situazioni venga da norme generali che vadano bene per tutti i casi: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete […] è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi» (n. 300). Si tratta di un dato di fatto di tutti i tempi, però particolarmente urgente ed evidente nell’epoca di transizione che stiamo vivendo, nel momento in cui una civiltà è morta e si stanno creando le condizioni di una rinascita. Questa «novità» contenuta nell’esortazione non annulla la norma, così come rimane indicata nel n. 1650 del Catechismo della Chiesa Cattolica, ma ne costituisce una deroga, una eccezione a fronte di casi particolari, che peraltro sono in aumento nell’attuale situazione in cui si trovano le famiglie nel mondo occidentale.
Vi è una legge non scritta che ha sempre costituito una norma pratica per tutti i confessori, ritenuta così importante da diventare una domanda classica da porre al sacerdote che affronta l’esame previo per ottenere il permesso di confessare. Questa norma si trova pressoché in tutti i manuali di teologia morale di indirizzo neoscolastico. La riporto nella formulazione con cui è accolta in un documento recente di un organismo della Santa Sede: «[…] è da ritenere sempre valido il principio […] secondo il quale è preferibile lasciare i penitenti in buona fede in caso di errore dovuto ad ignoranza soggettivamente invincibile, quando si preveda che il penitente, pur orientato a vivere nell’ambito della vita di fede, non modificherebbe la propria condotta, anzi passerebbe a peccare formalmente» (6).
Questa ignoranza non va confusa con la pura ignoranza dell’esistenza della legge. «Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale”» (n. 301). Molto spesso la persona può conoscere l’esistenza della norma, ma essere nella condizione di non capirla, di non coglierne il valore intrinseco. Negli Esercizi di sant’Ignazio ciò costituisce un passaggio essenziale, che però richiede tempo, preghiera e accompagnamento: «[…] pesare i peccati stessi, vedendo la bruttezza e la malizia intrinseca che ogni peccato ha in sé, anche se non fosse cosa proibita» (7).
È importante cogliere il valore di questa «norma non scritta», distinguendola accuratamente da posizioni dottrinali che vi assomigliano ma se ne distinguono radicalmente per il loro carattere ideologico.
Ciò non ha niente a che vedere con la «morale della situazione». Questa dottrina, condannata dal venerabile Pio XII (1939-1958) (8), sostiene che il valore morale di un atto umano è specificato dalla situazione. Cioè, in altri termini, non esiste un atto «essenzialmente cattivo», intrinsecamente tale, perché le situazioni sono sempre variabili e non toccano mai l’essenza.
Un atto umano è invece specificato nel suo valore morale dall’obiectum formale, cioè dall’oggetto in quanto scelto dal soggetto. Non è il puro oggetto nella sua fisicità e nella sua materialità a determinare il valore morale di un’azione, ma in quanto è scelto da un soggetto libero. La libertà di un soggetto umano non è mai assoluta, ma sempre limitata da tanti condizionamenti che tuttavia non l’annullano: l’uomo è sempre condizionato ma non cessa per questo di essere libero. Se il condizionamento è tale da togliergli completamente la libertà, non ci troviamo davanti a un atto umano, ma solo a un atto dell’uomo. Per ignoranza invincibile s’intende una non-comprensione insuperabile al momento.
Un giudizio su questa situazione non può essere portato da una norma astratta in sé stessa, ma dalla valutazione concreta che è chiamato a esercitare il confessore. Questo fatto è sempre stato presente alla coscienza di fede della Chiesa, anche se non sempre con la stessa consapevolezza. Oggi il Papa — che vuol tenere ben saldi «i piedi per terra» (n. 6) — ci invita a prenderne una rinnovata e approfondita consapevolezza. Esso non appartiene soltanto e in modo esclusivo alla consapevolezza di fede della Chiesa. Da sempre infatti si è stati convinti che una confessione per lettera o per telefono o mediante un’applicazione informatica (9) non può essere valida. Ma la sua invalidità ha un fondamento solo ed esclusivamente soprannaturale o ha radici anche nella natura delle cose, in modo da poter essere colto analogicamente dalla ragione illuminata dalla fede? Il cardinale Attilio Nicora ha scritto un libro molto interessante su un argomento affine (10). Un processo non si può esaurire solo in un confronto di scritti, in una deduzione meramente teorica, ma richiede sempre un giudizio portato nel concreto, all’insegna di una juris-prudentia, non solo di una juris-scientia. Un giudizio non si può risolvere solo mediante il confronto «astratto» con delle norme scritte, ma nel rapporto concreto e vivente con un giudice in carne e ossa che autorevolmente le interpreta e le applica.
Deve essere accuratamente distinto da un’impossibile «duplicazione» della legge, cioè fra una legge ideale applicabile solo ai perfetti e una legge limitata applicabile solo ai deboli. Non esiste la «gradualità della legge», ma la «legge della gradualità». Non esiste «una doppia morale», ma un approccio umano graduale all’unica morale, nella continua e perseverante ricerca della perfezione.
«Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cfr. Familiaris consortio, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa. Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un Pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale» (n. 300).
Il sacerdote nel sacramento deve prendere per mano il soggetto là dove si trova e condurlo pazientemente a una crescita nella comprensione del valore e, soprattutto, nell’apertura alla potenza trasformante della grazia, cioè della misericordia divina. La «soggettività» e la realtà a essa strettamente collegata della «coscienza» sono un valore che proprio la rivelazione cristiana ha scoperto e valorizzato. Anche qui vi è il rischio che questo immenso valore venga trasformato in una «verità impazzita»: quella della coscienza soggettiva come creatrice del valore. Qui è importante scoprire o riscoprire il valore di una «interiorità oggettiva» (11). L’oggettività non è garantita soltanto da una sentenza pubblica, ma può e deve essere garantita dalla scoperta della verità in interiore homine, guidati dall’autorità della Chiesa — il confessore — ed eventualmente aiutati dalla grazia del sacramento dell’Eucaristia.
Un po’ di «casistica»
Proprio per tenere i piedi per terra e per sottrarre il nostro discorrere al rischio di un’astrazione fine a sé stessa è forse necessario fare qui un po’ di casistica. La pratica dei casi di morale era una volta abbastanza diffusa fra il clero e aveva la funzione di allenare la mente, e il cuore, del confessore a esercitare la virtù della prudenza, che consiste nell’applicare i princìpi immutabili ed eterni al variare imprevedibile delle situazioni concrete.
Il caso concreto di un divorziato risposato presenta delle variabili molto significative. Vi può essere il caso di chi è stato ingiustamente abbandonato, di chi si è sposato senza una sufficiente maturità o senza una fede viva e che ora si trova legato civilmente con un’altra persona, con cui ha avuto dei figli. Tornare alla situazione precedente gli è impossibile perché il suo sposo o la sua sposa si è unito a un’altra persona con cui ha avuto altri figli. Tutti sappiamo che casi come questi sono molto reali e assai diffusi (12). Ora questa persona è stata protagonista di un riavvicinamento alla fede. In molti casi si tratta di un’autentica conversione. Che fare? Il confessore — o anche il laico che si trova a esercitare l’opera di misericordia spirituale consistente nel «consigliare i dubbiosi» — ha davanti diverse possibilità: la prima e la più ovvia è quella d’indirizzare la persona a un riesame attento della validità del precedente matrimonio.
Il Papa a questo proposito ha già provveduto a facilitare il percorso legale, a fare un concreto appello perché l’assistenza sia gratuita e a investire di una nuova concreta responsabilità i vescovi diocesani: «[…] un gran numero di Padri “ha sottolineato la necessità di rendere più accessibili ed agili, possibilmente del tutto gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità”. La lentezza dei processi crea disagio e stanca le persone. I miei due recenti Documenti su tale materia (13) hanno portato a una semplificazione delle procedure per una eventuale dichiarazione di nullità matrimoniale. Attraverso di essi ho anche voluto “rendere evidente che lo stesso Vescovo nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati”» (n. 244).
A volte ci si trova di fronte a una persona soggettivamente convinta della nullità del suo precedente matrimonio. Qui però occorre guardarsi dalla tentazione di puntare tutto su questa convinzione soggettiva, perché il matrimonio è un atto pubblico e tale sempre deve rimanere. L’estensione enorme dei casi di nullità matrimoniale è qualcosa di assolutamente evidente. Questa via non è però tale da costituire una soluzione plausibile di tutti i casi dolorosi che s’incontrano. Il rischio che si dia spazio in questo modo a quello che è stato chiamato un «divorzio cattolico» mascherato da riconoscimento di nullità è tutt’altro che remoto. Qualche teologo ha proposto il ricorso alla pratica orientale dell’«economia» per cui il matrimonio rimane indissolubile, ma si può ricorrere a un secondo «matrimonio» di carattere penitenziale. Il Papa non ha imboccato questa via: essa non rientra nella tradizione teologica e spirituale latina e ha dato origine di fatto nelle chiese orientali a uno scivolamento in senso lassista e divorzista assai pericoloso (14).
San Giovanni Paolo II (1978-2005) ha aperto un’altra via possibile: quella di consigliare ai coniugi che si trovano in questa situazione irregolare la pratica della castità, cioè di «vivere come fratello e sorella» (15). Una via difficile, ma certamente possibile e molto bella. Papa Francesco però ricorda molto realisticamente gl’inconvenienti che a essa possono essere connessi. In primo luogo deve essere vissuta di comune accordo e presenta comunque il rischio di minare la stabilità e unicità del rapporto: «[…] molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, “non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli”» (n. 298, nota 329).
Il Papa a questo punto apre una nuova via: quella di astenersi dal considerare come obbligo tassativo la separazione dalla persona con cui si condivide una seconda unione, perché potrebbe coincidere in concreto con il tentativo di risolvere un male con un altro male. Se qualcuno, per esempio, si è anche macchiato della colpa grave di aver distrutto un matrimonio canonicamente valido e ha contratto una nuova unione irregolare da cui sono nati dei figli, può ritrovare il perdono di Dio e la sua grazia pur rimanendo, per il bene dei figli, all’interno di questa stessa unione. «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato — che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno — si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (n. 305). Ciò non potrà non avere conseguenze anche sul piano dell’ammissione all’eucaristia, che peraltro — insegna l’Amoris laetitia — non sarà mai automatica, quasi si trattasse di un diritto, ma il risultato di un prudente discernimento del caso particolare da parte dei pastori.
Qual è questa «situazione oggettiva di peccato» non «soggettivamente colpevole» o comunque non colpevole «in modo pieno»? Ricordiamoci l’esempio concreto che stiamo esaminando: una persona legata a un matrimonio canonicamente valido che ha contratto una nuova unione nella quale ha avuto dei figli. Poniamo il caso che la rottura precedente sia colpevole: da questo peccato può essere perdonato. Ora rimane nell’unione irregolare per il bene dei figli. Questo fatto non è soggettivamente peccaminoso, lo rimane solo oggettivamente. Benché la questione sia dibattuta fra teologi e canonisti, si può sostenere — era la posizione del grande teologo Melchior Cano (1509-1560) — che un matrimonio puramente civile contratto fra battezzati, se da una parte non coincide in modo assoluto con il sacramento, dall’altra non è un semplice concubinato (16). Consigliare a un divorziato risposato, che ha già sulla coscienza la rottura di una unione, di frantumare anche la nuova unione irregolare o di viverla «come fratello e sorella», non si rivela sempre un buon consiglio. Per rimediare a un male talora se ne farebbe un altro. «Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa» (n. 301).
Un caso completamente diverso è quello di chi abbandona il proprio legittimo coniuge per unirsi a un’altra persona mentre il coniuge abbandonato, magari con figli, sarebbe anche disposto molto caritatevolmente ed eroicamente a perdonarlo e riaccoglierlo. «Altra cosa invece è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia» (n. 298). Qui il consiglio giusto è quello di ritornare alla precedente unione. Il rifiuto della comunione deve essere visto come una sanzione più che legittima, direi doverosa, per sottolineare la gravità del comportamento tenuto e spingere chi se ne è reso responsabile alla conversione (cfr. 1Cor. 5,5). Anche l’integrazione nella comunità ha, in questo caso, dei limiti oggettivi, proprio per il vero bene del peccatore. «Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione. Ma perfino per questa persona può esserci qualche maniera di partecipare alla vita della comunità: in impegni sociali, in riunioni di preghiera, o secondo quello che la sua personale iniziativa, insieme al discernimento del Pastore, può suggerire» (n. 297). Chi si comporta pubblicamente male e soprattutto chi teorizza la presunta bontà oggettiva di una situazione contraria alla verità, perde, per così dire, la «patente» a proporsi come maestro di verità cristiane. Ma anche per lui il Papa riconosce oggettive possibilità di «inclusione».
Sant’Ignazio, quando, negli Esercizi spirituali, parla dell’«elezione», cioè del modo corretto di esercitare la propria libertà soprattutto nella scelta dello stato di vita a cui Dio lo chiama, ma non solo, parla di elezioni immutabili e mutabili. Sulle elezioni immutabili, cioè su quelle scelte che sono ormai divenute non più rivedibili, per loro natura o anche per quella oggettiva situazione che si è creata magari per propria colpa nella vita, non è bene ritornare. Sarebbe un’inutile sorgente di scrupoli. Bisogna solo prendere atto della situazione (factum infectum fieri nequit, non è possibile che un fatto non sia avvenuto) e vedere come muoversi in essa alla luce della volontà di Dio che è sempre colma di misericordia. Così, per esempio, chi a suo tempo aveva capito che Dio lo voleva religioso o sacerdote e ha volontariamente rifiutato la chiamata di Dio per sposarsi, non deve assolutamente cambiare stato di vita ma vivere in quello stato in cui si trova. Unica eccezione possibile è quella di accedere allo stato religioso o allo stato sacerdotale con il pieno, consapevole e convinto accordo dell’altra parte, una volta che gli eventuali figli siano divenuti pienamente indipendenti. Così non ha senso che chi ha divorziato e si è risposato rompa anche la nuova unione, soprattutto se ci sono figli, perché sarebbe un cercare di rimediare al male aggiungendo un nuovo male. Può, se la persona con cui si è nuovamente unito è d’accordo e se, dopo attento esame, percepisce una chiamata di Dio a questo, scegliere di vivere l’amore nella castità, imboccando così un ottimo percorso di conversione e di santità.
Il Papa propone con sufficiente chiarezza questi percorsi come «possibili», non come obbligatori, in virtù della sua autorità magisteriale. Il suo magistero si esercita però nel ritenerli come «possibili», per cui chi ritenesse di non percorrerli e di consigliare di non percorrerli deve guardarsi dall’affermare che essi sono impossibili. Per farlo dovrebbe invocare un’impossibilità di fede, una «eresia», che certamente non c’è.
Il matrimonio indissolubile al Concilio ecumenico di Trento
Che il sacramento del matrimonio sia indissolubile è una verità di fede, che in concreto non possano esistere situazioni in cui una nuova unione non possa essere tollerata non lo è. Nella XXIV sessione del Concilio di Trento (1545-1563) si è discusso a lungo sul matrimonio con l’intento di trovare una formula vera ed efficace con cui condannare l’errore dell’agostiniano Martin Lutero (1483-1546), che rifiutava la sacramentalità del matrimonio. Si giunse infine a una formula in cui l’indissolubilità del matrimonio è affermata solo indirettamente, mentre direttamente è considerata inerrante la prassi della Chiesa: «Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando ha insegnato e insegna, secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli, che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio di uno dei coniugi; che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente l’altro coniuge; che commette adulterio il marito che, cacciata l’adultera, ne sposi un’altra, e la moglie che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia anatema» (17).
Uno studio approfondito degli atti del concilio tridentino mette in luce che il canone è frutto di un compromesso fra la volontà d’insegnare l’inerranza dell’insegnamento della Chiesa e della sua prassi quando, appoggiandosi alla dottrina delle sacre Scritture, ha insegnato l’assoluta indissolubilità del sacramento del matrimonio e la concomitante volontà della maggioranza dei vescovi di non condannare la prassi dei greci che, pur condividendo la sacramentalità e l’indissolubilità del matrimonio, ammette possibili eccezioni. La coscienza del carattere particolare e indiretto della formula scelta dal concilio è sempre stata presente nella Chiesa. Più recentemente, tuttavia, sono stati fatti studi approfonditi di carattere storico-dogmatico che hanno portato a una più accentuata consapevolezza di questo fatto.
Il padre gesuita belga Piet Fransen (1913-1983) ha dedicato numerosi studi alla formula usata in questo canone e quindi alla sua corretta qualificazione dogmatica a partire dalla sua tesi di dottorato all’Università Gregoriana nel 1947 (18). In essi sottolinea che è direttamente in gioco l’autorità della Chiesa per cui «lo stato di ribellione nei confronti della Chiesa non era certamente ortodosso e conforme al Vangelo» (19). «Non si può sottolineare a sufficienza come questo rifiuto dell’autorità della Chiesa appartenesse all’essenza dell’atteggiamento dei riformatori» (20). Nella discussione si tratta «[…] di quello che i teologi chiamano la “indissolubilitas intrinseca matrimonii” l’indissolubilità intrinseca per cui nessuno dei due sposi ha il diritto di considerare il matrimonio come ipso facto sciolto» (21); contemporaneamente, però, si riconosce «la possibilità di una “solubilitas extrinseca”, cioè di uno scioglimento del matrimonio mediante l’autorità della Chiesa dopo il discernimento di casi particolari» (22). Di fatto la decisione finale è tale in cui i due aspetti — indissolubilità intrinseca e estrinseca — finiscono per coincidere. La formula prescelta non è però direttamente una definizione di fede divina, ma, secondo padre Fransen, di «fede ecclesiastica» (23), la quale però — intenzionalmente e chiaramente — non intende includere nella condanna la prassi seguita dai greci (24).
I teologi hanno creato una terminologia tecnica che può risultare difficilmente comprensibile ai non addetti ai lavori: la distinzione fra indissolubilitas intrinseca e indissolubilitas-solubilitas extrinseca. Il valore della distinzione è però tutto sommato chiaro. Esiste una indissolubilitas intrinseca, per cui una volta che vi è il matrimonio sacramento questo non può più essere sciolto per nessuna ragione. Si ammette tuttavia una solubilitas extrinseca a causa della debolezza umana, per cui la Chiesa ha il potere non di sciogliere il matrimonio sacramento (indissolubilitas intrinseca) ma di permettere una convivenza ulteriore accanto al matrimonio sacramento che rimane intatto. Questa è la prassi dei «greci», cioè dei cristiani ortodossi, i quali — in determinati casi — celebrano un altro matrimonio di natura penitenziale in virtù della oikonomía, cioè della misericordia della Chiesa. Il Concilio di Trento aveva definito due cose: direttamente — in virtù del potere che la Chiesa ha di determinare le condizioni di applicazione del matrimonio — una indissolubilitatem extrinsecam dello stesso e indirettamente la indissolubilitatem intrinsecam. Solo quest’ultima è dogma di fede, perché la indissolubilitatem extrinsecam è decisa solo in virtù del potere disciplinare della Chiesa; tanto che il Concilio decise di escludere dalla sua decisione e dall’anatema connessovi la prassi dei greci, continuando in ciò la linea già seguita al Concilio di Firenze, nel 1439. Con l’Amoris laetitia il Papa riapre questa possibilità con una prassi diversa da quella seguita dagli ortodossi. La decisione, infatti, è presa all’interno del giudizio tenuto in confessionale, dopo un adeguato percorso penitenziale per accertare che gli sposi, o almeno uno dei due, hanno la sincera intenzione di seguire quanto la Chiesa prescrive, sono pentiti del male commesso, ormai non più rimediabile, e intendono proseguire sulle vie indicate dalla legge di Cristo. Non viene dunque né celebrato né benedetto un nuovo matrimonio penitenziale ma viene ritenuto sufficiente il matrimonio civile in cui già vivono. Il Concilio di Trento, definendo l’indissolubilità estrinseca con esclusione della prassi dei greci, ha di fatto definito una solubilità estrinseca. La prassi decisa è quella dell’indissolubilità, ma non così assoluta da non poter ammettere eccezioni qualora in futuro così decidesse la Chiesa.
Qual è il valore autoritativo di «Amoris laetitia»?
A questo punto, e solo a questo punto, mi permetto di esaminare il valore autoritativo del documento. Perché solo a questo punto? Per sfuggire alla facile obiezione che obbedendo non si ragiona più, che si è gettato il cervello all’ammasso, cadendo a capofitto nella più bieca e reazionaria «papolatria». Introdurre l’argomento di autorità solo a questo punto è un modo per aiutare a capire che si pensa in un certo modo perché si hanno delle ragioni, anche se nella ricerca di queste ragioni ci si è lasciati docilmente guidare dall’autorità della Chiesa.
Abbiamo letto di tutto, anche che l’Amoris laetitia non è magistero. Il Papa, infatti, afferma di non voler risolvere tutte le questioni sorte durante la discussione che ha animato i due sinodi sulla famiglia. Ma il compito del magistero non è sempre quello di mettere termine alle discussioni. In base al principio più volte invocato che «il tempo è superiore allo spazio» (25), a volte ritiene opportuno lasciare che il tempo determini quale soluzione sia vera e più adatta alle necessità di una certa situazione storica senza determinare con un decreto puntuale quale debba essere accettata nello spazio attuale. Così per esempio è avvenuto nella cosiddetta Quaestio de auxiliis gratiae, «La questione degli aiuti della grazia»: dopo un dibattito lungo e a tratti «feroce», Papa Paolo V (1605-1621) chiuse d’autorità la discussione senza peraltro risolverla, ma semplicemente ordinando «che nel trattare questa questione, nessuno attribuisca o infligga una qualche censura alla parte a lui opposta» (26).
«Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr. Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, “le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato”» (n. 3).
Che cosa ci dice la ragione guidata dalla fede o la fede che cerca ragioni?
Riascoltiamo il «presupposto» che sant’Ignazio pone all’inizio degli Esercizi Spirituali: «In primo luogo […] occorre presupporre che ogni buon cristiano debba essere più disposto a interpretare una affermazione oscura del prossimo in senso buono che a condannarla. Se non può giustificarla in nessun modo, si faccia spiegare come egli la intende, e se il senso non è proprio corretto, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi convenienti perché la sua comprensione sia sana e sia liberato dall’errore» (27). Notiamo come egli consideri questo atteggiamento proprio di ogni cristiano nei confronti non solo di un altro cristiano ma di qualunque uomo. Il criterio della «benevolenza interpretativa» è un criterio-base di qualunque interpretazione e da prendere terribilmente sul serio. Conosce, infatti, almeno due tappe: l’atteggiamento positivo di base a priori, seguito da una ricerca mediante domande, che può essere intesa anche come uno sforzo oggettivo di capire, per esempio leggendo con molta e ripetuta attenzione quanto l’altro ha scritto. Se il senso risulta oggettivamente scorretto allora subentra la correzione fraterna, cioè la correzione fatta con lo scopo di essere capito dall’altro e di far passare l’altro dall’errore alla verità. Non da solo: ma accompagnato da tutti i mezzi convenienti per aprire all’errante la via della verità (preghiera, esempio, sofferenza offerta, e così via).
E se ci troviamo davanti all’astuzia e all’inganno? Allora essi devono essere smascherati, mettendo in luce la cattiva intenzione che guida la persona nel suo parlare ambiguo e ingannevole. Se chi parla è l’autorità? Se l’autorità è colta come autorità, cioè se si pratica l’obbedienza, allora vale il principio in dubio standum est pro auctoritate, «nel dubbio bisogna stare con l’autorità». Se l’autorità è ingannevole, se vuole condurci fuori strada? Allora, dopo aver condotto una ricerca proporzionata alla serietà della questione, bisogna avere il coraggio di denunciarne apertamente la falsità, che consiste nel non essere l’autorità vera. Se un Papa usa l’astuzia per condurre la Chiesa all’eresia, evidentemente non va obbedito e dev’essere denunciato pubblicamente come un falso Pontefice. Un Papa cattolico che insegna astutamente cose ambigue con lo scopo di trascinare le anime nell’eresia non esiste. Se lo fa non è il Papa. Se il soggetto che propone questi insegnamenti è l’intero collegio episcopale in comunione con il Papa o — il che è lo stesso — il Papa in quanto capo dell’intero collegio episcopale, o addirittura il Papa in quanto definisce un dogma di fede, allora devo ritornare in me stesso e chiedermi sinceramente se quello che a me «sembra» essere sbagliato lo sia veramente, e non sia quindi il caso di cambiare idea, accettando di mente e di cuore quello che la Chiesa gerarchica m’insegna (28).
Che il magistero, cioè l’autorità nella sua funzione d’insegnamento autentico e autorevole, sia soprattutto e originariamente il magistero «ordinario» e solo in modo derivato e secondario il magistero «straordinario», non dovrebbe essere necessario dimostrarlo. Si tratta in fondo di una verità intuitiva per il senso della fede «sano». Il termine stesso «magistero» nasce nel momento in cui appare alla coscienza riflessa della Chiesa la distinzione fra magistero ordinario e straordinario. Se la funzione straordinaria del magistero fosse quella originaria e «normale», la sola davanti alla quale avrebbe senso e significato una vera e propria obbedienza dettata dalla fede, ci troveremmo davanti al paradosso che la Chiesa chiederebbe di essere obbedita nel suo insegnamento con il ritmo di una volta ogni cento anni. Non è così che la Chiesa ha da sempre inteso il rapporto che i suoi fedeli debbono intrattenere con i pastori che insegnano con la stessa autorità di Gesù Cristo: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato» (Lc. 10,16).
Anche qui abbiamo un momento storico «critico» che fa emergere in tutta la sua drammaticità il problema costituito dall’obbedienza dovuta al magistero della Chiesa e a quello papale in modo particolare: è la crisi giansenista. A partire da quel momento la Chiesa moltiplica i suoi insegnamenti relativi all’atteggiamento corretto da tenere davanti al suo insegnamento «ordinario». Ho già elencato questi insegnamenti e a questo elenco rimando (29). Anche qui però vi è stato uno sviluppo teso a precisarlo meglio, distinguendolo con decisione da un mero atteggiamento di esteriore e formale rispetto.
Questo sviluppo si è effettuato nel Concilio Ecumenico Vaticano II al n. 25 della costituzione dogmatica Lumen gentium ed è transitato nel Codice di Diritto Canonico al canone 752: «Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede o i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda» (30).
L’espressione «religioso ossequio dell’intelletto e della volontà» traduce l’atteggiamento corretto del fedele cattolico nei confronti del magistero autentico del Pontefice o dei vescovi in comunione con lui. Si tratta di un ossequio «religioso», cioè espressione della virtù di religione. Non va confuso con un vero e proprio «atto di fede», ma si muove in questo ambito. Non è un semplice atteggiamento di rispetto esteriore e puramente formale, perché deve coinvolgere la mente e il cuore: ossequio dell’intelletto e della volontà. Non riguarda solo la disciplina, ma ha un rapporto stretto e costitutivo con la verità, perché è anche l’intelligenza che viene chiamata in causa.
Riporto qui di seguito il commento al canone 752 a cura della redazione di Quaderni di Diritto Ecclesiale, che mi sembra il miglior commentario attualmente in circolazione: «Il can. raccoglie questa dottrina relativamente ai soggetti universali, il Papa e il Collegio dei vescovi, quando agiscono in virtù del proprio ufficio in materia di fede o di morale e insegnano con autorevolezza una dottrina, pur senza proporla come definitiva (in rapporto al can. 749 si parla in questo caso di magistero autentico universale non infallibile, anche se sarebbe più corretto usare l’espressione magistero autentico, da cui si distingue come forma eccezionale il magistero infallibile). La risposta che i fedeli devono dare a tale insegnamento è quella dell’adesione interiore (il “religioso ossequio dell’intelletto e della volontà”), fondata sull’assistenza divina agli atti del magistero e pertanto sull’intima relazione che esso mantiene con la verità (non è pertanto corretto interpretare il religioso ossequio nei termini di una pura obbedienza disciplinare e ancor meno ridurlo a un mero atteggiamento di rispetto). Tale assenso dipende dal grado di autorevolezza effettivamente inteso dai pastori nel proporre una dottrina (LG 25 offre alcuni criteri: la natura del documento, la frequente riproposizione della stessa dottrina e il tenore dell’espressione verbale), e non ha la caratteristica assoluta e incondizionata dell’assenso di fede, perché l’insegnamento proposto non gode di certezza assoluta (si tratta piuttosto di certezza morale) dell’assenza di errore. Il fedele deve comunque riconoscere al magistero autorevole una presunzione di verità che potrà cedere solo davanti a prove contrarie che risultino evidenti per la coscienza del singolo: in questo caso sarà possibile un disaccordo personale a condizione che esso non degeneri nella forma di un dissenso pubblico […], che compromette il dovere di osservanza della comunione ecclesiale […] e il corretto esercizio degli uffici ecclesiastici» (31).
Questa impostazione deve essere letta senza alcuna pre-comprensione di stampo volontaristico per cui il valore del documento dipenderebbe integralmente dall’impegno che l’autorità ha voluto soggettivamente profondervi. In questo modo verrebbe lasciato in ombra il valore del documento in quanto tale, che testimonia oggettivamente la natura dell’impegno del suo autore. Inoltre, il concetto di «infallibilità» non deve essere inteso in senso esclusivamente univocistico. In realtà l’infallibilità ha, come qualunque concetto teologico, un valore essenzialmente analogico per cui si dà in modi essenzialmente diversi. Un conto è quando connota la verità di una singola proposizione e un conto quando caratterizza tutta la trasmissione del Vangelo da parte della Chiesa nel suo momento «autentico», cioè ad opera della trasmissione apostolica. Essa allora investe la globalità di quanto affermato. Non sono infallibili dunque le singole proposizioni di cui è composto il discorso ma solo quello che il discorso, preso nel suo insieme, intende trasmettere. Di per sé le motivazioni, le formulazioni linguistiche scelte, i fatti addotti a conferma possono contenere errori che non devono però mai essere qualificati come tali da indurre di per sé all’eresia (32). Un conto sono le qualificazioni teologiche e un conto le censure. Il magistero autentico può e deve essere teologicamente qualificato, ma — quando è supremo — mai censurato. Si quis dixerit Ecclesiam errare … anathema sit, «Se qualcuno dice che la Chiesa ha sbagliato … sia anatema».
In mezzo alla strada
La novità è affermata in modo volutamente dimesso. Si direbbe che il Papa intenda solo suggerire e non imporre. Penso che questa interpretazione non sia del tutto sbagliata, ma la formulerei meglio così: il Papa non intende solo «suggerire» ma positivamente insegnare. Rinuncia però a condannare chi intende rimanere su posizioni fissiste, se non richiamando in modo forte il dovere della misericordia: «[…] “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” […]. Ugualmente segnalo che l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”» (n. 305, nota 351).
In fondo, l’atteggiamento del Papa verso chi vive in situazioni «irregolari» è di carattere sostanzialmente missionario. Alcuni lo hanno criticato per la sua distinzione fra missione e proselitismo, dimenticando che queste categorie sono entrate nel linguaggio della Chiesa Cattolica almeno dai tempi del beato Paolo VI (1963-1978). Il proselitismo è il modo aggressivo, quando non umanamente maleducato, con cui il missionario si rivolge al missionato partendo dal denigrare l’esperienza che quest’ultimo sta vivendo. La missione, invece, procede con mitezza e guida alla verità partendo dai valori positivi che, pur nella sua esperienza imperfetta, il missionato già vive. Per esempio, di fronte a un seguace del mormonismo un atteggiamento proselitistico è quello di chi lo avvicina mettendo in ridicolo le «nuove rivelazioni» alla base di questa comunità o insistendo sulle mancanze morali del fondatore. Un atteggiamento missionario partirà invece dai valori che cattolici e mormoni hanno in comune — oggi, per esempio, la lotta contro l’aborto o l’ideologia gender —, mostrando gradualmente come la dottrina cattolica offre il vero e solido quadro di fondamento dei valori che il missionato già vive, e la cui difesa merita di essere elogiata.
Il Papa non vuole giudicare o condannare atteggiamenti che i missionari possono avere utilizzato in epoche passate. Ma ritiene che oggi, tanto più nella «nuova evangelizzazione» in Occidente, dove i cattolici si trovano quasi ovunque in condizione di minoranza, il proselitismo sia del tutto controproducente. Un discorso simile, a ben vedere, vale per le persone che si trovano in situazioni matrimoniali «irregolari», che sono a loro volta maggioritarie almeno nei Paesi occidentali. Come avvicinare queste persone, proponendo loro la verità sul matrimonio cristiano? Un atteggiamento «proselitistico» consisterebbe nell’aggredirle apostrofando la loro condizione, utilizzando esclusivamente termini come adulterio, concubinaggio o fornicazione. Un atteggiamento genuinamente missionario, invece, non nasconde la verità né fa sconti sulla dottrina, ma guida gradualmente a scoprirla partendo dagli elementi imperfetti ma positivi che talora è possibile riscontrare anche nelle situazioni «irregolari»: per esempio, la cura amorevole dei figli nati dalla nuova unione, il rispetto e la fedeltà reciproca, e così via. Beninteso, non si tratterà assolutamente di prendere spunto da questi parziali elementi positivi per concludere che la situazione di queste coppie è oggettivamente e in sé qualcosa di positivo, il che sarebbe contrario alla verità, esattamente come la presenza di valori condivisibili fra i mormoni ovviamente non rende vera la loro dottrina in generale. Ma l’atteggiamento missionario — che il Papa raccomanda con un’indicazione certamente di natura pastorale, però autorevole e parte del magistero — parte da questi elementi positivi, anziché disprezzarli, e cerca di servirsene come piccoli mattoni su cui costruire un itinerario verso la scoperta della verità.
Energiche parole di riprovazione sono invece rivolte dal Papa a coloro che intendessero il suo insegnamento come una rinuncia alla verità di fede del matrimonio indissolubile e aperto alla vita: «Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza: “I giovani battezzati vanno incoraggiati a non esitare dinanzi alla ricchezza che ai loro progetti di amore procura il sacramento del matrimonio, forti del sostegno che ricevono dalla grazia di Cristo e dalla possibilità di partecipare pienamente alla vita della Chiesa”. La tiepidezza, qualsiasi forma di relativismo, o un eccessivo rispetto al momento di proporlo, sarebbero una mancanza di fedeltà al Vangelo e anche una mancanza di amore della Chiesa verso i giovani stessi. Comprendere le situazioni eccezionali non implica mai nascondere la luce dell’ideale più pieno né proporre meno di quanto Gesù offre all’essere umano. Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture» (n. 307).
Il contro-rivoluzionario deve stare attento a non cadere in quella che può essere definita la sua «malattia infantile»: l’estremismo. Non si è più contro-rivoluzionari di altri perché si trasforma tutto in dogma o perché si è favorevoli a un rigorismo sempre più radicale. I dogmi fondamentali della nostra fede sono i dodici articoli del Credo. I comandamenti sono dieci, non undici o dodici, e nemmeno nove. L’entusiasmo del contro-rivoluzionario sta nella sua disponibilità alla lotta per la Verità e la santità. La sua «esagerazione» sta sul versante della fede, della speranza e dell’amore, per i quali non esiste un «troppo». Neppure il minimalismo nella lettura del magistero lo deve conquistare.
Se si può essere nella Chiesa anche perseguendo una prassi diversa da quella insegnata dal Papa, perché allora seguirlo?
Ho un ricordo personale. Un ponte con un passaggio solo pedonale alto su un fiume. Veramente alto, in un punto che potremmo definire un «orrido». Il ponte aveva due ringhiere ai lati. Qualcuno per gioco si diverte a passare il ponte camminando in equilibrio sulla ringhiera. Coraggioso? No: temerario. Qualcuno può anche divertirsi a passare il ponte sporgendosi nel vuoto e aggrappandosi ai suoi bordi… La persona prudente, però, passa il ponte camminando in mezzo alla strada. Il ponte sull’«orrido» del relativismo è il Vangelo annunciato in modo autentico e sicuro dalla Chiesa il cui capo visibile è il Papa.
Note:
(1) Cfr. Francesco, Esortazione apostolica postsinodale «Amoris laetitia» ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, agli sposi cristiani e a tutti i fedeli laici, sull’amore nella famiglia, del 19-3-2016. Tutti i riferimenti numerici fra parentesi tonde nel testo rimandano a questo documento.
(2) Per questa lettura sintetica e globale dell’esortazione, cfr. Laura Boccenti, «Amoris laetitia», La via della misericordia, in questo numero di Cristianità, pp. 5-16.
(3) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, 2005. (Aprile-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 1018-1032 (p. 1028).
(4) Sul punto mi permetto di rimandare ai miei Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, Sugarco, Milano 2011, pp. 68-78 e pp. 143-152, e Riflessioni su «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» e la situazione attuale, in Cristianità, anno XLIV, gennaio-marzo 2016, n. 379, pp. 19-43 (pp. 28-30).
(5) Le Lettere a un provinciale (Lettres écrites par Louis de Montalte à un Provincial de ses amis et aux R.R. Pères Jésuites), meglio note come Le provinciali, sono diciotto lettere scambiate fra due personaggi fittizi, Luis de Montalte e un amico che vive in provincia, cioè lontano da Parigi e dagli ambienti — principalmente quelli dell’Università della Sorbona — che fanno da sfondo alle questioni teologiche e morali dibattute nel testo. L’opera fu scritta da Pascal a partire dal 1656, in occasione della censura pronunciata a danno di Antoine Arnauld (1612-1694) e della sua espulsione dalla Sorbona. In essa Pascal conduce una serrata critica contro la morale dei gesuiti accusati di lassismo. Cfr. Blaise Pascal, Le Provinciali, trad. it., edizione con testo a fronte a cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino 2008.
(6) Pontificio Consiglio per la Famiglia, Vademecum per i confessori su alcuni temi di morale attinenti alla vita coniugale, del 12-2-1997, n. 8.
(7) Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 57.
(8) Cfr. Pio XII, Radiomessaggio sulla coscienza cristiana che deve essere rettamente educata nei giovani, del 23-3-1952, in Acta Apostolicae Sedis, vol. 44 (1952), pp. 270-278 (consultabile nel sito web <http://www.vatican.va/archive/aas/documents/AAS-44-1952-ocr.pdf>; gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 3-6-2016); Idem, Discorso in occasione del congresso della Fédération Mondiale des Jeunesses Féminines Catholiques, del 18-4-1952, ibid., pp. 413-419 (consultabile nel sito web anzidetto); e Sant’Uffizio, Istruzione sull’«Etica della situazione» [De ethica situationis], del 2-2-1956, ibid., vol. 48 (1956), pp. 144-145 (consultabile nel sito web <http://www.vatican.va/archive/aas/documents/AAS-48-1956-ocr.pdf>).
(9) Qualche tempo fa è apparsa un’applicazione nel mondo Apple concepita in modo tale da aiutare la confessione per via informatica e così descritta dagli sviluppatori: «Disegnata per essere usata nel confessionale, quest’applicazione è il sussidio perfetto per ogni penitente. Con un esame di coscienza personalizzato per ogni utente, i profili protetti da una password, e una guida al sacramento che ti segue passo per passo, questa applicazione invita i cattolici a prepararsi con devozione e a prendere parte al rito della penitenza. Gli individui che non praticano il sacramento da qualche tempo troveranno “Confessione: un’applicazione cattolica romana” uno strumento utile e rassicurante». Gli sviluppatori hanno inteso l’applicazione solo come un aiuto a ben confessarsi, ma la Santa Sede ha creduto comunque opportuno intervenire e padre Federico Lombardi S.J., direttore della sala stampa vaticana, si è espresso negativamente, ricordando che la tecnologia non può sostituire il sacramento.
(10) Cfr. mons. Attilio Nicora, Il principio di oralità nel diritto processuale civile italiano e nel diritto processuale canonico, Pontificia Università Gregoriana Editrice, Roma 1977.
(11) Rimando qui all’ottimo Michele Federico Sciacca (1909-1975), L’interiorità oggettiva, 1957, Edizioni L’Epos, Palermo 1989.
(12) In via generale, sulla base dei dati relativi ai conviventi non sposati (cfr. <http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Population_statistics_at_regional_level/it#Nuclei_familiari>), calcolando la percentuale delle coppie sposate in cui almeno uno dei coniugi è divorziato (elaborazione dei dati presenti nella pagina <http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Marriage_and_divorce_statistics#Fewer_marriages.2C_more_divorces.>) e sommando i due dati (conviventi non sposati più matrimoni dove almeno uno dei due coniugi è divorziato, dato che si ricava a sua volta dal numero di divorzi) si arriva al 65 per cento di coppie «irregolari» in Europa.
(13) Si tratta delle due Lettere apostoliche in forma di motu proprio, entrambe del 15-8-2015, «Mitis et misericors Iesus» sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio nel codice dei canoni delle chiese orientali, e «Mitis Iudex Dominus Iesus» sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio nel codice di diritto canonico.
(14) Cfr. Martin Jugie A.A. (1878-1954), Mariage dans l’Église gréco-russe, in Dictionnaire de Théologie Catholique, Letouzey et Anê, Parigi 1926, vol. IX, tomo 2, coll. 2317-2331 (col. 2326).
(15) «La riconciliazione nel sacramento della penitenza — che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico — può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi — quali, ad esempio, l’educazione dei figli — non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”» (San Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica «Familiaris consortio» circa i compiti della famiglia cristiana nel mondo di oggi, del 22-11-1981, n. 84).
(16) Cfr. Melchior Cano, De locis theologicis, a cura di Juan Belda Plans, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 2006, l. VIII, cap. 5; e Jean-Philippe Revel, Traité des sacrements, 7 voll., Les Editions du Cerf, Parigi 2012, vol. VII, Le mariage. Sacrement de l’amour, pp. 454-474 e pp. 536-555.
(17) Cfr. De sacramento matrimonii, Sessio XXIV, can. 7, in Ambrogio Belgeri (a cura di), Canones Tridentini et Vaticani, Palma-Libreria Salesiana, Milano-Torino 1895, pp. 442-447 (p. 442).
(18) Ora raccolti in Piet Frans Fransen, Hermeneutics of the councils and other studies, Leuven University Press, Lovanio 1985.
(19) Ibid., p. 107.
(20) Ibid., p. 130.
(21) Ibid., p. 132.
(22) Ibidem.
(23) Ibid., p. 212.
(24) «Il risultato del dibattito di settembre sul can. 7 può essere riassunto così: la grande maggioranza adesso accetta l’aggiunta “secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli”, cioè considera la dottrina della chiesa sull’indissolubilità del matrimonio in caso di adulterio una verità di fede attinta dal Vangelo e dalla tradizione ed è decisa ad escludere dalla chiesa con la scomunica, i protestanti che non l’accettano, ma non i greci» (Hubert Jedin [1900-1980], Storia del concilio di Trento, volume IV, tomo II, trad. it., 4 voll. in 5 tomi, Morcelliana, Brescia 1981, vol. IV, tomo II, p. 171).
(25) Francesco, Esortazione apostolica «Evangelii gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, del 24-11-2013, n. 222.
(26) Paolo V, Formula pro finiendis disputationibus de auxiliis ad Praepositos Generales O. Pr. et S.I. missa, del 5-9-1607, in Henrich Denzinger (1819-1883) e Adolf Schönmetzer S.J. (1910-1997) (a cura di), Enchiridion symbolorum definitionum et declarationibus de rebus fidei et morum, 36a ed. emendata, Herder, Barcellona-Friburgo in Brisgovia-Roma 1976, n. 1997, pp. 443-444.
(27) Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 22.
(28) «Per essere del tutto concordi e conformi a questa stessa Chiesa cattolica, se ella definisce essere nero ciò che ai nostri occhi appare bianco, dobbiamo anche noi dire che è nero. Bisogna infatti credere senza ombra di dubbio che lo Spirito da cui siamo governati e guidati per la nostra salvezza è lo stesso identico Spirito di Gesù e della Chiesa ortodossa sua sposa. Né è diverso il Dio che una volta ha dato i dieci comandamenti da quello che ora istruisce e regge la Chiesa gerarchica» (Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, Regole per sentire nella Chiesa, Tredicesima regola, n. 365). Il contesto fa agevolmente capire che il senso della parola «definire» in Ignazio era molto diverso e assai più ampio di quello che ha assunto dopo il Concilio Ecumenico Vaticano I (1870-1871).
(29) Cfr. il mio Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, cit., pp. 133-142.
(30) Codice di Diritto Canonico, can. 752 (consultabile nel sito web <http://www.vatican.va/archive/cod-iuris-canonici/ita/documents/cic_libroIII_747-755_it.html#LIBRO_III>).
(31) Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale (a cura di), Codice di Diritto Canonico commentato, Ancora, Milano 2001, Commento al can. 752, pp. 637-638.
(32) Sul punto cfr. il mio Oralità e Magistero. Il problema teologico del magistero ordinario, D’Ettoris, Crotone 2016.